Talento, Ricerca, Audacia. Le nostre ragazze sanno (e fanno) danzare

CollettivO CineticO_BALLROAMING. Foto di Massimo Schiavoni

Sono tornato a bazzicare Festival estivi dopo un periodo di assestamento, dopo una fase di riflessione, perché non solo gli artisti hanno bisogno di linfa rigenerante, di nuovi stimoli, ma anche il pubblico chiunque esso sia; studiosi in-dipendenti, appassionati dello spettacolo, juniores in prima linea o perenni perplessi. Assodato e risaputo che non mi piace la parola critico e non mi sento immerso “fra giovani e reti varie”, volevo vedere se qualcosa o qualcuno riuscisse a risvegliare in me umori ed energie lontane, assopite, a farmi eccitare nel senso laico ed empatico dal termine, essere in ascolto con lo sguardo. I miei abitano a 50 metri da Villa Nappi, quindi non è stato necessario organizzazioni e grandi manovre, ma solo gambe e fotocamera per approdare al Festival Inteatro di Polverigi, come sempre mix pulsante di artisti promettenti ed artisti internazionali.

Ho letto qua e là recensioni post-spettacoli quasi in tempo reale, rendendomi conto di quanto distanti possano essere opinioni e variazioni sul tema, chiedendomi se è rimasta l’attitudine a giudicare qualcosa di “bello che balli”, punto e basta. Insomma voglio recuperare anche (o solo) l’estetica di un bello segregato e di un risveglio dell’immagine-corpo, perché io spettatore come le immagini, traggo il mio senso dallo sguardo, come lo scritto dalla lettura (R. Debray).

Al Teatro della Luna, spazio contemporaneo riadattato per una platea sopra il palcoscenico, Claudia Catarzi con il suo Intorno al fatto di cadere ci restituisce cinquanta minuti di partecipazione con una pratica danzata e meticolosa anche quando la caduta sembra accidentale. Allora tutto il lavoro è un continuo indagare i confini della veglia e del sonno, del qui e ora contrapposto ad altri tempi e altri spazi riempiti con naturalezza corporea. Su tutto il perimetro, ricoperto da carta da pacchi, l’artista scivola e perde equilibrio, lo squarcia e lo taglia, accartocciando-si e avvolgendo-si ora si nasconde ora crea dinamiche distruttive ma (in)sensate. La scenografia qui contribuisce alla costruzione di un significato intrinseco all’emozione di una danza antropocentrica, quasi funambolica fra la contact improvisation e una cerimonia orientale; comunque specchio della vita stessa. In quest’opera di grande delicatezza Claudia ha un controllo di se stessa oltre ogni limite, calibra i suoi gesti, misura i rapporti; riesce quasi a profanare certi archetipi, ad allestire una messa in scena “doppiata”, estranea addirittura a lei, per quanto sia pianificata. L’opera trasmette così una sorta di tensione spasmodica che avanza con il ritmo progressivo di un disfacimento inevitabile, scrollandosi di dosso un’impalcatura irrisoria, nonostante sia la sua. Un corpo quindi presente-assente, in prossimità dell’esperienza che la manifesta agli altri, che condivide e trasmette il senso all’interno della nostra società ma che svanisce inevitabilmente insieme allo sguardo e alla materia tutta. Si sente così riecheggiare un sottile filo espressionista basato sulla fisicità nonché sulle movenze tecniche di alcuni dei suoi maestri ed ispiratori: da Sasha Waltz alla Graham, da Laban fino ad una Constanza Macras sempre irriverente ma profonda. Vocabolario coreutico di una postmodernità fin troppo “performativa”.

Chiara Frigo con WEST END continua la sua ricerca sul mondo dell’intrattenimento dopo le dislocazioni di Ballroom, sale da ballo in ambienti altri. La coreografa veneta “arruola” la performer Amy Bell, instancabile nel suo doppio ruolo, ballerina di tip-tap e attrice. L’ambiente tipico del Vaudeville o di Broadway anni Cinquanta sono il pretesto per una riflessione socio-culturale che si annida nel nostro essere occidentali; ma questo sentimento di sbandamento potrebbe ri-velarsi un’arma in più per noi tutti. Non m’interessa però capire e sapere, il mio intento è osservare e ammirare come ho già detto. E allora lasciamoci trasportare da un ritmo scandito, eseguito con sapienza certosina e sudore, dove gambe e testa girano all’unisono e un corpo robusto danza un’intermittenza ponderata sulle nuvole. Il metallo penetra nei padiglioni auricolari come le parole cadenzate, lame filanti nella schermata sulla parete che lasciano spazio a risposte-domande già troppo remote. Lo spazio di Amy è un quadrato bianco; ora passeggia, ora ci sparge semi e polvere. Dialoga con lo spazio, si blocca, si toglie giacca e cappello, sembra tutto finito ma ritorna con più grinta di prima, ancora domande. Un treno esplosivo, one-girl-show nostalgico che m’inquieta ma fa sognare, sulla scia di un programma televisivo. Performance piena di componenti significative resa pallido specchio di un’intera condizione umana. Ecco così che Amy riesce, nonostante la sua liquidità, a sostituirsi trasfigurandosi in tertium, capace di stimolare noi comuni mortali – impossibilitati di esprimere la nostra esistenza – a non arrenderci immobili e parassiti. La danza, qui metafora impermeabile d’ideali e morali, diventa uno strumento di espressione collettiva tramutando in inviti ciò che il passato (e l’ovest) vuole occultare (o sotterrare). Il climax risulta avvolgente, e ci porta finalmente per mano là dove non osano le performance nostrane. 

Al Santarcangelo Festival è bastata una notte di mezza estate per capire che i “ragazzacci” di Collettivo Cinetico oltre a talento e passione hanno doti comunicative e ludiche tali che se messe al servizio dello spettacolo possono essere devas-tanti. È come se fossero avanti di un’ora rispetto al presente, rispetto a noi, e tutto quello che desiderano e bramano possono metterlo (o farlo mettere) in scena. Sarà l’aria ferrarese o il loro essere sopra le regole (che non esistono più) ad arricchire la performance contemporanea italiana, oggi in preda ad un ritorno al visivo-partecipativo oltre che ad una parola tirata per i capelli. Nei lavori del gruppo si evidenzia un dominio dello spettatore a sua volta immerso nel teatro; è protagonista, e a volte sa di esserlo, ma rimane vittima di un happening ammaestrato, cuore di un immagazzinamento di codici e regole che, in maniera pioneristica, penetra nel setting del dramma.

Francesca Pennini in BALLROAMING dirige un concept che unisce pubblico e privato. Tutti i ballroamers – le persone partecipanti che si sono “iscritte” per eseguire questa performance urbana – sentono in cuffia la stessa musica e seguono delle indicazioni di movimento pensate per loro dalla compagnia stessa, mentre attraversano il centro storico del paese. Abbiamo dinanzi così un gruppo danzante ma silenzioso, dove ogni singola persona indossa una maschera che copre il volto: cavallo, maiale, scatole di cartone e buste improvvisate si “mimetizzano” così con i passanti e con il pubblico dell’occasione. Questa pratica cinetica porta a rimescolare e quindi ripensare diversi concetti del quotidiano. Dall’invasione dello “spazio” privato individuale all’esortazione-invito a un ballo metropolitano, da un certo voyeurismo dato dal “nascondimento” dei partecipanti agli infiniti prototipi del mascheramento che andranno ad ampliare il nostro straripante immaginario collettivo. Arrivando così a chiederci fino a quanto e fino a dove questi “volontari cinetici” potranno r-esistere portati al limite di una sopportazione claustrofobica/cardiaca irriverente ai nostri occhi. Mi piace perché prende, mi conquista e mi portano con loro in questo percorso da Grand Tour sonoro, in questa sorta di flash mob partecipante dove ci ritroviamo all’improvviso quasi vulnerabili, con l’arma secolare della socializzazione. Grazie Francesca.  

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Arteologo del contemporaneo, Schiavoni Massimo è docente e project manager. Attento alle esperienze della giovane scena performativa e all’interazione delle forme teatrali–coreutiche con l’antropologia, la sociologia e l’estetica dei nuovi media, nel 2014 ha pubblicato il saggio Danza Paola, danza! in Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento a cura di Silvia Bottiroli e Silvia Parlagreco. Editoria & Spettacolo, Spoleto, 2014. Nel 2013 ha curato il volume Creatori di senso. Identità, pratiche e confronti nella danza contemporanea italiana, Aracne Editrice, Roma. Nel 2011 ha pubblicato il volume PERFORMATIVI. Per uno sguardo scenico contemporaneo, Gwynplaine Edizioni, Camerano (AN) e sempre nel 2011 ha pubblicato il saggio Antropologia coreutica di Francesca Proia. Fenomenologie e riferimenti storici performativi come sviluppo dell’immagine corporea in Declinazioni yoga dell’immagine corporea. Due studi complementari di Francesca Proia per la Titivillus Edizioni, Corazzano (PI). Collabora con riviste e artisti contemporanei, cura inserti teorici/poetici ed è conferenziere di manifestazioni e festival internazionali.

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