Maybe, maybe not. Ai Weiwei e l’insostenibile leggerezza della storia

Cammino per le sale dell’Israel Museum di Gerusalemme, dopo un mese qui le opere di Ai Weiwei (artista, designer e attivista cinese: aiweiwei.com) sono come compagne silenziose nelle mie giornate, mi osservano lavorare al museo, e io osservo loro senza interrogarle, osservo i turisti che le osservano, i bambini che le giocano, mi abituo a loro, prendendomi tutto il mio tempo, un tempo di giorni e settimane. Non posso parlare della visita alla sua mostra Maybe. Maybe not (“forse, forse no“) ma piuttosto della nostra lunga convivenza, non di impressioni fugaci, di lampi emotivi, ma di una luce solida, culmine di uno strano processo di sedimentazione avvenuto in me. “Col tempo, il gelso si tramuta in seta” recita un antico proverbio cinese.

Il tempo, è questo forse uno degli aspetti più interessanti della figura di Ai, c’è un’ossessione per il tempo, nascosta tra le righe della mostra, della sua figura.

Da un lato, il tempo autobiografico dell’esistenza, passata senza soluzione di continuità dall’America alla Cina, dall’avanguardia, alla militanza, alla dissidenza nel giro di pochi anni, dall’altro il tempo drammatico della storia, dove la continuità è condannata a saltare, è data in pasto a lunghi e dolorosi oblii. Ecco allora, in questo spazio interstiziale, storico ed esistenziale, che è lo spazio della mostra, che tutto viene mandato in cortocircuito: l’antica tradizione culturale cinese si meticcia con i fantasmi del comunismo, l’orrore con l’ironia, l’ironia con la monumentalità, il sacro con il profano, il singolo con la massa, la giovinezza americana con l’infanzia al confino, l’artigianato cinese con il ready made. Qui noi vaghiamo, ora scandalizzati, ora a bocca aperta, ora curiosi, curiosi di ascoltare, di vedere quale sarà la sua prossima mossa, fin dove avrà osato spingersi nella sala successiva.

Un universo ambiguo e polimorfo, quello in cui veniamo condotti dall’artista, in cui niente è come sembra, in cui è necessario pensare, in cui ogni opera sta davanti allo spettatore come un segreto “perché ora ha fatto questo?”, come una conquista intellettuale verso la quale Ai, demiurgo di questo gioco dalla morale austera, ci conduce per mano, con leggerezza e incanto.  In America Ai si manteneva come giocatore di Black Jack, e questa è appunto la mostra di un giocatore: scommesse iperboliche dagli esiti incerti, di un uomo che ci mostra come si possa essere disposti a giocare fino alla morte, pur sapendo che è solo un gioco. Qui l’arte è ancora meraviglia, in quest’universo libero in cui non esistono tabù linguistici, in cui tutto può – e deve – essere detto, contrappasso metaforico all’oscurantismo del regime cinese, di cui l’artista è ad oggi una delle vittime più illustri, dalla condanna del padre – poeta – al campo di lavoro quando era bambino, fino all’oscuramento del suo blog nel 2009, e all’incarcerazione del 2011.

Avremo allora lavori come Remains in cui ci troviamo posti di fronte a repliche di porcellana di ossa umane- scheletri, tibie, bacini- resi iperrealistici dalla precisione della scultura e del colore. Il primo choc è trovare davanti a noi delle ossa, quasi fossimo in un museo archeologico. Il secondo: scoprire che si tratta di porcellana, che la bianchezza manierata dell’artigianato cinese è la stessa che ha prodotto questi resti scabri. Mi sto avvicinando a quello che vuole dirmi Ai. Continuo a leggere, febbrilmente, “perché ?” E imparo: le ossa prese a modello furono scavate nel campo di lavoro dove erano esiliati dissidenti e nemici dello stato durante la rivoluzione culturale di Mao. Le condizioni nel campo era estremamente dure, molti detenuti persero la vita per la malattia o per la fame, come quelli i cui resti sono riprodotti identici davanti a me. La Cina, antica e moderna, porcellana e lavori forzati. Lo stridore arcano di inediti accostamenti semplici nella nostra mente occidentale, la scoperta, l’agnizione. Benjamin, nei Passages, scrive che “Immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità. […] La relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini.” ed in effetti la straordinarietà di queste opere risiede proprio qui, nel loro essere immagini dialettiche, “autentiche immagini” che non riescono a lasciarci, che si insinuano in noi superando l’estetica, con la forza del concetto

Camminare per le sale di Ai è un’esperienza insieme ludica ed iniziatica, un racconto che incanta, che trascina. L’artista riscopre, rimpiega, il senso antico dell’arte come fabula, qualcosa che forse in occidente abbiamo perso, eppure sceglie di farlo servendosi della lingua più ostica, più antinarrativa della nostra  avanguardia: il dada. Negli anni americani (1981-93) Duchamp è infatti il riferimento assoluto di Ai, numerosi (anche in mostra) sono gli omaggi all’artista francese, comune il disprezzo per ogni convenzione, l’amore per il pensiero, per il dibattito, il gusto per la sorpresa, la meraviglia, che quasi sfiora il barocco.:

“My work is always readymade. It could be cultural, political, or social, and also it could be art – to make people re-look at what we have done, its original position, to create new possibilities. I always want people to be confused, to be shocked or realize something later”

Ma se l’avanguardia è concetto, l’arte di Ai Weiwei è materia, è spazio, è storia, è artigianato, talvolta. E’ il gigantesco tappeto di lana cinese di 250 m2 , che replica il pavimento della sala in cui, a Monaco, il terzo reich e inaugurava, nel 37, la “Great German Art Exhibition”. La materia non è casuale, elemento accessorio, ci serve, ci di dice la bellezza della tradizione, la bellezza della forma e del lavoro dell’uomo, violati dalla storia. Se l’avanguardia grida all’assenza di senso, alla destrutturazione del senso, allo scacco della ragione, Ai le ruba le parole per scardinare la visione abusata del reale e produrre senso, un senso nuovo e più profondo, che l’arte rivela oltre la superficie delle cose.

L’arte come grido catartico, che annienta e, insieme, fa luce. All’artista la parola che, sola, può porre riparo alla violenza della storia, dicendone con levità, con arguzia, il dolore, l’assurdo. Chi vede solo una sarcastica furia dissacratrice e di denuncia, nelle opere di Ai, ne perde una componente importante: le pietas, una fiducia ultima, ostinata, commovente, nel potere riparatorio, eternatore, dell’arte. Ecco allora trees: la sala del museo di trasforma improvvisamente in foresta. Guardi meglio, ti accorgi che questi grandi alberi spogli sono feriti e fragili, sono tanti legni diversi, a forma di albero, tenuti insieme da tagli e chiodi che ne solcano la superficie. Qui, la tradizione dei venditori di legno del nord della Cina, ma anche la pace assorta di un giardino Zen. Eppure qualcosa è rotto, sono alberi finti, sono alberi morti. Ci sono l’urbanizzazione e “le vittime” che questa lascia dietro di sé, l’individuo che si cancella nella forma che lo ricomprende.

L’arte lo dice, dice tutto, urla e piange, ma restituisce l’incanto. Il bosco c’è, c’è di nuovo, nel momento stesso in cui viene negato. E’ qualcosa che per il nostro pensiero cartesiano è difficile, la compresenza dei contrari che abita la cultura cinese, il “maybe, maybe not”, in sostanza. Guardo dei bambini piccoli che osservano gli alberi in silenzio, con gli occhi sgranati. Come se stessero ascoltando una di quelle fiabe che lasciano inquieti, ma che vorresti risentire ancora e ancora, per il fascino strano, denso, che emanano.

E allora capisco che quello strano, grosso, uomo cinese, il sovversivo, l’uomo dei record d’asta, il Robin Hood di Twitter, il dissidente, il provocatore, l’osannato, il “Michelangelo moderno” e “l’uomo più pericoloso dello stato” altri non è che il più grande cantastorie dei nostri tempi.

Come servirci poi dei suoi racconti, è un compito che Ai, fissandoci dal gigantesco selfie che quasi monopolizza una delle sale più grandi del museo, lascia, come regalo, come monito, ad ognuno di noi.

Ai Weiwei – Maybe or maybe not

  • A cura di Mira Lapidot, Yulla e Jacques Lipchitz
  • fino al 28 ottobre 2017.
  • Israel Museum, Gerusalemme
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Nata a Napoli ventitré anni fa, una laurea in lettere moderne, e una seconda in arte e mercati dell'arte. Una grande passione per la teoria dell'arte e i suoi problemi formali, per le avanguardie, le sottoculture, i gatti, i viaggi, le poesie, e le idee in grado di stravolgerci lo sguardo sulle cose.

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