Celebrazione dell’Hip Hop. Storia di melting-pot e altre narrazioni

Hip-hop

Anche Google, con il suo nuovo Doodle, ci ricorda che l’inizio ufficiale della cultura hip hop è fatto risalire all’11 agosto 1973 e che, quindi, questo è il giorno in cui si celebra la memoria di uno stile musicale ancora vivissimo, specialmente grazie alle sue tante declinazioni e contaminazioni ulteriori.

E’ l’Old school hip hop ad essere generalmente indicato quale primo vero e proprio genere musicale hip hop uscito, questo, tra gli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, da quelle feste dal basso, auto-organizzate sulla strada, nei quartieri e specialmente nel Bronx, detti Block Party in cui i giovani afroamericani e latinoamericani si radunavano interagendo tra loro e coinvolgendo il pubblico rappando con battute e rime a suon di musica, in freestyle, scambievolmente (con maestri di cerimonie, riferiti ai MC, Master of Ceremonies), praticando B-Boying, la Break Dance, e mettendo in campo tipologie di musica e ballo nuove ma con debiti verso qualche padre storico (JamesBrown, Gill Scott-Heron, i Last Poets…).

Il primo vagito di questa nuova musica – che diventerà un caso di contaminazione feconda con il graffitismo, o meglio, con il writing, e con l’abbigliamento streetwear e una certa cultura underground in genere – echeggiò nella Grande Mela con la diffusione del Breakbeat DJing ovvero un complesso passaggio ritmico che adottava, soprattutto, un tamburo campionato da una canzone precedentemente registrata e sviluppando il mixaggio, l’uso del doppio giradischi e tecniche di scratch (Turntablism) e poi la  diffusione dei remix.

Ciò era attuato mirabilmente, tra gli altri, da DJ kool Herc (Clive Campbell) e Grandmaster Flash (Joseph Saddler), “capaci di estendere e ripetere i breaks dei dischi funk creando un suono più adatto al ballo” (cit.). I DJ pionieri di questo sound, tra cui si segnala anche DJ Afrika Bambaataa – che nell’ambiente si dice abbia inventato con DJ kool Herc  il termine “hip hop” – capirono che i tempi erano adatti per una preminenza di una Disco priva delle parti cantate, ove emergeva, quindi, un maggiore flusso di energia musicale consono al desiderio dei giovani di lasciarsi andare al ritmo senza farsi influenzare troppo dalle parole già scritte e vocalizzate a cui, piuttosto, si sovrapponevano le proprie, dal vivo, attraverso un’improvvisazione dirompente e trascinante.

Va ricordato che questa inedita temperatura musicale era già bella alta in Giamaica – e qui con il nome di Dub, un sottogenere dal Reggae – e questa primigenia fu chiarita proprio tramite la comunità di immigrati giamaicani a New York che diffusero tale musica in cui eccelleva,  appunto, DJ Kool Herc. Tale gioia espressiva, il desiderio e la comunicazione di libertà non solo nei movimenti, questo groove vitalistico con radici nell’originario furono mescolati nell’hip hop che è – e resta – importante anche perché fu il motore della creazione di un’identità comune tra giovani sostanzialmente  provenienti dall’area dell’immigrazione negli States e perché basato, quindi, sull’affrancamento dalla discriminazione razziale e classista, con un’originale conquista dello spazio urbano per sentirlo proprio e farne davvero parte. Tale miscuglio creativo che aveva come materia prima la musica, aveva in sé una forte dose di ribellismo e politicizzazione che vide cadute nella violenza via via sempre più  nette a causa di opposizioni tra gang, fazioni per la supremazia nello spaccio della droga e altra criminalità che porteranno tutte ad un tragico fenomeno di morte e la corruzione dei valori Hip Hop sia con il diffondersi del genere Gangsta-rap che dell’edonostica cultura Bling (o Bling Bling) con ostentazione del sesso, del potere e della ricchezza.

Anche per arginare queste derive – allora già in atto o ipotizzabili, prevedibili – nacque nel 1973 la Universal Zulu Nation ad opera di DJ Afrika Bambaataa, che indicava 15 regole di condotta per le ghetto-zone che, però, furono via via sempre disattese.  Un apice si toccò il 4 marzo 1981 con la diffusione delle orribili immagini del pestaggio di un automobilista nero da parte della polizia, con l’assoluzione, un anno dopo, delle forze dell’ordine accusate della barbarie e con la conseguente reazione a Los Angeles con una lunga guerriglia che lascerà sul campo 58 persone decedute; un altro fatto che segnò un giro di boa del movimento, con introduzione di toni violenti e minacciosi nei testi di Snoop Doggy Dogg, Coolio, Puff Daddy, Dr. Dre e Notorius B.I.G.  e Tupac Shakur, fu, tra il 1996 e il 1997, la morte di questi ultimi, uccisi dai rispettivi clan di appartenenza e da sempre rivali.

Il primo periodo di questo genere, sperimentato con successo dall’originaria Old School, che aveva visto molte ramificazioni, sovrapposizioni e strani matrimoni – con il rock, ad esempio, con il dirompente, celebre Walk This Way, pezzo degli Aerosmith in collaborazione proprio con i Run-DMC –, aveva lasciato il posto alla cosiddetta Età dell’oro dell’hip hop segnata dalla raggiunta popolarità da parte dell’album dei Run DMC del 1986, Raising Hell, e, tra il 1985 e il 1987, innalzando questa musica a star nel firmamento dell’industria discografica, ampliando ed arricchendo la musica degli esordi e accogliendo persino dei bianchi  come i tre Beastie Boys (che nel 1987 entrano nella top ten della classifica pop americana).

Alla fine degli anni ’90 l’hip hop ha ormai una sua reputazione, un proprio impero e un presente; quello discusso e discutibile era assolutamente da riabilitare: cosa che fece dal suo interno, riproponendo la vecchia scuola, con gli autori storici che tornano in voga, con ristampe, rielaborazioni, concerti, remix di dj e gruppi delle scene big beat e trip hop.

La nuova fioritura creativa fu, così, attuata unendo passato e presente, memoria e innovazione: un mix che funziona da sempre…

Il resto è storia e come tutte le storie ha una sua fine, purtroppo non per tutti dotata di happy-end, ma sicuramente con una sua memoria persistente, tanto che molti dei progetti musicali attuali – ed anche molta produzione visiva cosiddetta Street – non ne prescindono: dimenticando, però, sempre più spesso, di ricordare o rinnovare il senso poetico e ideologico, nonché antropologico, a cui quei pionieri avevano dato vita. Senza quello, ciò che resta è spesso solo mero involucro.

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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