Il compagno Damien Hirst è vivo e lotta con noi. Un’analisi

D.Hirst, Demon with Bowl

Impressioni tardo-imperiali a Venezia ovvero il compagno Damien è vivo e lotta con noi ovvero alla ricerca del  reale ruolo estetico della forma-merce figurativa contemporanea

Perché cominciare da Damien Hirst? Per il semplice motivo che, tanto per riprendere una categoria althusseriana, la sua mostra surdetermina anche la Biennale di Christine Macel Viva Arte Viva. Diciamo meglio, l’evento espositivo Treasures from the Wreck of the Unbelievable, approntato alla Punta della Dogana e a Palazzo Grassi dalla Fondazione Pinault (curatrice Elena Geuna), condiziona anche la lettura sulla destinalità dell’arte (sistema, produzione e operatori) nella società e cultura contemporanee, che è in qualche misura  il leit-motiv della 57 Esposizione veneziana.

Contrassegnando la sua proposta espositiva come «una Biennale con gli artisti, degli artisti e per gli artisti», la Macel ne disegna il percorso diegetico attraverso nove capitoli (Padiglioni degli Artisti e dei Libri, delle Gioie e Paure ai Giardini, dello Spazio Comune, della Terra, delle Tradizioni, degli Sciamani, Dionisiaco, dei Colori e del Tempo e dell’Infinito all’Arsenale) che dovrebbero articolare l’esperienza artistica in rapporto a se stessa, alla sua fruizione, interazione e dialettica con il contesto sociale nel quale oggi si esplica. Similmente opera anche Hirst, sebbene il suo racconto sia una meta narrazione al cui interno però indizi extradiegetici (che mancano nel plot della Macel) indirizzano meglio il visitatore a tentare traslazioni metaforiche rispetto a quanto gli viene offerto fruitivamente. Per fare un ultimo inciso, è abbastanza singolare che nelle opere selezionate dalla curatrice francese per la Biennale 2017 non vi sia accenno al centenario della Rivoluzione d’ottobre (ricordato, in modo ironico, solo da Tome Adzievski con il film Red Carnival nel padiglione della Macedonia), mentre Hirst attraverso il tema del naufragio sembra richiamarlo in modo enclitico rispetto alla sussistenza, in quanto spettacolar/spettrale relitto, dell’attuale schizoide capitalismo globalizzato.

Veniamo dunque a Treasures… arrivando alla Punta della Dogana,  il visitatore s’imbatte nel gruppo statuario, in purissimo marmo di Carrara, dal titolo The Fate of a banished Man (una sorta di Laocoonte equestre con tanto di serpente acquatico avvinghiato ad un malcapitato cavaliere e al suo ronzino). All’ingresso, ancora dubbioso sul senso recondito di chi sia il destinatario dell’esilio luttuoso annunciato dalla statua (un esemplare più grande della stessa, in bronzo, si trova pure all’attracco in laguna di fronte a Palazzo Grassi),  viene edotto che quanto vedrà è il risultato del ritrovamento (effettuato presumibilmente da Hirst) del relitto della nave Apistos (in greco Incredibile), avvenuto nel 2008 al largo della costa orientale dell’Africa. Si tratta del tesoro (composto di opere d’arte, copie, oggetti, monili, gioielli e simili) accumulato nel II sec. D.C. da un liberto di Antiochia di nome Cif Amotan II (Aulus Calidius Amotan in latino, mentre anagrammato in inglese diviene un più rivelativo I am a Fiction). La sua collezione (ci avverte ancora l’agile catalogo di presentazione), dopo aver riposato in mare per due millenni, viene presentata al pubblico con molti reperti non restaurati (cioè ancora coperti di incrostazioni coralline) e copie contemporanee degli stessi che dovrebbero restituirne lo stato d’apparenza originario.

Questa premessa contribuisce a creare un’aspettativa di esposizione organizzata secondo i criteri filologici degli allestimenti museali di repertorio archeologico. Aspettativa, in certo senso, non smentita ad uno sguardo distratto verso l’articolazione formale con cui gli oggetti sono presentati: ampio respiro spaziale nelle sale centrali per le statue, ambienti più ovattati con grandi teche in vetro per gioielli, bigiotteria, piccola scultura, armi e oggettistica pubblica e privata. Definendo meglio i singoli oggetti, però, già al piano terra della sala uno, questi appaiono come parti di un set cinematografico che richiama la parvenza delle produzioni cinematografiche hollywoodiane (in particolare, l’archeo-action-fiction alla Indiana Jones o la saga fantasy disneiana de I Pirati dei Caraibi). Inoltre, fin dal primo grande reperto esposto, il gigantesco bronzo Calendar Stone coperto di incrostazioni marine, salta agli occhi l’incongruenza spazio-temporale degli elementi della collezione di Amotan (riproposta da Hirst). Infatti, il calendario (che ad osservazione attenta mostra di essere un artefatto contemporaneo, reso acconciamente corroso dalla salsedine e dai sedimenti  mediante un accorto trattamento di colorazione sinestetica  del metallo) è in tutto simile alla Piedra del Sol, cioè al più grande calendario litico degli Atzechi, conservata al Museo Nacional de Antropologia di Città del Messico. Al di là della sua improbabile collocazione su una nave romana del II sec. D.C., le note in catalogo alludono alla funzione di controllo, rispetto ad eventi sacri, predizioni e cerimonie, che le Piedras esercitavano sulla popolazione Maya. Partendo da questo assunto di potere, ci dicono ancora le indicazioni introduttive, William Burroughs concepì nel 1961 il romanzo The Soft Machine, in cui portando al massimo livello la tecnica del cut up, inventata da Brion Gysin, narra le avventure a spasso nel tempo di un uomo incarnatosi in un ragazzo messicano che torna all’epoca dei Maya. Burroughs, utilizzando il cut up, cioè rimontando in modo aleatorio capitoli del libro in precedenza tagliati, voleva alludere “alla natura costruita della realtà”, che viene suggerita a livello di contenuti dal tema del viaggio nello spazio e nel tempo, proprio mentre è esperita dal lettore in termini formali attraverso il montaggio irrelato del testo. In pratica, sin dal primo impatto con le opere (anche a Palazzo Grassi, il gigantesco Demon with Bowl che occupa l’atrio  dell’edificio è ripreso da Ghost of a Flea, un’opera di William Blake, per avvalorare la commistione di classicismo e visionarietà proposta dalla mostra), Hirst svela le sue carte: in arte tutto è finzione, ma allo stesso tempo se c’è una cosa che può sottenderla questa è la realtà (gli artifici costruttivi che inducono impressioni percettive sinestetiche riguardo ai materiali delle sculture, dove il bronzo sembra plastica o corallo e la resina bronzo, si appuntano sempre sulla qualità eccelsa e concreta degli stessi. Quest’evidenza perturbante raggiunge la sua acme nell’ artificialità reale delle raccolte di gioielli e metalli preziosi, in cui vetro alluminio e silicone  affiancano oro, argento, quarzo, ametista, smeraldi, rubini,  malachite, ematite ecc.).

Calendar Stone e Demon with Bowl sono puntelli extradiegetici che consentono all’affabulatore Hirst di intervenire all’interno della propria narrazione per sottolinearne le chiavi allegoriche e metaforiche rispetto ai punti salienti della sua poetica. Indicazioni di questo tipo sono presenti in abbondanza  alla Dogana (ma anche a Palazzo Grassi), disseminate tra la miriade di reperti che dovrebbero esemplificare il sincretismo cultural-religioso e il gusto collezionistico della tarda romanità.

Così, lasciati alle spalle l’imponente incrostata Diver (con il light box a muro che ne fissa fotograficamente il ritorno in superficie dal fondale marino) e l’ancor più maestoso The Warrior and the Bear,  riferibili ad iconografie iniziatiche etrusco-greche, il culto solare di Aton viene richiamato nello sguardo rivolto al cielo del busto Aten, in marmo rosso, che ha le fattezze della cantante Rihanna, mentre il ritratto del collezionista, invece delle sembianze di Amotan (insieme a Topolino), presenta quelle di Hirst. Risulta quindi chiaro che, sotto la maschera di mostrare un repertorio ascrivibile alla produzione figurativa e artigianale di lusso del periodo storico descrittoci dalle cronache di Dione Cassio o Erodiano, tutto quanto vediamo compete  invece all’esperienza del nostro tempo.

Trasfigurati, attraverso la ricostruzione dell’aura di campionatura scientifica di un patrimonio artistico appartenuto ad un collezionista arricchitosi quasi due millenni fa, gli specimen in mostra riguardano invece la pertinenza ontologica delle opere  e del ruolo del collezionismo all’interno del sistema dell’arte odierni. O meglio, all’interno del testo di Hirst (naufragio e recupero di un tesoro antico), i sememi opere e collezionista articolano slittamenti metonimici di significato (in sintonia con la semantica enciclopedica di cui parlava Eco) che competono allo specifico contemporaneo nell’allestimento scenografico di una mostra di merci particolari quali sono i manufatti d’arte per un pubblico particolare qual è quello composto dai grandi collezionisti contemporanei. Va da sé che riguardo al primo punto, Hirst (marxianamente) ha precisa contezza che il valore di scambio segnico, sul quale Baudrillard pensava di attestare il surplus valoriale delle opere, rispetto a quello delle merci comuni,  agganciandolo agli indici elitari di status symbol culturale ed economico, si è trasformato oggi in un vettore identitario così pervasivo nell’(in)coscienza dei consumatori che abbisogna di un riaggiornamento come valore di scambio scenico. Questo “subordinato valore d’uso apparente”, per citare la formula di Gernot Böhme, che l’ha proposta, nel quadro della sua “estetica delle atmosfere”, come imprescindibile per comprendere la dinamica attuale della produzione e consumabilità delle merci in quanto quest’ultime sono  “funzionali alla vendita di stili di vita e di esistenze surrogate dall’immaginario dei  media”, (e non più pertinenti ad ambiti di semplice utilizzabilità e scambio), è anche l’unico valore che circoscrive ormai la forma-merce figurativa. Non tanto l’opera d’arte è ‘scaduta’ al livello delle merci, ma piuttosto sono queste che nella propria specifica forma scenografica puntellano il loro valore sull’apparenza e messa in scena. Più che mai l’opera d’arte, per prevalere all’interno dell’estetizzazione generale del consumo (di cui il mercato del gusto è l’indicatore più alto), deve volgersi alla costruzione di atmosfere che, come l’antica pregnanza auratica, possano esplicarsi  in termini ingressivi, cioè favorendo “disposizioni d’animo indefinitamente estese nello spazio[1] e discrepanti (in cui queste disposizioni possano mutare in termini quasi oggettivi e non solo soggettivamente sentimentali). Il carattere di presenzialità dell’opera (che per quanto riguarda le merci è sostituito dall’affabulazione immaginaria della pubblicità) viene dunque a costituire (attraverso il gradiente atmosferico) “il modo specifico in cui essa ci impressiona[2]  e, in certa misura, funziona come  piano trascendentale in grado di organizzare anche il suo contenuto.

Hirst ne trae al meglio le conseguenze, spingendo il proprio ideismo post-neo-concettuale (ancora avvertibile nella maniacale e superba organizzazione del lavoro artigianale per la produzione concreta dei manufatti in mostra) verso le frontiere di un articolato e sovrapposto fenomenismo espositivo. Con puntuale sagacia, Cristina Villani – qui su art a part of cult(ure) – ha scritto che Punta della Dogana e Palazzo Grassi metonimicamente rivelano che il vero contenitore dell’esposizione “è Venezia che esce dalle acque, come Venere, e dalle vetrate dei due palazzi si intromette fra le opere”[3] . Quest’inimitabile e unica eccedenza atmosferica addotta dall’intracornice della città lagunare contribuisce a calettare l’esperienza percettiva dell’insieme della mostra verso un’effettualità affettiva intrisa di stupore e meraviglia. La riprova che non può esserci fondale d’accoglienza ostensiva paragonabile ci viene offerto in contemporanea dalle vetrine di Vuitton (proprietà Arnault) in contrada San Marco, da cui occhieggia lo spirito di Jeff Koons, quale taste maker e consulente per la maison, nel suggerire il brand visivo delle borsette griffando la pelle con immagini tratte da opere di grandi maestri della storia dell’arte ( le ultime creazioni citavano Leonardo, Fragonard e Van Gogh).

L’oscillazione, non casuale, a diapason di Arnault/Koons con Pinault/Hirst, ci riporta al tema del collezionismo nella prospettiva di Hirst. Infatti, le possibili articolazioni interpretative riguardo a chi spetti il ruolo dell’attante principale in Treasures…sono iscritte in un gioco di sineddochi a matrioska praticamente infinito. Al di là dell’evidente rimando di Amotan con Hirst, quest’ultimo fa da velo a Pinault, che è anche  suo partner economico  per l’allestimento e promozione dell’intero progetto. Questo, una volta esaurita la tempistica espositiva, sarà messo all’asta (presumibilmente da Christie’s, il cui proprietario è Pinault) per essere devoluto alla schiera dei grandi collezionisti mondiali dell’artista inglese. Ora, riguardando i comparti tematici della mostra (statuaria pseudo-storica, pseudo-religiosa, pseudo-erotica e pseudo-fantastica, vasellame e brocche, bigiotteria, gioielli e monete, elmi ed armi, arredi ed oggetti funerari, valve e conchiglie, tra gli altri), sarebbe persino possibile risalire con precisione sociologica alla tipologia dei vari destinatari. Di sicuro, la pseudo-ritrattistica presente in quelli che abbiamo chiamato inserti extradiegetici (oltre a Rihanna, alla Dogana il volto del marmo Unknown Pharaoh è quello di Pharrel Williams, mentre a Palazzo Grassi il bronzo a foglia d’oro Aspect of Katie Ishtar ¥o-landi  ritrae  la cantante sudafricana  Yolandi Visser)  sembra pensata su commissione, presupponendo quindi una clientela del jet-set musicale. mentre a più prosaiche nicchie  di estimatori dei mercati orientale e occidentale sembrano destinati prodotti quali Bacchus (con fallocratici satiri), The Minotaur (col figlio di Pasife nell’atto di violentare una vergine) o i maestosi bronzi di Hydra and Kali ( in cui la sensuale facondia callipigica della dea contrasta con la lubrica ferina violenza dell’Idra), laddove l’oggettistica in materiale prezioso dovrebbe interessare maggiormente un bacino d’utenza medio-orientale.

Sotto la meditata orchestrazione dell’evento (la cui messa in cantiere risale ad una decina d’anni), per ripresentarsi al pubblico dopo un periodo di appannamento delle sue quotazioni, Hirst inscrive  e lascia insistere sintomaticamente un commento preciso e circostanziato (se non apertamente critico) sia nei confronti del prodotto artistico (inteso e come gadget culturale di lusso per facoltosi compratori e come campione valoriale eccentrico rispetto alla sintesi sociale e alla dinamica di scambio delle merci comuni) sia relativamente alla struttura ricettiva che dovrebbe sedimentarne il valore attraverso il possesso prolungato o incrementarlo mediante  transazioni speculative al rialzo.

A monte di questo fascio di suggestioni, cosa propone invece Viva Arte Viva?

Il palinsesto della Macel, come già scritto, procede a tappe. Volendolo seguire, sin dal paragrafo introduttivo che comincia all’Arsenale, dobbiamo calarci nel presunto crogiuolo immaginativo che circostanzia e alimenta la soggettiva pratica creativa di ciascun artista. La curatrice si fa carico di segmentarla nei trans-padiglioni, situando spazialmente in certo qual modo i diversi plessi concettuali e tematici senza tuttavia operare un’azione di sintesi, che rimane a discrezione dell’osservatore. Così, sotto il collante ideale del collettivo, nel quadro più ampio di istanze antropologiche che guardano all’esperienza artistica come principiale per lo sviluppo armonioso della comunità, sono raggruppati  nello Spazio Comune i primi 13 artisti. Tra questi spiccano i lavori di Maria Lai e Lee Mingwei, in cui l’utilizzo di strisce di tela e fili per connettere superfici o riparare indumenti concretizza visivamente l’empito relazionale alla base dell’ideazione, rendendo percepibile il legame e l’unione tra uomo e natura o tra individuo ed individuo. Al medesimo registro referenziale appartengono gli interventi di Anna Halprin, David Medalla e Franz Erhard Walther (che ha vinto il Leone d’oro 2017 con le sue creazioni interdisciplinari dove pittura, scultura e performance sono pensate in relazione alla loro possibile abitabilità corporale).

Altri 17 artisti dialogano nel successivo comparto della terra, incentrato sulla visualizzazione di temi, problematiche ed utopie ecologiche. Qui se dovessimo rintracciare un semema-base a cui poter sussumere la varietà degli approcci, potremmo indicarlo nel rapporto tra l’opera e la vita, intendendo il confronto come circospezione teorica e pratica nei riguardi dell’ambiente e delle risorse naturali. Tuttavia, la diversità degli interventi di Charles Atlas e Nicolás García Uriburu, piuttosto che di Petrit Halilai o Michel Blazy, è tale che risulta difficile poterla pienamente armonizzare anche in una prospettiva di insiemistica a maglie larghe. In realtà, Atlas e Halilaj una cosa in comune ce l’hanno: la menzione speciale loro attribuita dalla giuria internazionale (Manuel J.Borja-Villel, Francesca Alfano Miglietti, Amy Cheng, Ntome Edjabe e Mark Godfrey).

Atlas presenta un video con sequenze di quarantaquattro tramonti, un orologio digitale che scandisce in 18 minuti il tempo che il sole impiega a tramontare e un altro video in cui compare la drag queen Lady Bunny (che parla di sé e canta “dopo i tramonti” con piglio alla Gloria Gaynor una canzone da disco music). La giuria ha trovato la sua installazione di «grande splendore visivo e sofisticato montaggio in cui le immagini della bellezza naturale e dell’artifizio artificiale sono accompagnate da un racconto che affronta i problemi di indigenza, frustrazione, sessualità e classe». In pratica, una declinazione immaginale che varia dalla fascinazione verso il dato naturale all’ecologia della mente di Lady Bunny, il cui sostrato egologico di personaggio artificiale è esso stesso costruito e condizionato da artifici sociali di genere e classe. Invece, per Halilaj (presente pure ai Giardini) si parla di “interventi che evidenziano il legame tra gli spazi architettonici dell’Arsenale e del Padiglione Centrale e l’opera, in una relazione tra la storia del Kosovo, i suoi ricordi d’infanzia e la creazione”. L’artista, aiutato dalla madre, ha cucito con tessuti tipici della sua patria d’origine grandi costumi a forma di falena (indossati anche per interventi performativi), che rimandano ai suoi ricordi d’infanzia e simboleggiano nello stesso tempo la propria metamorfosi psico-emotiva rispetto alle vicende della guerra kosovara e del conseguente esilio in Italia per completare gli studi superiori. Il rapporto creativo con la genitrice introduce ulteriormente risonanze metonimiche relative alla patria, intesa come Heimat in grado di definire l’identità personale e sociale, e alle specifiche dinamiche psicologiche familiari con cui il cammino identitario sempre deve parametrarsi.

Nei lavori di Blazy (presente anch’egli al Giardino delle Vergini) l’organicità non è metaforica. Le sue ‘creazioni’ sono organismi che sviluppano un ciclo vitale effettivo. All’Arsenale, la terra è l’humus che fa crescere, dentro scarpe da ginnastica presentate su trespoli come in una vetrina di negozio, piante di vario genere (Collection de Chaussures).

Al Giardino, in Forêt de balais, egli utilizza scope di saggina, piantate nel terreno,  i cui gambi cosparsi di semi permettono agli utensili di tornare a ricostituirsi nel loro stato originario come una foresta dall’insolito profilo. L’artista declina in chiave puramente ‘botanica’ (anche se con impatto sensibile efficace)  interrogazioni che la bioarte (penso al lavoro di Eduardo Kac) sviluppa, in rapporto alle connessioni tra biologia e informatica, lungo il registro delle “implicazioni etiche, psicologiche, economiche e culturali delle biotecnologie[4].

Di Uriburu, mancato l’anno scorso e il cui lascito artistico è gestito dalla galleria del mio amico Henrique Faria, sono visibili fotografie acquerellate del suo intervento di colorazione  del Canal Grande durante la Biennale del ’68. Versando 30 chili di fluorosceina, l’artista riuscì a cangiare per la durata di 8 ore l’acqua torbida del canale in un verde brillante grazie alla fotosintesi dei microorganismi marini col liquido d’immissione. L’operazione, consona con la sua poetica di land-artista ‘politico’, era accompagnata da un manifesto in cui venivano ipotizzate come componenti formali dell’opera d’arte avvenire l’autonomia, la fluidità, la dinamicità e la durata effimera.

Non è compito di questa (già estesa) disamina rendere conto degli artisti dei padiglioni successivi (lo faremo in altra occasione), perché sia quello delle Tradizioni ( in cui viene articolato il rapporto con la storia dell’arte e, in misura segmentata,  con il Modernismo)  sia quelli degli Sciamani, Dionisiaco, Colori, del Tempo e dell’Infinito presentano particolarità troppo ramificate, impossibilitando   uno sguardo mirato in direzione di un preciso orientamento della pratica artistica (se non quello dell’effettivo consistere e coesistere temporali) e rispetto alla sua pertinenza sociale e per quanto concerne un suo riallineamento teorico (in linea con gli orizzonti aperti dagli sviluppi dell’Estetica contemporanea). Da quanto scritto in precedenza, questo tipo di orientamento risulta molto più evidente nell’operazione espositiva di Damien Hirst.

Concludo ricordando un’artista, il cui lavoro conosco bene dal Whitney Biennial del 2014: Sheila Hicks. La sua installazione chiude il Padiglione dei colori, quello in cui la pertinenza percettiva e fenomenologica dell’esperienza artistica può essere inglobata più facilmente all’interno dell’esperienza estetica in generale. La Hicks, allieva di Josef Albers e George Kubler, ammassa centinaia di balle di pura fibra pigmentata sulla parete di fondo dell’Arsenale che, mentre in lontananza appaiono come una montagna di colori il cui volume invade lo spazio circostante, da vicino invitano al contatto e al riposo. L’insieme è, per sua definizione, una “tessitura senza pregiudizio” (l’artista è un’esperta delle tradizioni tessili latino-americane) in cui i confini tra design, architettura, artigianato e belle arti tendono a sfumare. Realmente la sua ricerca figurativa sembra voler andare  verso un  approccio ecologico che abbia “a che fare col rapporto tra le qualità dell’ambiente e il modo di sentirsi dell’uomo[5]. Questo sbocco è quello configurato dalla nuova estetica  di Gernot Böhme come scienza della percezione, incentrata sul concetto di atmosfera in quanto spazio  che pone in reciproca relazione i due termini oggettivo (naturale/ambientale) e soggettivo (percettivo/simbolico). Attraverso l’analisi del concetto di aura in Walter Benjamin piuttosto che l’erotica cosmogonica di Klages o la filosofia corporale di Hermann Schmitz, Böhme allarga l’esperienza estetica oltre le sfere del giudizio e della comunicazione (relative in primis alla produzione e ricezione delle opere d’arte) per rivendicare medesima dignità ontologica alla sensibilità corporea e alla qualità sentimentale spazio/temporale. La specificità atmosferica (alla base della fenomenologia estetica) articola, attraverso il profilarsi estatico delle cose, degli esseri umani e delle loro costellazioni, il campo di comunanza tra percipiente e percepito quale sintesi tra la realtà della sfera presenziale di quest’ultimo (la natura, il mondo) e l’avvertenza dell’esser-ci corporale del primo (l’uomo).

Note

 

 

 

 

Note

1.  Gernot Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena, tr.it. a cura di Tonino Griffero, Milano, Christian Marinotti Ed., 2010, p.84.

2.  pp. 89-90.

3.  Cristina Villani, Cultura vs. Controcultura. Dirige l’incontro Mr. Damien Hirst a Venezia in Palazzo Grassi e a Punta della Dogana, in Artapartofcult(ure), 1 giugno 2017.

4.  Eduardo Kac, Telepresenza e Bioarte,ed.it. a cura di Pier Luigi Capucci e Franco Torriani, Bologna, Clueb, 2016, p.211. Appare singolare che anche riguardo a questo campo, ‘eccentrico’ rispetto alla sua poetica, Hirst dimostri di essere sintonico con le novità che l’estetica contemporanea sta approntando per la pratica artistica. Infatti, sempre come inserzione extradiegetica, la scultura Remnants of Apollo (alla Dogana) dialettizza, in chiave di citazione classica ironica, le relazioni dell’ arte con la scienza, l’informazione e la biotecnologia. Riprendendo l’iconografia füssliana del colosso di Costantino, l’artista allude pure all’impronta di Armstrong sulla luna, dopo la sua discesa dall’Apollo 11, mostrando un ‘piedone’ del dio del sole sul quale si trova un topo con un orecchio umano sul dorso. Qui sono intrecciati due ulteriori rimandi allusivi: la fama di signore  dei topi di Apollo (era detto anche Sminteo nella mitologia graca) e il risultato del trapianto di un organo umano (effettuato dal biologo Charles Vacanti) su di un ratto a scopi puramente ‘estetici’.

5.  Böhme, L’atmosfera come concetto fondamentale di una nuova estetica, in Il bello dell’esperienza, a cura di A.Bertinetto e G.Bertram, Milano, Christian Marinotti Ed., 2016, p.40.

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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