L’isola che non ti aspetti è qui. Focus on: Sardegna

Il Leone d’oro assegnato all’Angola nell’attuale edizione della Biennale di Venezia, sa un po’ di Sardegna, o meglio ancora di Sulcis, eh sì, il curatore del Padiglione africano, Stefano Rabolli Pansera (Beyond Entropy Ltd) è anche il direttore del MACC, e della galleria Mangiabarche, a Calasetta. Un riconoscimento internazionale accompagnato da una dose di spregiudicata attenzione verso realtà periferiche, ma determinate a rispondere alle sollecitazioni intelligenti di persone intelligenti con progetti intelligenti, del resto Beyond Entropy Ltd è un’agenzia non profit, che s’ispira al concetto di Energia come strumento poetico per definire nuove strategie territoriali e urbane, lavorando in aree critiche del pianeta, dalle periferie sovraffollate delle metropoli Africane alle steppe desertiche dell’Asia Centrale fino al Sulcis, appunto una delle zone più belle ed ostili, del pianeta.

Adesso, anche la Biennale di Venezia sembra confermare la centralità dei territori periferici, sempre che questi sappiano costruire strategie di accoglienza per percorsi alternativi verso il centro.

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Intanto, in loco, Stefano Rabolli Pansera ci ha regalato una bellissima mostra, realizzata dagli artisti dell’ultima residenza Joanne Robertson, Nicolas Amato e Rosie Putler, dove ha messo in gioco quell’aspetto pulito e White dell’architettura recuperata, ad arte, di Mangiabarche. Sembrava quasi che fosse stata occupata da una famiglia figlia della disperazione e della crisi: il tetto (che non è stato volutamente ricostruito per permettere di vivere uno spazio aperto al cielo) era stato ricoperto da arbusti e piante secche, all’esterno dei tiranti sostenuti da dei blocchetti, sospesi, di cemento, sembravano compromettere la bianchissima linearità del muro. All’interno grandi teli, recuperati dal cantiere, apparivano grossolanamente dipinti, una vecchia borsetta da donna, raccattata chissà dove, era appesa in un’assemblage improponibile, il tutto condito da un forte vento di maestrale, quello che piega gli alberi. Pochissime persone hanno avuto la forza di presentarsi alle assolate ore 17, nell’isola un curatore dal Leone (e dal cuore) d’oro ancora non smuove l’esercito dei vernissage. Fantastica, bellissima, pazzesca che altro dire, l’ora insolita è stata scelta perché gli arbusti e le piante messe sul soffitto, che non c’è, erano stati messi dall’artista di Los Angeles (alla sua prima esperienza espositiva in assoluto) Nicolas Amato per proiettare sui muri incredibili decorazioni; e va bene che la sua professione, prima di questa esperienza che l’ha convinto ad approdare a quella dell’arte, è stata quella di tecnico delle luci per il cinema di Hollywood, ma la semplicità del gesto ha lasciato sul campo, anzi sui muri, tutto il marchingegno per sostenere l’effetto, un po’ come nel cinema, dove dietro l’immagine c’è tutto l’apparato di ripresa. Ma è proprio questo che ne fa una straordinaria macchina per la messa in scena dell’opera, infatti i tiranti disegnano delle forme astratte sui muri che ricordano la vocazione astrattista del MACC. La pittura, anzi quelle pitture, che abbiamo poc’anzi definito grossolane, in realtà utilizzando la forza cromatica del materiale, il colore riempie solo una parte della superficie, riescono a superare quella divisione tra supporto e finzione, diventano dei quadri di una potenza straordinaria. La mostra ci sorprende proprio per quel suo svelarsi poco a poco, la sensazione all’uscita è diversa da quella dell’entrata, questo si che è arricchirsi di un’esperienza.

Fino a due anni fa, per parlare in questi termini dovevamo, in Sardegna, riferirci esclusivamente all’esperienza del Man di Nuoro. Noi è dall’estate del 2009 che scriviamo, proprio su questa rivista, che l’Isola non sarebbe più stata solo Man, che una nuova generazione e nuove pratiche dell’arte si stavano muovendo nel profondo Sulcis. Sulcis che con la mostra del progetto La Bibliotecha fantastica, dell’Associazione Cherimus è di scena proprio al museo barbaricino.

A cura di Emiliana Sabiu, a mostra parte da un progetto di valorizzazione delle biblioteche del Sulcis che ha coinvolto 12 artisti in un’inedito incontro con i ragazzi del posto e “con le loro infinite storie”. Nella mostra sono proiettati quattro cortometraggi girati dai ragazzi durante il progetto, anticipati dai trailer realizzati da Andrea Canepari e Guido Bosticco e dalle locandine in perfetto stile coming soon di Vincenzo Cammarata e Guido Bosticco. Gli altri interventi invadono lo spazio che, da biblioteca fantastica, diventa esperienza visiva fantastica, allontanando qualsiasi ricordo dell’aver agito in un territorio messo in ginocchio da una crisi senza precedenti, incarnando l’energia positiva dei bambini delle scuole che hanno incontrato, quasi a restituirci la speranza. Non si sfugge così all’aspetto giocoso, quasi spensierato, allegro, dove la ricerca artistica diventa disponibile anche a divertire. Simone Berti realizza una sorta di piccola vasca bibliofila dove fa galleggiare le marionette e gli oggetti realizzati dai ragazzi; Michele Gabriele ci restituisce il ricordo del workshop flessibile nel vero senso della parola; Jonathan Vivacqua fa rotolare una morbida palla sonora; Matteo Rubbi realizza delle insegne luminose, già “vissute” ed esposte alle intemperie, dedicate ai paesini che hanno partecipato al progetto, Giba, Masainas, Perdaxius, Piscinas, Santadi e Villaperuccio; Marcos Lora Read ha trasformato dei libri abbandonati e obsoleti in nuovi oggetti; Derek Maria Francesco Di Fabio attraverso delle sculture sospese trasformando i disegni dei ragazzi; Daniella Andrea Isamit Morales ha realizzato un video che racconta il backstage e partendo da frasi raccolte dai ragazzi crea una lingua inesistente conciliando il Sardo-Campidanese con lo Spagnolo-Venezuelano (con il supporto di Ivo Murgia); Stefano Faravelli ha presenta il suo carnet di viaggio realizzato durante la permanenza nel Sulcis; Andrea Bocconi e Guido Bosticco, hanno riassunto e trasfigurano le storie di tutti i cortometraggi in un unico testo inedito, infine Carlo Spiga ha raccolto sedie nei i bar della città per consentire allo spazio di diventare una piccola sala cinematografica.

Mentre il LEM, a Sassari, continua imperterrito sulla strada che spazia dalla pittura (buona) all’accrochage e di artisti (buoni) di tutti i tipi, raccattati, troppo spesso, non da un’attenta strategia curatoriale, ma in occasioni di incontri in altri progetti, il solito ottimo piccolo grande spazio della Wilson project riesce ancora una volta a rianimare la città, un tempo capitale indiscussa dell’arte isolana (ed isolata) con Cristian Bugatti (Bugo), che ha sistematicamente chiuso fuori il pubblico esponendo l’opera, due ritratti, sull’esterno dello spazio.

Se a Sassari è stata invasa una via da parte del pubblico “messo alla porta” da parte di Bugatti, a pochi km di distanza, a Sindia, l’arte ha invaso un ovile, ed un nuraghe. Artefice dell’invasione è stato il giovane artista Nicola Mette, che con l’azione Pecore anarchiche style, ha trasportato tutto lo staff dell’Agrifest –Agrifactory del Sulcis (Baccanale, Neuroni attivi e GiuseppeFrau Gallery), realizzando una performance in cui ha tosato le pecore come dei leoni. Appena arrivati nel suo paese, l’artista è di Sindia, fermandoci in un bar con i tavolini sepolti da una miriade di birre Ichnusa, sentivamo la gente già parlare di questa festa “de sos frozzos” (froci), credendo, e soprattutto facendo credere alla popolazione, com’è nello stile di certa sottocultura dell’isola, che Nicola Mette avesse messo in discussione la stessa dignità etero degli ovini, e che il pubblico dell’arte contemporanea accorso all’evento, sarebbe stato una sorta di gay pride con intenzioni orgiastiche con derive rave. Nell’ovile, accanto ad un nuraghe, i carabinieri, accorsi per porre eventualmente fine a tale scandalo, hanno invece trovato pecore, pastori, tenores (neoneli), gastronomi (Giovanni Fancello), famiglie, artisti e amici degli artisti, gruppi musicali (BreakinDown + GrandMother Safari + Perry Frank + Redrum), maschere tipiche (Sos Corriolos), turisti e naturalmente, a parte l’Assessore alla Cultura di Sindia, che beveva del buon vino con il Sindaco di Neoneli, quasi nessuno degli abitanti del paese. Paese che si è ancora dimostrato ostile nei confronti del suo artista: ricordiamo ancora con sbigottimento la difesa del sindaco (poi destituito e commissariato) in merito alla scritta “Nicola, gay, sei la vergogna del paese, vattene!”, apparsa in occasione della performance che vide protagonisti maschere e gruppi storici della Sardegna e il loro reciproco scambio dei vestiti, emblematico agire contro la violenza sulle donne. Va fatta a questo punto un’osservazione che tenti un’analisi: l’ostilità sopra citata, in realtà è (stata) di pochi, ma i tanti hanno pesato ugualmente: sono quelli che hanno avuto paura di partecipare all’azione nel timore di essere presi in giro e giudicati troppo concilianti con i gay… Anche questa è Sardegna, quella Sardegna che proprio in questi giorni ha organizzato un vero e affollatissimo Gay Pride, ma che è vittima di una cultura sessista e maschilista, dove anche la donna è sottomessa ed a volte compromessa, in questa idiozia collettiva: altro che Dea Madre, altro che società matriarcale! Eppure, i pastori che hanno accolto l’evento sono proprio di Sindia, veri, duri e puri, ospitali, disponibili: senza aver ricevuto nessun compenso, hanno aperto il loro ovile, il loro nuraghe, le loro pecore, all’arte ed alla festa. Anche questa, anzi è questa la vera Sardegna, quella che non ti aspetti, capace di contraddirti continuamente, tradizionale e capace di cogliere l’innovazione.

Infatti L’Agri-Factory è una comunità 3.0 ad alta energia creativa, nata per permettere uno scambio di saperi tra arte contemporanea, ricerca musicale, bioarchitettura, tecnologie open source, agricoltura (permacultura, biodinamica, sinergica, ecc.), economia della decrescita e sviluppo sostenibile. Nicola mette (verbo) la pecora all’interno di un processo di riabilitazione, proponendola quasi come una divinità, ripulendola, con il suo tosarla in maniera estetica, dall’infamia della viltà, ci vuole tutto il coraggio e la forza di un gregge per risollevare le sorti di un economia messa in ginocchio da una crisi inesorabile, di cui i pastori, per primi hanno incarnato la lotta. Non possiamo pensare la pecora senza l’uomo, e se qualcuno volesse affrontare la pecora, deve affrontare il pastore. Pastore che è l’immagine stessa della forza, in quell’ovile, pastore e pecora sembravano un tutt’uno con il nuraghe. Nuraghe (Nela) ancora con la volta intatta, dove uno dei tenores di Neoneli ha potuto dire, dopo aver cantato al suo interno, di non aver mai sentito la sua voce così perfetta, tutto il canto a tenores deve essere nato là dentro, ha detto. Parola di tenores. Appunto. Un’esperienza, questa, maturata dalla necessità di dialogare con le forze produttive, e sostenibili, dei territori, grazie alla nascita del Distretto Culturale Open Source appena auto-attivato nel Sulcis, ad opera della fondazione Macc, Mangiabarche di Calasetta, di Cherimus, della GiuseppeFrau Gallery e dell’Agri- Factory (Baccanale, Neuroni attivi, GFG).

Auto-attivato, in quanto non è un atto concordato con la politica, con protocolli d’intesa e tanto di convegno di Pierluigi Sacco, ma una constatazione che quello che si sarebbe dovuto realizzare nel sogno politico si è invece realizzato spontaneamente in quello artistico, con la mission di portare la cultura come matrice dei nuovi processi dell’innovazione, dell’economia e della sostenibilità. Intanto speriamo che il territorio non si chiuda, come ha fatto la politica, alla ricerca ed alla sperimentazione culturale per la produzione di progetti ed azioni utili al territorio stesso, permettendo a tutta la comunità di poter sfruttare proficuamente la capacità da parte di un Distretto Open Source di pensare il futuro.

Scendendo nel Sud dell’isola, a Cagliari continua il nostro sforzo di trovare qualche segnale nella miriade di, dispersivi, spazi aperti in città, l’ultimo arrivato è il Temporary Storing, un luogo nella Fondazione Batoli-Felter, ma che niente fa, ed aggiunge, per uscire da una caotica routine, indegna di una capitale del Mediterraneo. Eppure, le forze ed i talenti, e forse anche il pubblico, ci sarebbero, ma la claustrofobia di un certo modo di fare strategie curatoriali da parte di personaggi inadeguati, improvvisati, o peggio superati, è una malattia incurabile. Per fortuna, Roberta Vanali, Carla Deplano ed Efisio Carbone si sono inventati un premio Babel che non solo ha riavviato gli animi e le speranze, ma ha anche fatto rete. Al di là delle singole qualità degli artisti, che pur ci sono, uno per tutti Riccardo Muroni, l’idea che si avviino dei processi e delle occasioni in cui gli artisti possano confrontarsi e mettersi in gioco, sfidando il giudizio degli addetti ai lavori, è sicuramente una delle strade possibili per uscire da una certa autoreferenzialità, che non sempre porta ad un’autoproduzione alternativa di qualità, ma che, soprattutto in un’Isola, porta all’auto-emarginazione. Troppi talenti sono andati persi per sempre nel tentativo di celebrarsi e affermarsi inveendo contro un sistema dell’arte che in Sardegna non c’è. O forse sì che c’è, o meglio inizia ad esserc:, un sistema nuragico e contemporaneo, proprio come l’abortito progetto del Bétile della Zaha Hadid…, chissà. Venite a trovarci, e non solo d’estate.

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Pino Giampà vive e sopravvive nel Villaggio Minerario di Normann nel profondo Sud-Ovest della Sardegna, dove fa parte di GiuseppeFrau Gallery, www.giuseppefraugallery.com, uno spazio non-profit, un collettivo, una postazione di ricerca nel territorio più povero d'Italia. Progetta, realizza e scrive, collaborando per "art a part of cult(ure)" come occhio vigile sulle realtà culturali e artistiche in terra sarda

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