PordenoneLegge #6. I giovani jihadisti in cerca di sé. Chi sono davvero i soldati del Califfato?

Li vediamo come figure nere, incappucciate, nel deserto. Oppure nelle espressioni serie – a cui noi siamo portati a conferire un’aura di malvagità – nelle foto segnaletiche. Spesso, quasi sempre, giovanissimi. E finiamo col porci la stessa domanda: perché? Perché un ragazzo di vent’anni si trasforma, all’apparenza improvvisamente, in un soldato di quello che i media europei chiamano ISIS, gli arabi Daesh, e i suoi adepti semplicemente al-Dawla, Lo stato.

È per cercare questa risposta che Anna Migotto inviata speciale di Mediaset ed esperta di Medio Oriente, e Stefania Miretti, firma di de La Stampa e di Gioia per costume e attualità, sono state in Tunisia. Il luogo da cui è partita, nel mondo, la maggior parte dei foreign fighters.

Qui hanno girato un documentario diventato libro per Einaudi: Non aspettarmi vivo. Hanno raccolto le voci. Raccontato le storie. Di chi è partito, di chi è tornato, di chi avrebbe voluto. E a quella domanda hanno tratto una sola risposta: che risposte non ne esistono. Almeno non con la facilità con cui siamo abituati a tracciarle noi occidentali, o i giornalisti, a cui con questo incontro Pordenonelegge ha offerto un’occasione di formazione.

Molto dell’immaginario attraverso cui ci figuriamo i jihadisti che partono dall’Europa, ce li fa immaginare cresciuti e nutriti da un sistema di disagio diffuso, in aree delle nostre città lasciate a se stesse e abbandonate a trasformarsi in ghetti di idee estreme e pericolose, dove sono lasciati al proprio destino giovani portati alla delinquenza e nati in famiglie nel migliore dei casi assenti e nel peggiore conniventi. Non è così. O se non altro, non è solamente così.

Accanto ai figli delle banlieu c’è anche quello di Fatih Bayoud, medico militare, sposato ad un medico. Al loro unico figlio avevano garantito i migliori studi: in Mauritania e poi in Svizzera. Una volta che il giovane era partito per l’Europa, avevano tenuto brevemente i contatti, poi più nulla, fino a quando il ragazzo aveva comunicato di essere in Siria, ammettendo di avere fatto un errore. Il tentativo disperato di riportarlo a casa era costato al padre una fortuna, innumerevoli incontri con le autorità e poi la vita, rimasto vittima di un attentato all’aeroporto di Istanbul.

Ma come fa presa il califfato su tanti adolescenti? Con i loro strumenti, spiegano le giornaliste. Sanno infatti usare con perizia un linguaggio moderno e visuale, che si serve in primo luogo dei social network. Sfruttando, in particolare, l’algoritmo su cui si regge Facebook. Se un giovane guarda alcuni video inerenti a Daesh, nel giro di pochi giorni gli saranno suggeriti sempre più contenuti su quell’argomento, e una lunga lista di potenziali contatti, apparentemente coetanei e spesso reclutatori, pronti ad accogliere il loro malessere e ad indirizzarli poi ad imam radicali.

È soprattutto il malessere la leva vincente. Se un gran numero di questi nuovi combattenti hanno passato da poco la maggiore età, come gli attentati di Berlino prima e Barcellona poi insegnano, è perché il radicalismo è capace di rispondere all’esigenza di giovani spesso molto istruiti di cercare un posto nel mondo che la società di oggi non è più in grado di concedergli. Lo strumento della rete diventa quindi fondante a proporre, un «ritorno alla purezza», costruire a loro uso una nuova identità, che scivola nell’identitarismo. Un fenomeno non solo locale ma generazionale, che in occidente si declina con il vistoso e prepotente ritorno di molte forme di neofascismo.

Sarebbe miope quindi credere che si tratti di un fenomeno da guardare da lontano.

I media poi commetterebbero un grave errore facendo passare, foss’anche sottotraccia, l’idea che il terrorismo si serva soltanto di menti crudeli, votate per inclinazione alla sete di sangue. Le motivazioni che li spingono a mettersi in viaggio verso Raqqa o Mosul sono molto più complesse. Non tutti partono per uccidere, in primo luogo. Alcuni si recano sul terreno con l’obiettivo di aiutare le popolazioni locali: di essere medici, infermieri, insegnanti.

Chi parte per combattere invece lo fa per rispondere a ingiustizie subite. Invasioni di territorio che dietro l’idea propagandistica di portare pace e democrazia hanno portato guerra e nuova instabilità. I commenti dei tunisini nel breve estratto del documentario mostrato durante la presentazione, sono senza appello: «le primavere arabe sono state una presa per il culo. Hanno deposto un dittatore per istaurarne altri ancora peggiori».

L’acredine, l’odio, hanno però radici ancora più profonde. A dar loro voce è Malik, jihadista di lungo corso cui sono affidati tre monologhi lungo il libro: Affondano nell’occupazione prima russa e poi americana (facce della stessa medaglia, per i locali) dell’Afghanistan, cominciata nel 1973 e mai conclusa. Ma soprattutto con l’invasione dell’Iraq delle truppe di Bush, nel 2003. Dopo di allora, quelle modalità e quelle menzogne, nulla è più stato come prima.

Se una risposta a tutto ciò si può trovare forse è che – spiegano le croniste – non sono le bombe o la sconfitta sul campo a eradicare l’odio. L’Occidente, per essere al sicuro, è chiamato a sanare le ingiustizie che sono state compiute. Nel frattempo, ai chi documenta e racconta, il compito di farlo in modo onesto, documentato, senza orientare. Un compito che le autrici di Non aspettarmi vivo assolvono meritoriamente, come non è comune di questi tempi.

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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