PordenoneLegge #11. Sangue giusto di Francesca Melandri. Ritornare a parlare del colonialismo

All-focus
All-focus

«Aveva dodici anni, ma non mi prendere per un Girolimoni, a dodici anni quelle lì erano già donne. L’avevo comprata a Saganeiti insieme a un cavallo ed un fucile, tutto a cinquecento lire (…). Era un animalino docile, io gli [sic] misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi insieme alle mogli degli altri ascari».

Così rievoca la sua “moglie africana” – e il tempo in cui era stato come volontario dell’esercito italiano in Etiopia – Indro Montanelli, non un uomo qualsiasi. L’eco di queste parole non può che arrivare alla mente di tutti mentre Francesca Melandri presenta il suo Sangue giusto (Rizzoli) alla stampa. Parole simili erano state pronunciate dal giornalista in almeno due occasioni, due interviste. A Gianni Bisiach prima – al quale si era premurato di aggiungere «in Africa è un’altra cosa» e che la ragazza, Milena, era stata regolarmente comprata dal padre – e a Enzo Biagi poi. Parole cui la Melandri commenta con un duplice punto di vista. Se è «imperdonabile» che a quasi quarant’anni di distanza il giornalista toscano non getta mai uno sguardo all’indietro, non rielabora criticamente quella fase della propria esistenza, la sceneggiatrice e romanziera invita a non «creare il mostro». Non tanto e non solamente perché non era il solo, ma soprattutto perché farlo significherebbe lasciare questa pagina di storia in un’alterità che non ci riguarda.

Uno strumento, quello della rimozione, che l’Italia ha dimostrato di sapere applicare con cura rispetto a molte pagine dolorose, attuando quella stessa mancanza di esame di coscienza ben leggibile tra le righe delle parole di Montanelli che «contribuisce a inquinare i pozzi dell’intolleranza».

Del resto, sono pochi i paesi capaci di fare i conti con ciò che della propria storia non si è felici di ricordare. Forse ci riesce soltanto la Germania, che dell’elaborazione del proprio drammatico passato ha fatto una «religione laica» condivisa. L’Italia invece, spesso nemmeno ricorda di essere stata colonizzatrice, se non quando Gheddafi si presentava accolto con tutti gli onori a Roma appuntandosi sulla giacca la foto della ribellione contro gli italiani, un’immagine che pochi hanno saputo riconoscere.

Se quindi un giovane nero, come accade nel romanzo della Melandri, si presentasse alla nostra porta dicendo: «Mi chiamo Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti e tu sei mia zia» non sapremmo nemmeno da che parte cominciare.

Francesca Melandri costruisce un romanzo denso e composito, che tocca nervi ancora poco sollecitati come gli esiti contraddittori del colonialismo italiano di epoca fascista.

La struttura duplice del romanzo che deve molto, sul piano della rigorosa struttura, alla lunga esperienza da sceneggiatrice della Melandri, rende evidente quanto il passato ci parli del presente. Parallela alla vicenda di chi era partito verso l’Etiopia, Attilio Profeti, c’è quella dei tanti che oggi arrivano. E chi intende restare spesso arriva proprio da dove noi eravamo stati, anche se spesso ci ostiniamo a considerarli soltanto parte della massa di chi arriva.

Una vicenda da romanzo, non poi tanto diversa dalle tante simili che invece hanno nomi, cognomi e volti del tutto reali, ci inchioda alla nostra responsabilità di fare memoria, noi che possiamo dire -al contrario di molti altri – di essere stati nel breve volgere di decenni i disperati in fuga dalla fame, i colonizzatori, e poi ancora il paese del primo mondo pronto a sbarrare le porte a chi arriva.

Francesca Melandri completa così, dopo Eva dorme (2012) e Più alto del Mare (2012) quella che considera la trilogia dei padri, assenti, presenti e ingombranti o contraddittori come Attilio. Padri e patrie che spingono, anche al di là di quanto fosse volontà dell’autrice, a confrontarci con il presente, con chi siamo, chi siamo stati e chi consideriamo altro da noi.

Francesca Melandri dice di averlo imparato dal «bootcamp per scrittori che è la sceneggiatura, uno scrivere che non coccola l’ego ma insegna la creatività» e che si pone l’obiettivo di lasciare qualcosa. Essere letta. Non compiacersi, ma sfidare il lettore a mettersi allo specchio di sé.

+ ARTICOLI

Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.