PordenoneLegge #2. L’Arminuta di Donatella di Pietrantonio e il Campiello

Avvicinare gli autori ai lettori. È questo, secondo il curatore Gian Mario Villalta, l’intento che unisce Pordenonelegge al Premio Campiello.
Da sette anni, fa parte del programma una serata in onore del premio conferito a Venezia alcuni giorni fa. L’edizione 2017 non fa eccezione, e fra le mura dell’ex convento di San Francesco viene accolta Donatella di Pietrantonio, che con L’Arminuta ha messo d’accordo il campione di lettori e la giuria di letterati, rappresentata a Pordenone dalla matricola.

In quale modo, non è facile stabilirlo. Secondo la scrittrice, a colpire i lettori e soprattutto le lettrici è stata la capacità di questa vicenda di coinvolgere emotivamente. Di  generare una forte identificazione, nella bambina restituita – dopo 13 anni nella ricca città di mare, tra i ricchi e un’infanzia dove tutto era possibile – a una famiglia biologica senza mezzi dell’Abruzzo montano i cui sentieri sono il solo mondo, che pure riesce a suscitare le simpatie dei lettori. E insieme evocare una potente angoscia, per quello che è a tutti gli effetti l’abbandono di una ragazzina con un equilibrio tutto da costruire. Ad affascinare i letterati, invece, soprattutto la lingua. In un romanzo di preponderante coloritura locale, Di Pietrantonio riesce, nota Tomasin, a far sentire «tutto il sapore dell’Abruzzo» nelle sue parole, senza scivolare in un uso pedissequo del dialetto. Ha dovuto, spiega l’autrice, trovare parole che creassero un equilibrio tra il rifiuto di «esibire il dialetto» il pericolo di far suonare nelle bocche dei suoi personaggi un italiano che sarebbe risultato artefatto, e rendere ai lettori un dialetto nel quale «non esistono parole per dire amore, innamoramento».
Ne è scaturito uno scrivere nel quale i personaggi «si prendono il loro spazio», come se agissero al di fuori della volontà della scrittrice, dando origine a un romanzo costruito sulle polarità. In primo luogo quelle geografiche: tra un dentro e un fuori, un aperto e un chiuso, una ricchezza e una povertà che è non materiale ma di orizzonti, che l’autrice conosce per averla vissuta nella sua infanzia. E poi le polarità dell’affettività.

L’Arminuta, la protagonista, vive una situazione comune a molte zone rurali italiane, l’adozione informale da parte di una famiglia in grado di mantenere bambini nati poveri (una vicenda simile era già in Accabadora, di Michela Murgia). Qui però si tratta di una adozione fallita, da parte di una madre, quella adottiva, che «gioca con la vita di tutti coloro che la circondano». La restituzione è quindi il perno, l’idea di partenza dell’intero romanzo, che è poi cresciuto intorno ad essa.

Un rifiuto inconcepibile per la sensibilità del lettore, ma anche per l’arminuta stessa, che si spinge a immaginare una malattia della madre, che l’avrebbe restituita alla famiglia di origine come estremo gesto d’amore. Una bugia necessaria a costruirsi comunque un’appartenenza che le sarebbe altrimenti negata. E quando questa non le arriva dagli adulti, è costretta a cercarla orizzontalmente, nel fratello e nella sorellina, Adriana.
La scrittrice abruzzese ritrova così un tema che le è caro, «i lati oscuri della maternità». divenuti perturbanti, pur senza mai giudicare i suoi personaggi, e la loro mancata capacità di cambiare.
Tutti tranne il fratellino, Vincenzo, che nei suoi piccoli gesti di ribellione è l’unico che tenta di modificare lo stato delle cose, di inchiodare gli adulti, soprattutto il padre violento, al loro essere venuti meno al dovere di nutrimento che gli compete nel suo ruolo di padre.
All’arminuta invece resta da affrontare lo status di «orfana di due madri viventi», sul limitare iniziale della propria adolescenza. Il momento, cioè, nel quale ci si dovrebbe strappare da una protezione famigliare per iniziare a camminare sulle proprie gambe.
Ma «da cosa ti strappi, quando non sei legato?», come costruire un’identità in opposizione alle radici, quando queste, nei fatti, non esistono?

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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