Takashi Murakami o del leggiadro Jap-pop ribelle

Takashi Murakami (Tokyo, 1º febbraio 1962) è stato definito dall’autorevole testata “Time” (30 aprile 2009, da Marc Jacobs in: Takashi Murakami, tra le 100 persone più influenti del mondo nel 2008) il “più influente rappresentante della cultura nipponica”, esponente di un’arte figurativa neo-Pop ma che non si ispira all’iconografia popolare americana anni ’60 – della Pop Art storica, per intenderci – bensì del suo paese, e che dunque reca in sè specifiche caratteristiche. L’artista le individua e le contamina adoperando linguaggi alti e bassi insieme, in particolare quelli dei fumetti (manga) e delle animazioni (anime), del più generale mito, tutto nipponico, dell’adolescenza e dei Kawaii (del carino, dell’amorevole, con dosi di pruriginosa ossessione), del globalizzato immaginario consumista e feticista. Traduce questo melting-pot nella sua personalissima grammatica: estetica graficizzata, raffigurazione priva di illusionismo prospettico e composizione straniante, liscissima (Superflat / superpiatto), coloratissima, piena di fiori, smile, occhioni, faccioni e faccine, decori, ghirigori, mostricattoli, funghetti, volti caricaturali, e riassunta anche in enormi sculture assai piene, fatte di assemblaggi impobabili o con le sembianze di teschi-fatine, replicanti con seni enormi, falli a vista, armi, costumi scenografici ed esseri ed esserini con comportamenti irriverenti verso le convenzioni e i tabù.

Questa ironia è caustica. Ciò che si registra dalle opere a parete o scultoree di Takashi reca in sè, cioè, anche una meno evidente ma reale e specifica memoria drammatica mai pienamente metabolizzata e superata dalla collettività giapponese (l’attacco atomico su Hiroshima e Nagasaki e le conseguenze sulla popolazione), che, dunque, trasforma le sue icone da gioiose (e lo sono, a una prima apparenza…) a strane entità: è come se fossero pronte a guizzare in attacco, a prendere pieghe d’inaspettata cupezza, epiloghi spiazzanti, finali senza happy-end… Murakami, attraverso i suoi capolavori, ci fa percepire una sorta di indefinibile presentimento per nulla positivo… E’ un’arte, questa sua, comunque gradevole, di immediato coinvolgimento visivo ed emotivo, che sembra facile facile ma nasconde, appunto, una complessità: attenzione per le subculture nazionali e un conseguente colto riuso dei suoi campionari per dar voce a una realtà giovane, nuova e ribelle che, altrimenti, era ed è solitamente tacitata dalla millenaria e nota tradizione del Sol Levante ed è pure lontanissima dalle tendenze dell’arte imposta nelle sue Accademie e Università; d’altra parte, proprio le radici storiche tramandate nei secoli sono da lui ravvivate poiché il suo Superflat sembra un po’ richiamare la bidimensionalità del periodo Edo, subito passando tutto, però, dentro un frullatore retinico e di senso che crea qualcosa di unico, una condivisa appartenenza culturale indipendente e, parimenti, che “riesce a esprimere il disagio di una generazione”, che, come abbiamo evidenziato, “non è stata in grado di superare il trauma che la sconfitta subita nella Seconda Guerra Mondiale e la seguente occupazione statunitense hanno causato”; lui lo fa così, “attraverso il contrasto tra la vivacità del disegno e l’effetto di piattezza che sopraffà lo spettatore.” 

Il virgolettato è una parte del racconto che ci ha fatto Andrea Ingenito, gallerista titolare della AICA che nella bella, accogliente sede di Capri (Via Le Botteghe 56) propone la mostra Murakami. Jap Pop in Capri (dal 9 luglio al  31 agosto 2017: orari da martedì a domenica, h. 18.00- 22.30, ingresso libero; info al pubblico: tel. 081.0490829, email info@ai-ca.comwww.ai-ca.com; press:  t. +39 339 89 59 372,  info@noracomunicazione.it).

Nello spazio espositivo ci sono circa venti serigrafie e un nucleo di opere jap-Pop della emergente Tomoko, “il cui stile si ispira a quello del maestro nipponico”, chiarisce Ingenito. I lavori di Murakami sono economicamente piuttosto abbordabili rispetto alle tele, che hanno raggiunto quotazioni enormi, mentre le grafiche vanno dai 3000 agli 8000 Euro, perché per l’artista ognuno deve potersi permettere la sua arte, e i multipli sono quindi un ottimo modo per arrivare potenzialmente a tutti. È un sicuro investimento L’acquisto di una di queste carte, e non lo certifica solo il gallerista Ingenito ma dealers, Fiere e collezionismo. L’esposizione vanta un buon successo di pubblico e il gallerista sottolinea l’entusiasmo dimostrato anche dai tanti bambini e ragazzini in visita, che facilmente si riconoscono in queste immagini e interagiscono con l’idioma ludico di Murakami di cui, evidentemente, non colgono e non hanno colto (come è bene che sia) il lato inquietante, che rende l’artista tale – artista, appunto – e soprattutto credibile, vero e libero da sospetti di (eccessiva) fashionizzazione. 

Murakami è, infatti, controverso: per il suo essere nel business più rutilante, tra collaborazioni alla moda – con lo stilista Marc Jacobs disegna per Louis Vuitton la borsa Cherry Blossom, nel 2003 – e nello star system, con Pharrell Williams, famoso cantante e produttore, nel 2008; nel 2009 con Kirsten Dunst, della quale cura la produzione di un video musicale; per iperproduzione – alla Andy Warhol: ha fondato una sua Factory (1996 la Hiropon Factory, oggi Kaikai Kiki Co. Ltd: per un’arte che alla portata di tutti, in qualche misura) – e per commercializzazione da brandalla Keith Haring -, con calamite, poster, peluche, custodie per smartphone e ogni altro genere di gadget da lui firmato; insomma, per aver fatto danari a palate, godere di una comoda posizione nel Sistema dell’Arte più potente – è con Gagosian e nelle grazie dell’autorevole François Pinault – e per essere un autore di successo. Ma questa è solo una parte della storia: l’artista ha umili origini, si è formato rischiando del suo, creando, da pioniere, qualcosa che si è duramente scontrato con il mainstream e pur avendo avuto fortuna e affermazione economica vive con l’essenziale poiché tutto è investito nella sua factory. Qui: dove continua a lavorare dando corpo e anima a opere fantasmagoriche palpitanti e allarmanti in cui il conflitto storico, sociale, cultrale e generazionale trova solo per un po’ pace attraverso il gioco serio dell’arte.

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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