L’ignoranza genera mostri, ad Iglesias,
Sud-ovest della Sardegna,
genera anche sculture.
Il Bel Paese, lo sappiamo, è tanto bello quanto pieno d’oscenità visive: a farla da padrone, fino ad ora, è stato l’abusivismo edilizio, lo stile nazional-palazzinaro e l’ingordigia ambientale delle case a schiera vista mare, il tutto condito da appassionate relazioni tra imprenditori ed amministratori comunali, a volte in odore di mafia, altre semplicemente in odore di soldi o di voti facili.
In questi contesti così esteticamente degradati e degradanti, anche l’arte ha avuto la sua brutta parte facendo da cornice ad arredamenti prodotti nella peggiore tradizione del trashdesign, ma è nel Sulcis, in particolare ad Iglesias, che da qualche anno si è aperta una falla culturale dovuta ad un’invasione di opere in perfetta sintonia con il malcostume visivo (etico-estetico) tanto caro agli esempi-scempi edilizi appena citati.
La complicità e l’assoluta mancanza di gusto, e competenze, nel settore da parte di alcuni segmenti importanti della città rischiano di rendere vano ogni tentativo fatto fin ora di portare il fare arte, nella provincia più povera d’Italia, ad un livello utile alla sua rinascita economica e sociale.
Il caso che questo articolo vuole denunciare non riguarda l’amministrazione locale, sindaco e assessore alla cultura per intenderci, ma l’atteggiamento di certi personaggi ed alcune associazioni che, almeno nelle intenzioni della loro mission, dovrebbero garantire un processo di qualità della cultura. Invece queste associazioni si sono distinte negli anni, sopratutto per aver saputo costruire un vero e proprio apparato parapolitico nel centro sinistra locale, realizzando comunque operazioni culturalmente dignitose soprattutto nel campo del cinema, ma per quanto riguarda le arti figurative si rivolgono esclusivamente ad un prodotto equivalente, tradotto nel cinema, ai cinepanettoni commerciali, per non dire a certi sottoprodotti audiovisivi amatoriali.
A tutti noi capita spesso di incontrare persone preparate e competenti nel campo letterario, cinematografico e musicale, però completamente digiune d’arte contemporanea, ma qui, ad Iglesias, siamo di fronte ad un vero e proprio granchio etico-estetico, che rischia di trasformarsi in un grottesco quanto pericoloso precedente.
Sicuramente in buona fede, allettato dalle prospettive di un buon orientamento nel territorio per far rinascere il locale Liceo Artistico, ormai con due sole sezioni ridotto ai minimi termini, il preside, con la Società Operaia di Mutuo Soccorso, si è fatto promotore di un simposio (si da noi li chiamano ancora così) di scultura, dove, più o meno, sempre gli stessi artisti cercano grossolanamente di domare grandi blocchi di pietra a mo’ d’immagine appena abbozzata di un minatore o di una cernitrice, e questa deriva figurativa nazional-popolare è addirittura richiesta, nel sito di presentazione del progetto, come condizione alla partecipazione: ogni anno ne vengono prodotte circa una decina che poi la città deve accollarsi, per contratto, in modo permanente, sistemandole nei pubblici giardini. Siamo abituati a veder comparire nelle nostre città sculture e monumenti di cattivo gusto e di anacronistia qualità artistica, ma questo ritmo, e con tanta ignoranza, Iglesias rischia seriamente, nel giro di una decina d’anni, di avere il record di brutte opere (d’arte?) pubbliche in tutta Italia. L’incauto dirigente scolastico si è rivelato quindi tanto digiuno d’arte quanto dotato di un particolare talento nel farsi coinvolgere da artisti che giusto personaggi alla Diprè (dietro lauto compenso) potrebbero definire tali, con il rischio, anche di compromettere il lavoro che molti altri artisti, provenienti proprio da quel liceo artistico che lui dirige, hanno fatto proprio per evitare che nel territorio, dopo i danni della crisi, arrivassero anche quelli provocati dalle derive culturali ad essa collegate.
Lanciata la polemica, soprattutto attraverso i social network, ecco comparire a difesa dello scempio estetico le immancabili figurine, tipiche dei salottini, dei bar e dei circoli di partito, della nostra provincia: caporali che non perdono mai l’occasione per palesare tutto il loro disprezzo verso chi prova a sprovincializzare e glocalizzare il fare e analizzare arte nel territorio.
Forse alcuni sperano in questo modo di costringere gli artisti, che non ci stanno ad abbandonare la città alla mediocrità visiva, ad operare un dietro-front rispetto all’impegno verso la rinascita culturale del territorio, costringendoli, magari, anche a ripensare le loro carriere artistiche e professionali in altre città.
Resistenza-Residenza! Se si accettasse di tener conto del giudizio, dei gusti e delle provocazioni di queste persone si compirebbe l’ennesimo triste rituale delle provincia che costringe inesorabilmente i suoi artisti migliori ad un esilio forzato, ma per fortuna, almeno per ora, gli artisti che operano all’interno del Distretto Culturale Open Source proprio non ci stanno ad abbandonare il loro territorio al più degradante sottobosco artistico e culturale rappresentato dagli operatori coinvolti in questi osceni simposi, ma non sono disposti a far passare sotto una, altrove, legittima indifferenza del vivere e del lasciar vivere, ormai questo amatorialismo diffuso sta pian piano occupando tutti gli spazi e le occasioni disponibili in città.
Quando si parla di abusi e di scempi edilizi c’è sempre la speranza che qualcuno un giorno finisca in galera, ma per i crimini compiuti in nome dell’arte la cosa di solito finisce solo per condannare la comunità al basso profilo artistico e culturale prima e a rimanere nei bassifondi di quello etico, economico e sociale, poi. Ma non si sa mai che, prima o poi, qualcuno di questi impostori visivi venga condannato, ancor prima che dalla storia, anche dalla stessa comunità che hanno pensato di ingannare e sfruttare.
Proprio il Sulcis si è dimostrato, in questi ultimi anni un laboratorio d’eccellenza per la ricerca artistica: MACC e galleria Mangiabarche a Calasetta, Cherimus, GiuseppeFrau Gallery (seppure sono parte interessata, la cito anche perché progetto collettivo) e Agri-factory Barega (Distretto Culturale Open Source ) sono il risultato di questo processo che ha avuto un certo riscontro anche a livello internazionale. Quindi appare fisiologico che a questo punto, se non scatta l’accoglienza ed il riconoscimento (cosa piuttosto difficile in territori ostili come il nostro) arriva puntuale quell’attacco prodotto dalla stessa politica che ha condannato il Sulcis ad un mare di veleni, prodotti da un’industrializzazione che ha avuto come scopo principale non solo quello di riempire le pance degli azionisti, ma anche di voti per le carriere di chi ancora tiene sotto scacco e ricatto il territorio. Tenere fuori l’arte e gli artisti che fanno ricerca, significa appunto voler rinunciare alla consapevolezza del presente e alla capacità di saper pensare il futuro propria dell’arte contemporanea impegnata, soprattutto nell’arte pubblica e sociale, puntando ancora sulla mancanza di comprensione e diffusione tra la popolazione dei codici specifici. Del resto è la stessa cosa che hanno fatto le grandi dittature del secolo scorso: si traccia come degenerata l’arte contemporanea ed al posto degli artisti d’avanguardia ci si rivolge ad artisti che possono passare tranquillamente da un ritratto di Stalin ad uno di un minatore, a seconda della volontà e dell’appartenenza politica.
Del resto alcuni preoccupanti segnali iniziano a manifestarsi e sembra che neppure un Leone d’oro come Stefano Rabolli Pansera passi indenne dalla ghigliottina di questi tentativi di restaurazione. Peccato, Calasetta sembrava quasi immune, ma la politica da queste parti non ti permette nessuna distanza e soprattutto nessuna possibilità di sopravvivenza se cerchi di dimostrare sul serio vie alternative di sviluppo e d’identità.
Carbonia, la più giovane città d’Europa, non è da meno, e pensare che solo fino a due anni fa si parlava di candidarla a Capitale europea della cultura. Oggi è Cagliari, ufficialmente candidata ed il Sulcis è ancora in gioco proprio con il capoluogo, ma se fate un giro in quello che fu il Territorium Museum (c’è ancora la scritta realizzata del collettivo GFG) noterete che al posto degli artisti che l’hanno inaugurato con le proprie mostre/workshop (Trevisani, Stampone, Perrone) oggi si fanno mostre di (probabili) amici dell’Assessore alla cultura (SEL) raccattati in una galleria nuorese che stimiamo di quart’ordine, dove era appena stata per presentare, e vendere, il suo libro.
Forse sarebbe il caso che proprio certi personaggi, spesso facenti capo a partiti ed associazioni di sinistra e quindi ispirati da una tradizione progressista e anticonservatrice, si domandassero se non fosse il caso che anche l’opera d’arte fosse trattata, letta, apprezzata e considerata nei contenuti della qualità del mezzo e del messaggio; così facendo, forse non si rivolgerebbero ad opere e artisti che nel loro fare sono nettamente conservatori e nazional-popolari. Detto in parole povere: non basta che l’artista impegnato sia iscritto ad un partito o ad un’associazione simpatizzante in area politica progressista per diventarlo automaticamente lui e innalzare a tale stato anche la sua opera; anzi: molto spesso, dietro certe dichiarazioni dei nipotini di Gramsci e dei figli di Santoro, si palesano opere ed artisti che lanciano forme e messaggi esattamente contrari, più adatte a momenti storici in cui le dittature ed il populismo la facevano da padrone.
Insomma si rendano conto una volta per tutte, che non possono da una parte amare il cinema, la letteratura, la musica d’autore, condannare l’abusivismo edilizio e gli scempi ambientali e proporre dall’altra opere ed artisti che non solo sono esattamente all’opposto, ma che spesso combattono duramente la ricerca artistica contemporanea (e d’autore).
Facendo leva sulla quasi totale assenza di familiarità con i codici ed i linguaggi dell’arte contemporanea di una buona parte della popolazione, gli Sgarbi ed i Diprè hanno costruito la loro fortuna mediatica, esattamente come una certa politica ha sfruttato le stesse lacune per fare il pieno di voti e di populismo. Questa parte becera e conservatrice (ma politicamente trasversale) insiste nel far credere che la qualità dell’arte possa, al pari di qualsiasi altro prodotto, essere decisa a naso, rivolgendosi al proprio gusto personale senza chiedersi se questo fosse in realtà allenato ed alimentato da una corretta esperienza. A questo gioco, dalle nostre parti, si prestano anche insospettabili associazioni che pure dovrebbero ben conoscere gli sforzi, proprio da loro compiuti, per educare la gente al buon cinema o al buon cibo: non si riesce a capire come possano pretendere che la più complessa tra le arti sia invece abbandonata alla pura esperienza sensoriale senza nessun riscontro oggettivo o formativo, sicuri oltretutto che questo non produca, nel tempo, danni economici e sociali ben peggiori del cattivo cinema e del cattivo cibo.
Questa storia, apparentemente lontana anni di luce dalle dinamiche dei centri della cultura dell’arte contemporanea e del target a cui si rivolge questa testata, non vuole essere il segnale di una resa, quanto piuttosto una dichiarazione di guerra per non abbandonare le nostre province in mano a certi gesti irresponsabili, ma anche per evitare che prima o poi questi finiscano per costringere la ricerca artistica d’avanguardia ad arroccarsi sempre di più all’interno di nicchie sempre più in alto per essere ancora in grado di poter interagire con la comunità.
Intanto per evitare che il territorio resti scoperto agli attacchi del terrorismo kitsch e da certi criminali estetici, proprio ad Iglesias il collettivo GiuseppeFrau Gallery sta collaborando con l’amministrazione comunale per la creazione di una Scuola Civica d’Arte Contemporanea, la prima di questo genere in Italia. Hanno già dato la disponibilità a collaborare alcuni tra i giovani curatori ed artisti sardi in prima linea da anni per evitare che la Sardegna diventi dimora privilegiata degli scarti di produzione artistica e culturale spesso provenienti dal Continente. Non sarà una cosa facile e sicuramente saranno in molti a cercare di far naufragare l’idea: non dimentichiamoci che intorno a questa esperienza c’è infatti il territorio non solo più povero d’Italia, ma anche il più inquinato, depresso, politicamente compromesso e culturalmente ostile; proprio per questo un laboratorio irripetibile in cui il fare arte si scontra quotidianamente con l’arte di chi, seppur abbia toccato il fondo, preferisce continuare a scavare piuttosto che cercare di risalire.
Pino Giampà vive e sopravvive nel Villaggio Minerario di Normann nel profondo Sud-Ovest della Sardegna, dove fa parte di GiuseppeFrau Gallery, www.giuseppefraugallery.com, uno spazio non-profit, un collettivo, una postazione di ricerca nel territorio più povero d'Italia. Progetta, realizza e scrive, collaborando per "art a part of cult(ure)" come occhio vigile sulle realtà culturali e artistiche in terra sarda
Tenterò di fare un ragionamento serio, nonostante la nota bassezza etica e culturale di chi ha scritto tale anti-focus: La distinzione tra arte alta e arte bassa fa riferimento a un modello industriale capitalistico ottocentesco, dove si è stabilito una separazione tra un pubblico “colto” al quale rivolgere un arte alta, e un “popolo”, ridotto a nutrirsi delle briciole della borghesia privata, cui Pino Giampà contro il popolo che abita il territorio (che non è suo e non è un bene privato) fa puntualmente e testualmente riferimento. Questa logica di pensiero ha in passato disgregato e distrutto forme espressive, culturali ed artistiche popolari e comunitarie; lo scenario reale è questo, trovare punti di riferimento comuni tra singolo creatore o creativo artigiano (non artista, se parliamo di linguaggio e didattica dell’arte il termine artista è fuorviante) e un ambiente socioculturale determinato, in questo caso il Sulcis Iglesiente. In questa ottica con la sua programmazione culturale privata di galleria, associazione o combriccola medioattivista vicino alla setta, dovrebbe cominciare a pensare che è il pubblico ad alimentare realmente il creativo e che di lui si nutre. In una realtà come quella Iglesiente perché persistere in una inutile pantomima mediatica rivolta esclusivamente a una borghesia e una classe dirigente a cui strizza ripetutamente l’occhio, che vive il suo rapporto con l’arte che patrocina all’insegna della doppiezza schizzofrenica se non dalla malafede? Perché violentare con la propria visione dell’arte invece che lavorare per fa si che lo spettatore si riconosca in essa? Che senso ha nel 2014, ragionare sull’arte con un unico parametro, ossia è arte ciò che è avanti rispetto a ciò che l’ha preceduto? Chi può dire tra Michelangelo, Rodin, Rosso, Calder, Brancusi e Modigliani chi è arretrato? In musica quanti sono i capolavori atonali? La Scultura su pietra a prescindere dallo stile e dal linguaggio dei singoli artisti è un linguaggio classico e anche popolare dell’arte, quanta è invece l’arte contemporanea che si contorce su se stessa, concepita in salottini e stanze private, che non ha nulla, realmente nulla da dire a pubblico, comunità e territori? Dopo il Rinascimento c’è mai stata per quelli che sono i canoni dell’arte d’avanguardia contemporanei una grande scultura? Forse sta morendo, forse stanno morendo le opere d’ingegno, proprio quelli oggetti durevoli che erano forti della loro classicità, portatori della memoria, destinati a una esistenza indefinita nel tempo, rimandabili a un ambiente e una datazione precisa (ti sembra una presa di posizione anacronistica e nazional popolare signor Pino Giampà?). Viviamo in un tempo che definisce come eccellenza e merito l’effimero, che cestina l’opera in favore del prodotto. Adesso, tu bistratti tanto l’etichetta di “popolare”, ma è proprio nel popolare l’unica possibilità di reazione costruttiva al monopolio del prodotto, il linguaggio popolare, primitivo e durevole dell’arte permette una gamma infinita di realizzazioni e di espressioni e tutte contemporanee; il linguaggio popolare lascia realmente spazio all’eccellenza dell’interprete quando diventa circolare (questo è un simposio di scultura ignorante! Ma se preferisci puoi anche chiamarlo performance plastico scultorea dal vivo). Anche quando la Scultura, come nel caso di queste dimostrazione didattiche a tempo, non è fatta esplicitamente per conservarsi, permane, nel suo modo di essere, trasmettere e veicolare capacità soggettive che rendono anche certe brutture localizzate, uniche e irripetibili (è linguaggio dell’arte, da sempre è stato così, è il linguaggio più antico del mondo, altro che le tue strumentalizzazioni politiche per qualche spicciolo), capacità soggettive insite nella comunità stessa (quelle che tu vorresti ideologicamente forzare), da questo punto di vista, il mio, con orgoglio, ribadisco di essere in posizione diametralmente opposto rispetto alla tua idea di produzione di arte contemporanea dettata dal mercato (anche quello del voto politico) e di questo me ne faccio vanto. Non so perché ti ho replicato in maniera così alta, forse perché confido che prima o poi tu la cessi di manifestare un atteggiamento che sta mortificando il tuo lavoro ed anche di quelli che ingenuamente hai adescato, che ci credono o ci hanno creduto. Buon lavoro a te e buon lavoro a noi!
E l’isola si arricchisce di un’altra mostruosità a cielo aperto.
“Germinazione” è una gigantesca melagrana ( realizzata in resina patinata bronzea e ferro, alta 7 metri e larga 6 del peso di 18 quintali) di Giuseppe Carta, entrata a far parte degli orrori culturali della città di Sassari grazie alla Banca (di Sassari) e alla inevitabile “generosità” dell’artista, che naturalmente ha ceduto l’opera per un prezzo simbolico.
Almeno questa volta una buona parte della popolazione si è indignata, ma c’è sempre poco da fare contro gli imbonitori estetici che, dietro presunti valori etici, appioppano agli ignari oscenità travestite ad arte. Non sarebbe ora di finirla con questi abusi di potere da parte della amministrazioni e dei piccoli (si fa per dire) poteri locali, siano essi banche o associazioni parapolitiche?
Per vedere l’immagine http://images.sassarinotizie.com/ImageServer.ashx?id=14226&size=300