I S.I.L.O.S di Pietro Fortuna tra le colonne del mattatoio e altri racconti

Basterebbe riflettere all’obbligo di guardare le cose radenti a delle pareti curve, anziché su una superficie piana distante di fronte a noi, come secoli d’impianto prospettico della nostra percezione ci hanno abituato a fare, per intuire immediatamente la portata del capovolgimento che Pietro Fortuna ci ha suggerito con la sua ultima, enigmatica mostra.

E’ un compendio del suo lavoro che si fa percorrere insinuandosi tra le colonne di ghisa degli ambienti dell’ex Mattatoio di Macro Testaccio, sgusciando dentro e fuori, da un lato e dall’altro, ma sempre in tondo, come su di un rotolo che ogni volta si riavvolge e si chiude.
Ognuno dei cinque monumentali S.I.L.O.S, formati da una grande fascia di metallo arrotolata su se stessa, rappresenta in qualche modo un episodio compiuto che ci lascia all’oscuro, però, di ciò che contiene all’interno, ossia del suo contenuto, del suo perché. Ne emana soltanto l’imponente sensazione d’ignoto intorno a cui avvitiamo il nostro cammino quando proviamo a leggere sulle pareti ricurve le frasi che ci obbligano a sostare in prossimità del vuoto condensato dietro quella parete continua e a porci in ascolto di un suo possibile respiro.

Invece che dentro le coordinate di una visione spaziale distante, Pietro Fortuna prova a introdurci a una visione temporale, un paradosso, dato che il tempo non approda mai alla “visione” di un’occhiata nitida d’insieme.
Il “vedere”, qui è da intendere come un atto puramente mentale, dacché il tempo non è mai distante, ma qui dove ci troviamo, avvicinando per evocazione la memoria al presente, sospeso tra un appena passato e un futuro imminente, tanto da farci ritrovare ciò che ci sembrava di aver lasciato dietro di noi, nuovamente davanti a noi.
Forse è questo di cui parla Fortuna quando afferma “l’arte è profezia e non previsione”. La profezia è un attraversamento dello spazio che annulla ogni scansione temporale, trasferendo nel futuro ciò che era stato intravisto già in un momento precedente; cose anche fra loro distanti si situano, allora, nello stesso campo, senza soluzione di continuità.
La profezia è la “doppia vista” a cui allude Schopenhauer, definendola come una “deuteroscopia a ritroso”.
Sono come dei grandi punti i cilindri che Fortuna ha definito con l’acronimo S.I.L.O.S – Senza Illusione Le Occasioni Svaniscono, ma ogni lettera può essere sostituita secondo le preferenze di un diverso interprete – Marcel Duchamp ce lo aveva insegnato – e possiamo già immaginare, allora, che nella loro “chiusa apertura” essi funzionino al modo di grandi condensatori e trasformatori di senso, il quale notoriamente non ha direzione univoca, né dimensione prospettica, ma si addensa e ripiana a seconda dei momenti, proprio come dimostrava il romanzo di Lewis Carroll, Alice in Wonderland, che non è frutto di fantasia, ma di una concezione logico-matematica.
Qui il momento non è, tuttavia, iscritto nell’opera, accadrà nelle nostre menti nell’attimo di sospensione da un precedente fluire senza scopo, là dove l’opera, nella sua taciturna presenza, si manifesterà a chi la vedrà nuovamente come per illuminazione, riavvicinando gli attimi in cui essa si è dispiegata per toccare, poi, di nuovo, il punto dove essa ormai si trova ed è, con la consistenza del suo stare.
Il dépend de celui qui passe – Que je sois tombe ou trésor – Que je parle ou me taise – Ceci ne tient qu’a toi – Ami n’entre pas sans désir  è il monito di Paul Valéry che leggiamo, come all’ingresso del Palais de Chaillot, su uno dei recipienti, al pari di tutti gli altri, realizzato per questa occasione.

Benché inediti, anche molti altri oggetti rievocano situazioni passate, ma collocati nel nuovo contesto essi trovano l’abbrivio per far scattare il senso dell’intera opera di Pietro Fortuna ben oltre il pregresso e fanno compiere alla sua concezione un salto che ci immette istantaneamente dentro una visione inusitata perché decisamente antiprospettica.
Un’operazione simile a quella che fa il cinema con la “ripresa”, il cinema a cui tante volte lo stesso Fortuna ha fatto allusione. Un cinema senza cinema, però, come quello del proiettore posato su uno dei tavoli da giardino, che tagliano diagonalmente l’ambiente, da cui qualsiasi proiezione è assente.

E infatti, su ognuno dei S.I.L.O.S che occupano il grande vano del Mattatoio in appositi rettangoli, dove linee e colori slittano dolcemente, avendo cura di evitare la rigidità dell’angolo retto secondo la tradizione del suprematismo russo e un’araldica di stampo bizantino, sono sistemate torce, armi, fotografie, canne da pesca, libri che fanno parte del vocabolario di Pietro Fortuna, entrando specificamente nel vissuto del suo linguaggio. Siamo noi con il nostro movimento circospetto e intenzionale a far scorrere il libro delle immagini, i capitoli che ne compongono la storia, che si svolge su un orizzonte leggermente più elevato – naturalmente – di quello all’altezza del nostro sguardo dove, in diverse lingue, incrociamo frasi di sapore biblico, versi di poeti come Ezra Pound, di mistici come Meister Eckhart, insieme alla citazione dei titoli di ben conosciuti paragrafi dell’opera dell’artista.
Superati i due ultimi S.I.L.O.S, dove il giallo smagliante ci avvisa che dalla penombra stiamo andando verso la luce che compete agli occhi “lucenti” di Saulo – il rapace che rappresenta “l’atto stesso del vedere”, ma privato del suo oggetto, dunque splendente di vera luce – nascosti da una quinta, appaiono nel buio i filmati dell’artista, che invece di seguire la logica abituale dello sviluppo di un racconto e di movimenti in sequenza, restano all’interno della stessa inquadratura, con gesti ripetitivi ed elementari destinati ad azzerare la cronologia. Quasi un avvertimento che si può tornare indietro e leggere la mostra nell’altro senso, senza che ne risulti un danno, essendo il principio che la informa quello di un nastro che torna su se stesso.

Letto al contrario l’acronimo S.I.L.O.S, si trasforma in S.O.L.I.S.
L’assenza di ogni finalismo, il nulla che sfioriamo, sono destinati a un significare antecedente a ogni significato noi possiamo intenzionalmente imporre alle cose del mondo, la luce che emana da quel nulla è il prodotto del nostro
camminare sulla soglia dell’ombra. Ma c’è un invito a sostare, lì dove anche la parola oracolare, invece che tesa come una freccia pronta a colpirci sfidando la nostra capacità d”intendere e di misurarci con un destino che ci sovrasta, è deposta a cavallo dei tavoli da picnic sulla superficie di un grande foglio su cui è ancora Saulo ad apparire con i suoi occhi glauchi mentre le frasi scivolano indicando una possibile condivisione: You ask me what is that lies before your
eyes ?…And i answer all that which is desirable or indifferent…
Le cose appoggiate sui tavoli sono a portata di sguardo qui, ma anche di mano. Esse stanno tra una seduta e l’altra, interlocutorie, pronte a far da tramite per uno scambio dove non è la definizione ad essere importante, ma il gioco tra le parti. Dunque, la partita resta ancora aperta, tutta da giocare, proprio come avviene nella vita.

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Giovanna dalla Chiesa è storico e critico d'arte. Si è laureata in Storia dell'Arte con una tesi innovativa su Calder all'Università di Roma con G.C. Argan e ha lavorato, in seguito, con Palma Bucarelli presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Vincitrice di una prestigiosa Borsa dell'American Council of Learned Societies nel 1976 è stata affiliata per un anno presso il M.O.M.A di New York, dove ha arricchito le proprie conoscenze. In seguito, i suoi studi su de Chirico di cui è autorevole esperta, l'hanno condotta in svariati centri europei: Parigi, Monaco di Baviera, Atene e Berlino. Ha curato importanti mostre monografiche in sedi pubbliche: Ca' Pesaro, Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Pitti, Ala Napoleonica del Museo Correr, Accademia di Francia. È stata docente di Storia dell'Arte dell'Accademia di Belle Arti di Roma. Ha collaborato con quotidiani e riviste come pubblicista indipendente e curato mostre interdisciplinari e convegni come: Allo Sport l'Omaggio dell'Arte (Giffoni Valle Piana 2001), L'arte in Gioco (MACRO 2003), L'Età Nomade (Campo Boario 2005), Che cosa c'entra la morte? (Aula Magna Liceo Artistico 2006, 3 Giornate di studio su Gino De Dominicis)

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