PordenoneLegge #12. L’Arrivo di Saturno e Nessuno può fermarmi. Per non far mai calare il silenzio sulle storie

Dora e Graziella avevano un sogno comune. Fare le giornaliste. Meglio, esserlo, con l’aspirazione concreta di cambiare il mondo. Per anni hanno condiviso anche tutto il resto, in quella sorellanza d’elezione che rende preziose certe adolescenze. Poi la vita, l’ambizione, le scelte, le hanno separate. Una ha scelto la bellezza, l’arte, la cultura. L’altra ha scelto la verità, le storie che altri avrebbero avuto paura di raccontare. Avevano 24 anni. Una è rimasta a Roma, l’altra è partita per il Libano, per conto di Paese Sera. Senza più tornare. Di Graziella, che di cognome faceva De Palo e che scriveva pezzi «perfetti» sul traffico di armi, non si sa nulla dal 1980.

Così come del suo compagno prima e collega poi, Italo Toni, partito con lei sulle tracce di una verità da scoprire. Un filo che parte dall’Italia passando per la strage di Bologna e il lodo Moro – l’accordo siglato dal leader DC per evitare stragi sul suolo italiano a patto di lasciar passare il traffico di armi, rotto con la sua morte – per finire alle morti senza risposta di Graziella e Italo, ma anche di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, di Natale Di Grazia e di tanti altri. Dora, invece, sotto cui si cela Loredana Lipperini, è una delle voci (radiofoniche e non solo) più importanti della cultura italiana. Che con L’Arrivo di Saturno (Bompiani) sceglie di raccontare della sua vecchia amica, rievocando la giovinezza condivisa e le indagini sulla sua scomparsa affidate allo stesso uomo cui la sua giovanile intraprendenza faceva paura: Stefano Giovannone, Stefano d’Arabia. Un uomo dei servizi segreti che fece porre da Craxi il segreto di Stato che avrebbe dovuto scadere due anni fa e invece ha svelato solo pagine criptate su quelle che «non erano più vite fatte di incoscienza e passioni», ma un titolo buono per articoli: il “Caso Toni-De Palo”, di cui pochi oggi serbano memoria.

L’autrice, per il suo primo romanzo, sceglie una forma ibrida, che non è solo memoir, non è soltanto non fiction, non soltanto inchiesta. È innanzitutto un romanzo, a cui alla storia di Dora e Graziella si intreccia quella del miglior falsario di Wermeer.

Il falso si lega al vero, perché «se si può credere al falso si può credere al vero, nel meraviglioso inganno che è la letteratura». Non solo, fa eco Caterina Soffici, «una storia a volte diventa ancor più reale perché è finta».

Anche lei, italiana a Londra, ha scelto questa forma. In Nessuno può fermarmi (Feltrinelli) ha aggiunto un ragazzo in cerca di conferme e una vecchia signora inglese che può dargliene solo alcune alla vicenda reale della nave Arandora  Star, affondata nella notte tra il 10 e l’11 giugno 40 mentre era carica di Italiani arrestati dopo la dichiarazione di guerra. «Una tragedia dell’emigrazione italiana»: tutti i maschi di origine italiana tra i 16 e i 70 anni diventati nel giro di una notte da cittadini inglesi a pieno titolo – a volte da decenni – improvvisamente nemici.

Accusati di essere fascisti, tra loro si trovavano soprattutto ebrei e antifascisti, diventati improvvisamente “morti di nessuno”, di cui nessuno ha tenuto viva la memoria. Perché aggiungere letteratura a storie cui la realtà ha dato già abbastanza potenza? Lo chiarisce Loredana Lipperini: «la fiction ci offre uno specchio della realtà», dal quale osservare noi e quello che siamo diventati. E cosa è oggi il sogno di Graziella, Loredana, Caterina – giornalista a sua volta – e di tante come loro: una definizione in cui nessuna delle due si riconosce più. Emily Dickinson scriveva che verità e bellezza sono una cosa sola.

«Graziella è morta cercando quella verità. Io oggi non ci credo più», chiosa amara «una che si occupa di raccontare storie», come preferisce definirsi ora. I giornali non sfidano più il potere, non cercano più la verità. La cerca, forse, qualche singolo giornalista, ma sono sempre meno. «E allora perché si dovrebbe aver voglia di comprare un giornale?», si chiede Caterina Soffici. La strada resta una, e la Lipperini la traccia rievocando Scerbanenco: «la letteratura è la mano davanti alla locomotiva: non la ferma ma la rallenta, ed è già molto». E allora forse la letteratura in qualche modo può sopperire anche a un altro legame tra le due storie: l’assenza dei corpi, che separi finalmente i morti dai vivi e dia pace a chi li ha amati.

Rompendo finalmente la menzogna che ha accompagnato entrambe le vicende. Quella che Graziella fosse viva, propinata per anni alla famiglia, e quella che i 446 morti ufficiali salpati da Londra fossero fascisti: un’onta che ha spinto molti a preferire dimenticare e smettere di cercare. Menzogne dolorose, che feriscono, al contrario del falso che è radice e strumento di tutti gli «artisti e artigiani della letteratura», e che forse può offrire, se non la pace, la consolazione di non far calare il silenzio sulle storie. Quelle che i giornali non raccontano più ma che qualcuno deve continuare a far conoscere. Perché gli italiani e gli stranieri, nell’Inghilterra della Brexit, stanno tornando nemici nel volgere di una notte.
E intanto nelle Marche – oggi in macerie – dove si sofferma una parte della storia del falsario di Vermeer, c’è una novantacinquenne, Peppina Fattori, che preferisce lasciarsi ammanettare piuttosto che farsi portare via dalla casetta che si è ricostruita per morire davanti ai suoi monti. E le loro storie – da chi i ventiquattro anni di Graziella  e Dora li ha oggi e forse nel profondo di sé sogna a sua volta di cambiare il mondo – meritano di essere raccontate.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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