La prima ordinaria edizione di Urban Nation Biennale Berlino

immagine per Urban Nation Biennale 2019

Sarà che anni fa mi sono occupata molto di street art, e che la prima passione non si scorda mai. Fatto sta che ogni volta che mi trovo a che fare con nuovi eventi legati a questa corrente artistica parto già in posizione di attacco.

Perché è difficile creare le giuste condizioni per non soffocare un movimento e mantenere allo stesso tempo il livello qualitativo. Con tutte le forme artistiche; quando si ha a che fare con l’arte urbana forse il rischio è maggiore.

Ho scritto tanto sul rapporto street art-mercato, street art-gallerie. Ma qui non si parla di questo.

La prima edizione di Urban Nation Biennale 2019 di Berlino ha avuto luogo in Bülowstrasse durante l’Art Week, un percorso di cento metri in uno spazio ricavato sotto i binari della metropolitana, proprio vicino all’Urban Nation Museum For Urban Contemporary Art, neonato museo dedicato all’arte urbana, sostenuto da Berliner Leben, che attualmente presenta l’esposizione Un-derstand. The power of art as a social architect curata da Yasha Young, direttrice di Urban Nation.

Più di cento lavori di artisti noti della street art accolgono i visitatori del Museo in un percorso piacevolmente strutturato e gratuito. Adele, DFACE, Herakut, James Bullough, The London Police, Borondoe, Shepard Fairey e altri, meravigliosamente rinchiusi all’interno di quattro pareti.

Tutti contenti a quanto pare; o quasi.

ll Museo giá potrebbe aprire diverse discussioni ma, tralasciando polemiche già affrontate in passato (e allontanando dalla mente il fatto che per un anno intero tutti i giorni mi scontravo visivamente con un lavoro di Fairey apparso in una via non lontano da casa mia – anche questo, per ovvie ragioni, gratuito), assume un significato vitale anche solo per l’impegno nella realizzazione di eventi rivolti alla promozione e al sostegno dell’arte urbana. Basti pensare alle borse d’artista che vengono assegnate per residenze della durata di sei mesi, espandendo così il ruolo di un Museo che favorisce lo scambio internazionale.

Le opere ben illuminate e la documentazione accurata avvicinano anche i non esperti a questo tipo di arte e ad alcuni nomi chiave del movimento. Insomma un Museo da vedere, seguire, con tanti progetti interessanti.

La Biennale però è un altro discorso.

Evento organizzato sempre da Urban Nation, la prima edizione di questa Biennale ha visto venticinque artisti lavorare insieme per creare Robots and Relics. Un-Manned (Robot e Reliquie: senza equipaggio), una sorta di capsula del tempo che parte dal passato per mostrare visioni futuristiche urbane. Coderch & Malavia, Cryptik, Dan Rawlings, David de la Mano, Dima Rebus, Ekow Nimako, Filthy Luker, Frédérique Morrel, Gerhard Demetz, Herakut, Inti, Julien de Casabianca, Louis Masai, Milenium FX, NeSpoon, Quintessenz, Nomad Clan, Rune Guneriussen, Sandra Chevrier, Theater Anu, Vermibus sono alcuni degli artisti che hanno dato vita a un percorso fatto di sculture, installazioni, video, graffiti.

Cento metri che il visitatore attraversa, immergendosi in un mondo sonoro di colori che lo proietta in una vera e propria visione presente e futuristica: oceani di plastica, ghiacciai che si sciolgono, rifiuti che coprono il verde di piante reali, foreste che scompaiono.

Scenografie che hanno lo scopo di rendere il cittadino consapevole del potere della comunità; una comunità che ha il dovere di lottare per l’ambiente e diventare protagonista del cambiamento che potrà salvare il pianeta che stiamo uccidendo.

C’è tutto questo nei cento metri della prima Biennale dell’Urban Nation, un’atmosfera ben costruita che attira adulti e bambini, interessati all’arte o semplici curiosi. Tanti curiosi, ai quali però è probabilmente arrivato il messaggio. E questo alla fine era l’intento.

Sotto i binari della metropolitana si entra in uno spazio completamente ricostruito per tuffarsi in un mondo creato dalle sole opere degli artisti, un luogo che ha il sapore delle case degli specchi o quelle degli orrori tipiche del Luna Park.

Il Luna Park.

E allora comprendo la nota stonata. Perchè se di Luna Park parliamo non possiamo non citare Banksy e il suo Dismaland, e allora il discorso si sposta un tantino dalla sola importanza del messaggio trasmesso e dalla presenza di alcune opere degne di interesse. Forse banalità? Dobbiamo perdere l’originalità in virtù di un giusto messaggio? Dov’è la graffiante, beffarda, intelligente ironia che tanto aleggiava nel Luna Park alternativo e lugubre di Banksy?

Non si deve ripetere la stessa cosa, ovviamente, ma Dismaland era originale, un vortice mai banale, potente. E pensiamo anche al più recente Street Wall 2019, la prima Biennale di street art che si è tenuta a Padova e Abano Terme e che ha convocato artisti di fama internazionale per la creazione di murales permanenti su superfici pubbliche e private, tutte realizzate con la tecnica dell’airlite che permette alle pitture attivate dalla luce di purificare l’aria.

Potremmo citare tanti altri casi che in un modo o nell’altro hanno aggiunto un valore alle esposizioni. Le stesse strade di Berlino sono ricche di esempi.

Insomma questa Biennale, nonostante la buona direzione e alcune sculture di maggior impatto visivo e qualitativo, purtroppo pecca un po’ di normalità; visioni ordinarie che non abbattono la monotonia.

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Lucia Rossi, laureata in Arte, Spettacolo e Immagine Multimediale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Parma, è scrittrice, contributing editor per riviste d'arte, curatrice di mostre. Vive e lavora a Berlino. Ha diverse esperienze come curatrice indipendente di eventi culturali e collaborazioni per cataloghi d'arte e pubblicazioni.

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