PordenoneLegge #10. Ernest Hemingway, l’Italia, la spavalderia e la generosità

«Ho l’impressione che qui da noi si viva a metà. Gli italiani, invece, vivono fino in fondo». Lo scriveva a un amico uno dei più grandi scrittori del Novecento, un uomo che del vivere fino in fondo aveva fatto il suo concreto obiettivo esistenziale. Ernest Hemingway, forse proprio per questo era legato all’Italia, che fece parte di lui per tutta la sua vita, fin da quando, giovanissimo, allo scoppio della Grande Guerra si arruolò come volontario della Croce Rossa sul fronte del Piave.
A raccontare il proficuo rapporto fra l’autore di Addio alle Armi e il Belpaese, in Hemingway e l’Italia (Donzelli) è Richard Owen, corrispondente del “Times” di Londra in Italia,  la cui presenza al Ridotto del Teatro Verdi continua il proficuo rapporto fra Pordenonelegge e il Premio Hemingway di Lignano Sabbiadoro.
Ed è proprio dal Veneto che bisogna cominciare questo lungo excursus storico. Da quando il giovane Ernest, da poco maggiorenne, fu assegnato a Schio e poi a fare la spola tra Marostica e Monastier. Ma il ragazzo, affamato di adrenalina fin da allora, voleva di più. Così si recò a ridosso del fronte, dove gli era vietato: a Fossalta di Piave. Non è escluso che fu lui, con questa mossa incauta, a scatenare il fuoco degli austriaci. Un rischio che gli costò il ferimento di entrambe le gambe con schegge di mortaio, ma non gli impedì, nonostante il dolore e lo shock, di portare in salvo un soldato italiano.

Tornerà più volte in quel luogo, negli anni seguenti, con alcune delle sue mogli, per esserne deluso prima e pacificarsene infine negli anni Cinquanta, quando scavò una buca proprio in quel luogo deponendovi un biglietto da mille lire, a significare di aver lasciato sangue e denaro in Italia. Oggi una stele ricorda quel gesto eroico e porta incise le parole dello scrittore: «sono un ragazzo del basso Piave». Fu curato nell’ospedale militare di Milano. Qui conobbe il suo primo amore. Lui aveva 19 anni, lei 26 e si chiamava Agnes Von Kurowsky, anche se a tutti è meglio nota come Catherine Barkley, la protagonista di Addio alle Armi.

L’Italia fu infatti per Mr. Papa, come lo chiamavano gli amici, il luogo per scrivere «con delicatezza storie di amore e morte». Quando Agnes gli disse di non essere la perfetta creatura che lui credeva che fosse, il giovane paramedico e giornalista rientrò negli USA, a Chicago (dopo aver fatto il corrispondente da Parigi) e qui sposò Hadley Richardson. Volle portarla a conoscere i luoghi che amava, così attraversarono il San Bernardo innevato a piedi. Non un viaggio particolarmente romantico, dal momento che lei indossava un paio di eleganti francesine anziché gli stivali. L’amore dell’allora giornalista per l’italia fu messo a dura prova dall’avvento di Mussolini, che Hemingway conobbe nella sede del “Popolo d’Italia” restandone affascinato, salvo poi scoprirlo, ad una conferenza a Losanna, intento a leggere con grande attenzione un dizionario tenendolo al contrario.

Mentre veniva sedotto da quella che sarebbe stata la seconda moglie, la ricca Pauline Pfiffer, tornò ancora in Italia, in un viaggio a tappe da Ventimiglia a Firenze passando per la costa ligure, in cerca di don Giuseppe Bianchi, che gli aveva dato l’estrema unzione a Fossalta e che ritrovò frate a Camogli.
Dopo essere stato sposato con la giornalista Martha Gellhorn – un matrimonio che non resse la rivalità professionale – tornò in Italia nel 1948 con l’ultima moglie, Mary Welsh. A Milano conobbe Arnoldo Mondadori, che lo accolse come lo scrittore più letto d’Italia, e poi da Cortina invitò a raggiungerlo un’incredula Fernanda Pivano, allora trentenne, la cui traduzione di Addio alle Armi nel 1943 le era valsa un arresto delle SS. Racconta la Pivano che Heminway, che ne era informato, l’abbia stretta forte sussurrando: «tell me about the Nazi».

La casa italiana di Hemingway divenne poi Venezia, in particolare il Gritti Palace affacciato su Santa Maria della Salute e sul Museo Guggenheim. Qui iniziò a scrivere un altro romanzo di ambientazione italiana, Di là dal fiume e tra gli alberi: protagonista il suo ultimo amore, la diciottenne italiana dalmata Adriana Ivancich, Renata nel romanzo. Lo scrittore aveva allora 49 anni, e fu molto attento a non rimanere mai solo con lei. Nonostante questo amore del tutto casto (Adriana disse poi che non c’era mai stato nulla più di un bacio) le scene piccanti attribuite al suo personaggio, passate sulle bocche degli amici di famiglia, spinsero sua madre Dora a portarla via, per «tutelare la sua reputazione».

Heminway tornò da Mary e si trasferì a Ketchum, in Idaho, un paesaggio che, secondo Owen «gli ricordava Cortina». La sua ricerca di adrenalina e rischio lo portò a intraprendere con Mary molti safari in Africa, nel corso di uno dei quali rimase vittima di ben due incidenti aerei, curati a suon di scampi e Valpolicella.
Ormai piegato dall’alcool, dai rischi e dalla vita, nel 1960 fece probabilmente un ultimo viaggio in Italia. Un paese che tuttavia rimase sempre parte di lui, perchè, secondo Nanda Pivano, «era come lui. Spavalderia, generosità, coraggio, fragilità». Proprio la Pivano gli aveva insegnato la canzoncina cantata con Mary la notte prima di puntarsi l’amato fucile da caccia alla testa: «tutti mi chiamano bionda, ma io bionda non sono…».

Degli italiani amava il loro essere, diceva, «concreti e spirituali insieme», e prima che la depressione l’avesse vinta su di lui, dall’Italia aveva imparato, dice Owens, «resilienza e amore per la vita».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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