Mimmo Paladino enciclopedico. Germano Celant ne celebra storia, successi, prelievi e nuove cosmogonie

Mimmo Paladino, Porta di Lampedusa, porta d’Europa, 2008 Pittura murale, dimensioni ambiente Installazione per la mostra al Museo dell’Ara Pacis, Roma, 2008 Foto Ferdinando Scianna

“All’artista non bastano più i soli pennelli. Una sorta di arte totale è necessaria proprio alla luce di tutti i tentativi che sono stati già fatti”. (Mimmo Paladino, 1985)

Sono più di 35 anni che Domenico (Mimmo) Paladino (Paduli, in provincia di Benevento, 18 dicembre 1948) è nel cuore del sistema dell’arte: un poderoso catalogo, edito da Skira (2017), in una versione in italiano e una in inglese, lo racconta esaminandone la ricerca attraverso un sapiente percorso sia di analisi storico-critica della sua opera, dal 1963 a oggi (Le costruzioni di Mimmo Paladino), compiuta da Germano Celant, sia da una Cronologia (di Germano Celant e Diletta Borromeo), dagli Apparati, fondati dagli elenchi di esposizioni e progetti speciali dell’artista e immancabile, dettagliata Bibliografia.

Molto interessante la scelta di puntellare l’insieme iconografico con le dichiarazioni poetiche dello stesso Paladino, che permettono di entrare in sintonia quasi empatica con il suo lavoro e ciò che lo sostanzia, divulgandone, quindi, forma, concettualità e pure le emozioni dell’artista: tutto di prima mano.

Questo volume è allo stesso tempo compendio e ampio approfondimento del procedere dell’autore campano: della sua ricerca e della sua resa della bellezza, quest’ultima così intesa:

 “Credo che il concetto di bellezza si possa costruire architettonicamente attorno alla Storia, ma, indubbiamente, muove dai sentimenti più profondi che ogni uomo possiede. Non sparendo l’uomo come entità biologica, né come entità immaginativa non può sparire neanche l’idea di bellezza” (Storia e post-storia. Conversazione tra Mimmo Paladino, Arthur C. Danto e Demetrio Paparoni, in “Tema Celeste”, Siracusa, a. XIII, n. 52, estate, 1995)

In questo enciclopedica pubblicazione si racconta Paladino ma anche ciò che c’è stato e c’è intorno, e lo ha cresciuto, influenzato: l’avanguardia napoletana, con il Gruppo 58frequentato grazie allo zio Salvatore –, i nucleari, Enrico Baj più di tutti, un po’ di Debuffet, di “Documento Sud” e poi “Linea Sud”, Luca (Luigi Castellano), tanto importanti per la sua prima formazione; e si conferma la rivelazione che ebbe, ragazzino, di fronte alle opere di Robert Rauschenberg, Claes Oldenburg, Jesper Johns – “ho scoperto che era quella la mia scuola, la mia Cappella Sistina” (citato in un’intervista dell’artista a Giancarlo Politi, Mimmo Paladino. Ritorno A Milano, “Flashartonline”, 292, aprile 2011) – alla Biennale di Venezia del 1964, quella dello sbarco della Pop Art che spostò l’ago della bilancia della ricerca pittorica e del connesso mercato dall’Europa agli Stati Uniti; e si trova la Galleria Carolina di Portici (Napoli), dove nel 1968 ha la sua prima esposizione conoscendo l’allor giovane Bonito Oliva; Enzo Cannaviello, alla cui galleria, lo Studio Oggetto di Caserta, nel 1969 ha la sua personale; la Galleria Nuovi Strumenti di Brescia, dove espone solo lavori fotografici; si rivede il dipinto Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro” del 1977, considerato uno dei quadri-simbolo della reazione a Concettuale, ovvero del ritorno degli artisti alla pittura e segnale di un cambiamento già percepito all’esposizione Internazionale Triennale für Zeichnung, a Breslavia, dove pure Paladino partecipa; e si incontrano, Lucio Amelio (nella cui galleria napoletana nel 1977 realizza con i pastelli un grande murale), Paul Maenz, nella cui galleria di Colonia ha la personale, lo stesso anno che alla Galleria Toselli di Milano nella personale (1978) realizza Il Brasile si sa è un pianeta dipinto sul muro di Franco Toselli; e poi ecco New York, nel 1978, e Annina Nosei alla cui galleria esporrà due anni dopo, contemporaneamente alla collaborazione con Marian Goodman; ecco, ovviamente, Aperto ’80 della Biennale di Venezia – con i sodali di Paladino – Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria –, che segnerà la nascita della Transavanguardia; ed Emilio Mazzoli, anche lui punto di riferimento della carriera espositiva di Paladino, che con il potente gallerista di Modena edita il libro EN-DE-RE; e poi ecco la mostra-kermesse A New Spirit in Painting alla Royal Academy of Art di Londra, e Jean Christophe Ammann, Andreas Franzke, Wolfgang Max Faust, mostre internazionali – al Kunstmuseum di Basilea, al Kestner-Gesellshaft di Hannover che gli organizzano una mostra di disegni realizzati dal 1976 al 1981; al Kestner-Gesellshaft di Hannover, al Mannheimer Kunstverein, al Groninger Museum – che lanciano anche Paladino nel cuore dell’agone internazionale. Siamo ormai nel 1981: è fatta. In questa costruzione composta da opere, cronache, incontri, collaborazioni, personaggi, non mancano, tra gli altri, Gian Enzo Sperone, presso la Galleria Sperone Westwater di New York ha nel 1985 una significativa personale, Giorgio Persano, Mario Diacono, Italo Mussa, Alessandro Mendini, Bruno Bischofberger, Giuliano Gori, Norman Rosenthal, Christos Joachimides; e l’architetto Roberto Serino, con cui collabora per la chiesa di Gibellina  – nel piano di ricostruzione complessiva della città, predisposta da Arnaldo Pomodoro, dopo il devastante terremoto del 1968 –  e con cui torna a cooperare per la realizzazione di un’opera scultorea per la città di Benevento, inaugurata solo nel 1992; nel catalogo si racconta anche di un… orologio Swatch,  ideato da Paladino (in tiratura limitata, data 1989) e di Brian Eno, che nel 1999 realizza una musica appositamente per lui e la sua installazione I Dormienti, nel sotterraneo della Roundhouse di Londra; lo stesso anno la Royal Accademy di Londra lo insignisce del titolo di Membro Onorario. Gli anni Novanta, i Duemila sino al 2015 si susseguono, sono analizzati, narrati, fatti vedere attraverso altre immagini di brochure, libri, locandine di mostre, kermesse e opere, che indirettamente indicano, parrebbe, anche la necessità di Paladino di lavorare in silenzio, concentrato, indifferente allo scorrere degli eventi e in piacevole solitudine e nella natura – non in viaggio per il mondo, non a Milano ma a Paduli –, quasi a voler ricaricare se stesso, la sua anima e la sua vena creativa, accogliendo la luce e il contatto con la terra… Radici…

Germano Celant puntualizza tutti questi avvenimenti ma è stato anche spesso ivi presente; lo è stato molto e con ufficializzazione storica Achille Bonito Oliva, deus ex machina della Transavanguardia; proprio quest’anno, in questi mesi, il movimento compie 38 anni (dalla pubblicazione de La Trans-avanguardia italiana, “Flash Art” 92-93, ottobre-novembre 1979), che questo volume celebra andando, però, ben oltre: non è un caso, infatti, che non lo firmi Bonito Oliva ma Celant – entrambi i critici, allora, l’un contro l’altro (dis)armati – a sua volta deus ex machina dell’Arte Povera, che considerava proprio il PostModern e la Transavanguardia una sorta di “ritorno all’ordine”, come se significassero, cioè, la fine del moderno e quasi della Storia; eppure, Celant di Paladino – e non solo di lui – si è poi occupato… e qui torna, infatti, a farlo. Questo suo volume non celebra la Transavanguardia, si diceva: solo perché questo tomo è centrato su tutto-Paladino. O su Paladino-tutto.

Se la Transavanguardia fu, come è stata, “[…] veramente un vento di spiazzamento” (M. Paladino in: Alessandro Valeri, Da un’intuizione teorica. La Transavanguardia italiana, video, colore, 27’ 16’’, 2011), che mai volle contrapporsi all’avanguardia, semmai “attraversarla” (Achille Bonito Oliva, cit.), riacquistando una libertà dalla storia e dall’etica per recuperare, con un atto post-moderno e tanta pittura, immagini e altri riferimenti dal passato, adottati in modo autonomo, a-cronologico, eterogeneo, l’arte di Paladino, scultura compresa (si veda anche un altro prodotto Skira, del 2010: Mimmo Paladino. La scultura 1980-2008, di Enzo Di Martino), è a maggior ragione frutto di stratificazione. Vi si trovano composizioni con immagini sia figurative sia non figurative, una densità immaginifica che si fa via via più puntuta, rarefatta, che accoglie stilizzazioni e un certo decorativismo dentro; e poi un’enigmaticità piena di allusioni; “qualcosa di magicamente alchemico” (come scrive Arthur C. Danto a proposito della sua Montagna di sale allestita a Milano nel 2011, dopo piazza del Plebiscito a Napoli nel 1995 e, prima ancora, nella distrutta Gibellina nel 1990, come scenografia teatrale di uno spettacolo di Elio De Capitani alle Orestiadi); identifichiamo lacerti, paesaggi allo stesso tempo mentali e con qualche aderenza alla realtà, molto Sud, cromatismi vitalissimi, una certa sontuosità anche nelle conformazioni più lievi, la sperimentando delle diverse tecniche tradizionali e la Storia (non solo dell’Arte), che se è già fatta di transiti e tracce, nella produzione di Paladino è parcellizzata, analizzata – anche emotivamente, sembrerebbe – e ricomposta in una nuova, più ricca narrazione a carattere rizomatico: dove si scopre sempre, prima o poi, il filo legato all’originario. Se è vero che “[…] ogni disegno è un’illusione, qualcosa di antichissimo, di primordiale” (Salvatore Basile, Misticismo arcaico di Mimmo Paladino, in “Messaggio d’oggi”, Benevento, 19 marzo 1970), la recettività di Paladino verso la robustezza e la validità dell’arcaico è da lui portata a suo modo nella sua opera. Essa sembra invertire la tendenza tipica dell’epoca odierna, che accumula in modo onnivoro, consuma in modo velocissimo – e dunque perde – nozioni, riferimenti, memoria, immagini e immaginario, seppellendo tutto sotto la produzione esponenziale di ulteriori dati, il più delle volte passeggeri e scarichi di profondità; no, lui, Paladino, pare ribellarsi a questo sperpero con la sua pratica della dotta metabolizzazione, selezione, raccolta e del calibrato reimpiego di tanto prezioso materiale del passato che, parzialmente e appositamente considerato, si tramuta in un tutt’uno nuovo, palpitante: un florilegio di cosmogonie fondato su e attivatore di cortocircuiti visivi e di senso. Sempre sul filo dell’uniformità linguistica.

“Si può dipingere l’antico in una sola immagine? L’antico scivola rapido sulla superficie pura delle cattedrali. Ciò che abbaglia resiste all’ingiustizia che misura e regola le tessere del realismo” (Mimmo Paladino. Cacciatore di ombre, in Jean Le Grac, Mimmo Paladino. Archeologie, catalogo della mostra – Bologna, Museo Civico Archeologico, 27 novembre 1994-10 gennaio 1995, Danilo Montanari edit., Ravenna, 1994)

 Questo libro definisce tutta questa vastità con precisione, palesando, pagina dopo pagina, il contributo dell’artista al rinnovamento della pittura che, dopo essersi estesa all’ambiente, si è trasposta nella fotografia e si è solidificata nella scultura ed estesa in architettura, nel cinema, nell’ambito della lirica e del teatro. Ogni passaggio è contestualizzato all’interno dello sviluppo degli accadimenti artistici, culturali e politici degli anni esaminati e, come sempre Celant fa, restituendoci piccoli, preziosi saggi di Storia dell’Arte. In questo cono di luce Mimmo Paladino è artista che è nel suo tempo ma intento a superarlo perché convinto che “[…] comunque l’arte debba andare oltre”.

Germano Celant, Mimmo Paladino, Skira, Milano, 2017

  • Edizione in italiano
    ISBN: 885723192
    Dimensioni: 16.5 x 24 cm
    Pagine: 800
    Illustrazioni a colori: 880
    Illustrazioni in b/n: 880
    Rilegatura: Cartonato
  • Edizione in inglese:
    ISBN: 885723221
    Dimensioni: 21 x 28 cm
    Pagine: 732
    Illustrazioni a colori: 793
    Rilegatura: Cartonato
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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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