inQuiete. Festival di scrittrici #9. Helena Janeczek racconta Gerda Taro e la sua Leica indipendente

Le donne, in particolare le artiste, sono state spesso definite per relazione, con un genitivo. Gerda Taro, fotografa, non fa eccezione. Il nome dice poco a molti. Ad alcuni le idee si fanno più chiare se la si presenta come la compagna di Robert Capa, uno dei più celebri reporter di guerra della storia, se non il più celebre.
A Inquiete Festival anche Gerda ritrova la sua indipendenza, la sua individualità. Diventa La ragazza con la Leica. A raccontarla è Helena Janeczek, che con la Taro ha in comune le origini tedesche.

Nata nel 1910 a Stoccarda ma cresciuta a Lipsia, fu arrestata nel 1933 per attività politiche e propagandistiche. Un evento che la costrinse a riparare a Parigi, dove conobbe Andre Friedman. Per tutti Robert Capa, prima di partire per fissare in immagini la guerra di Spagna che le diede la fama e la morte.
Una donna inquieta, appunto, sfuggente. La sua irrequietudine la fa immaginare come una sorta di fantasma, mai nello stesso luogo. Fantasma lo è anche sulla pagina della Janeczek: non appare mai direttamente, rievocata invece solo dalle voci degli altri. Tre in particolare, che ne hanno condiviso l’esistenza molto prima che Gerda diventasse la ragazza di Capa.

Ruth Cerf, innanzitutto: l’amica di Lipsia, che le fu vicina nei tempi più duri a Parigi e la vita bohèmiene. Willy Chardak, che decise di accettare il ruolo di «cavalier servente», dopo che Gerda gli preferì il miliziano delle Brigate Internazionali Georg Kuritzkes.

Secondo Daniela Brogi, che modera l’incontro, Helena Janeczek si inserisce nel filone di un’attitudine comune: «le narrazioni del XXI secolo interrogano il Novecento, chiedendo “cosa abbiamo dimenticato?”».

Proprio in questo, spiega la Janeczek, si ritrova il motivo che l’ha spinta a raccontare la storia di Gerda. L’autrice ne rivede la vita nell’oggi. La vita di Parigi, così vicina a quella delle dei profughi di oggi. Il suo stare in prima linea, che spinge la scrittrice a raffrontare alle combattenti spagnole le guerrigliere di Kobane, che cantano le stesse canzoni.

Il romanzo, edito da Guanda, accosta alle parole numerose fotografie. Un uso non comune ma coerente: non solo perchè Taro – e Capa, di cui a lei si deve la creazione del mito – sono fotografi, ma perchè in quanto tale «ogni fotografo racconta se stesso, nelle sue immagini».

Con questo romanzo l’autrice italo tedesca aggiunge un nuovo ritratto a una bibliografia che vede spesso la resa romanzata di storie reali: le vittime dei campi di sterminio di Lezioni di Tenebra (1997), i soldati dei paesi dimenticati sul fronte italiano di Le rondini di Montecassino (2011) e soprattutto Clare Tomkins, la prima vittima della cosiddetta “mucca pazza”, in Blody Cow (2012).

L’accurata ricerca negli archivi di tutta Europa porta l’Europa a fare un lavoro diverso dai precedenti, secondo Danela Brogi: «non ha scelto un’icona, ma le ha ridato visibilità»

L’autrice chiarisce tuttavia che il suo intento era invece quello di «deiconizzare» una figura che sta sempre più acquisendo il suo spazio soprattutto tra i fotografi. Alcune sue immagini – persino quella del miliziano morente che diede la fama a Capa secondo alcuni si deve a lei – hanno fatto epoca, ma nel romanzo non sono raccontate a parole, perché, commenta l’autrice, «ho capito che non c’era spazio per un narratore» ulteriore rispetto alle voci dirette di chi ha conosciuto Gerda.
Le tre voci che la tratteggiano, accanto ad altri cinque o sei personaggi a tutto tondo che animano il romanzo, assumono l’onere di dare «anima narrativa a vite fuori fuoco».

L’obiettivo non è però squisitamente biografico. Tra le pagine si ritrova anche un antifascismo che «fa i conti con se stesso», i cui protagonisti sono sconfitti anche se la storia li considera vincitori.

Gerda Taro si fa così simbolo, «una luce che attraversa tutto anche al di là della sua morte», nel suo progetto di cambiare il mondo e le relazioni. Una possibilità che le è data dal suo liberarsi del genitivo, di essere persona, indipendente, «una donna che si guarda allo specchio e dice no, e grazie a questo no riesce a dire io».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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