inQuiete. Festival di scrittrici #7. L’arcaico moderno della scrittura di Elena Ferrante

Quella per Elena Ferrante è ormai una vera e propria febbre, che sembra aver contagiato tutti. Sia chi la amava dalle prime pagine, sia chi si è innamorato della sua prosa grazie alla trilogia de L’Amica Geniale.
È curioso persino chi non ha mai letto nemmeno una riga, o chi è stato respinto dall’eccesso di clamore suscitato dalla scrittrice misteriosa.

InQuiete Festival non avrebbe potuto esimersi dal dedicare un approfondimento alla sua produzione. Le organizzatrici hanno scelto di farlo affidando l’onere a due accademici, che si sono diffusamente occupati del “fenomeno Ferrante”: Tiziana De Rogatis, dell’Università per Stranieri di Siena, e Massimo Fusillo, dall’Università dell’Aquila, ne indagano i punti salienti della poetica in un intervento che di accademico ha soltanto la competenza dei relatori.

Si vuole percorrere la produzione della scrittrice napoletana senza limitarsi alla quadrilogia che le ha dato la fama mondiale, ma invece ritrovando, fin dai primi romanzi, le radici di una poetica che ormai in molti hanno imparato ad amare ma che è rimasta in tutti i suoi scritti, coerente.
De Rogatis comincia infatti la sua analisi dal primo romanzo, L’amore molesto. Già tra le sue pagine si consuma lo «sprofondamento della protagonista nelle viscere della città labirinto», quella Napoli che per la Ferrante non è solo ambientazione, ma parte fondamentale del suo scrivere. La città partenopea vive nei suoi libri non per com’è, ma per come viene percepita, «distorta dallo sguardo» soprattutto femminile. In L’amore molesto è quello di una figlia che si immerge alla ricerca dei segreti di sua madre, nei meandri di un amore estremo nutrito di accanimento e compensazione che ha passaggio di consegna e specchio nel rapporto tra le amiche Elena e Lila de L’amica geniale: due bimbe che esistono l’una nelle parole dell’altra, mentre la protagonista del primo romanzo diceva, lapidaria: «non volevo essere io se non ero l’io di Amalia»
Quelle della Ferrante sono poi sempre storie di storie. Libri che prendono vita dentro i libri. I molti scritti dalle due giovani, la copia di Piccole Donne comprata coi soldi di Don Achille nel giorno che le ha rese amiche. E poi gli «oggetti talismano», che esorcizzano la violenza del mondo di fuori attraverso «il patto della creatività, del saper fare insieme».
A intessere tutti i suoi libri è però soprattutto «la commistione fra arcaico e ultramoderno. La stessa dei nostri tempi», e il motivo, secondo De Rogatis, della grande fama dell’autrice. Accanto a questo, l’affresco anche a tinte cupe dell’amicizia fra donne, fatta tanto di sorellanza quanto di crudeltà, di competizione costante. Nelle vite di Lila ed Elena si ripete in modo quasi ossessivo uno schema: «quello che è precluso all’una, si apre all’altra, e ciascuna deve togliere all’altra ciò che non può avere: l’eredità della competizione con la madre del primo romanzo. La vita delle due amiche si dipana attraverso le voci, ognuna parla (o scrive) per raccontare l’altra ed esiste attraverso la voce dell’altra. Si compongono di parole, mentre accuratamente compiono la «propria autodistruzione in immagini», come riferisce una delle intense letture di Tony Allotta che punteggiano l’intera presentazione, e che rendono con efficacia la lingua della Ferrante, regalandole in apertura una struggente Maruzzella.
Quella ferrantiana è una lingua neutra ma abbastanza «plastica da aprirsi a frammenti di dialetto» che racconta il mutare di un paese attraverso una ragazzina che studia alla Normale e parla italiano in un rione di madrelingua dialettali.
Massimo Fusillo aggiunge che Elena Ferrante racconta in primo luogo «identità friabili». Legate, come le due amiche, da un rapporto indefinibile e governate dal terrore della «smarginatura», una deformazione dei propri contorni che dalla psiche si traduce nel corpo e che in Elena Ferrante si fa una poetica, che evoca la teoria queer. Che in Ferrante solo marginalmente ha a che fare con ciò a cui normalmente la si riferisce, il mondo che per Elena Ferrante ha le sembianze dei femminielli in processione davanti alla Madonna di Monte Vergine o dell’amico Alfonso travestito da Lila. Si sostanzia piuttosto nella consapevolezza che nulla nella vita ha «margini robusti» e le identità non sono fisse ma vissute «come performance», spiega Fusillo. In questo contesto neppure i generi possono essere fisse, e il romanzo si ibrida col feuilleton e la sceneggiata napoletana. Ferrante sorprende, perché anche i lettori devono essere smarginati, entrare nella «frantumaglia» e nella polifonia di voci, immergersi in un quadro della storia e della società «lucido e spietato», in cui l’utopia è infantile e frustrata, soprattutto negli anni Settanta.
Ecco perché Elena Ferrante è tanto amata: dice molto di noi.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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