MDLSX. Un folle viaggio alla scoperta dell’identità

Chi si assume l’onere di descrivere, debba farlo di una performance o dell’identità di chi gli sta di fronte, o di se stesso, ha necessità di categorie, etichette se si vuole, insiemi all’interno dei quali inserire ciò che ha di fronte. Spesso non per limitarlo, quanto piuttosto per renderlo comprensibile. Se si ha a che fare con MDLSX, per la regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, andato in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano, questo compito diventa pressoché impossibile, dimostrando che «Una vita con la parola categorie è scrivere con un dito sull’acqua».
Colpa, o forse merito, soprattutto della performer (ché già la categoria attrice sarebbe limitante) Silvia Calderoni, da alcuni anni si è dedicata esclusivamente proprio a MDLSX, con cui viene di fatto identificata. Questa “opera mostro” prende le mosse da alcuni dei più importanti nomi legati alla teoria Queer che, prima che le rabberciate e fuorvianti definizioni di gender prendessero piede, si occupavano di che cosa si intende per “genere” ed “identità”. Calderoni fa sue le riflessioni Judith Butler, Donna Haraway e P.B. Preciado.

Non si pensi di avere a che fare con una dichiarazione politica pura e semplice. O meglio, senz’altro è anche questo, ma è la forma a sorprendere. Accanto a citazioni estemporanee delle studiose, lette spesso dando le spalle al pubblico, c’è molto di più. C’è, debordante, la Calderoni stessa. Talora attraverso un grande oblò che rimanda le immagini del suo corpo, dei capelli biondo platino cotonati. Talaltra il suo corpo si espone, senza filtri, tra luci stroboscopiche di Alessandro Spirli, una incessante playlist di ventuno tracce che ospita interpreti come Air e Placebo, di cui la Calderoni si fa anche DJ.

Tutta la prima parte dello spettacolo è una vorticosa girandola di suggestioni slegate, di movimenti scomposti, di messa in mostra del corpo androgino dell’interprete. È difficile individuare un fil rouge in una performance lisergica, il cui obiettivo dichiarato è quello di sfuggire da qualsiasi definizione. Esagerare, spiazzare, inquietare. Il primo filo conduttore sembra quello biografico. La drammaturgia, firmata dalla Calderoni insieme a Daniela Nicolò, mescola i mezzi, dalla musica, alla parola porta attraverso un microfono di quelli che siamo abituati a vedere sui ring della boxe americana, ai filmati di famiglia della stessa interprete. Il febbrile mostrarsi – senza lesinare tanto sulle proprie nudità, quanto sui colori fluorescenti dell’ambiente e degli abiti – sembra avere l’obiettivo di sconvolgere. Ma attraverso questo mezzo, affermare. Le suggestioni biografiche della Calderoni si confondono infatti con il reale architrave di questo spettacolo, il romanzo Middlesex, di Jeffrey Eugenides, in cui questa sorta di viaggio sotto LSD si precisa in un viaggio concreto, quello di Cal, nata Calliope, ermafrodito XY cresciuto come donna ma che a quattordici anni, in quello che l’enciclopedia chiama “mostro”, ritrova se stesso, iniziando a vivere come uomo.
Senza perdere la sua natura caotica e provocatoria su questo crinale tra biografia e fiction (anche questo confine, come tutti gli altri, resta per scelta inespresso) lo spettacolo si spiega e offre gli strumenti per interpretare il senso di straniamento che impone allo spettatore.
Uno straniamento che appare quando si cerca di ridurre a un’unicità la molteplicità della vita umana, cui questo spettacolo fa da specchio, perché »«siamo tutti fatti di molte parti, altre metà, non solo io».

Si tratta di un lavoro indubbiamente originale, le cui scelte sceniche lo rendono adatto solo a chi sia disposto ad entrare senza preconcetti nel gioco delle sue suggestioni. A costoro saprà senza dubbio smuovere emozioni raramente sollecitate dal teatro più classicamente inteso. Gli altri è verosimile che possano uscire dalla sala disorientati dagli eccessi e dai colori violenti di un’opera che senz’altro riesce nel programmatico compito di sfuggire al definibile.
Inutile chiedersi se si tratti o meno di un modo fruttuoso di approcciarsi al tema e alle esistenze delle persone che gli studi in proposito chiamano intersex. Il compito dell’arte – sembra dire MDLSX, non è essere didattica, ma evocare, avvincere. Tutt’al più suscitare, con qualsiasi mezzo ritenga opportuno, la volontà di conoscere.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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