Critica della vita quotidiana dell’INKhUK come costruzione estetica della cultura materiale sovietica

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Costruttivismo e Moda

“È solo l’abitudine della vita quotidiana che fa apparire come cosa banale, come cosa ovvia, che un rapporto di produzione sociale assuma la forma di un oggetto”.
Marx, Per la critica dell’economia politica.

UN CONO D’OMBRA SULLA CRITICA DELLA VITA QUOTIDIANA: IL PRODUTTIVISMO COSTRUTTIVISTA RUSSO.

Tra le esperienze del Costruttivismo russo post-rivoluzionario abbiamo selezionato quella dell’INKhUK di Mosca, l’Istituto di Cultura Artistica fondato nel 1920. Questo Istituto fu un crocevia di dibattiti teorici, pratiche artistiche e sperimentazioni nel campo della produzione industriale che hanno riguardato direttamente la trasformazione della vita quotidiana, attraverso la circolazione degli oggetti socialisti in opposizione agli oggetti-merce borghesi.

Quando si guarda agli studi accademici occidentali sulla “critica della vita quotidiana” ci si rende immediatamente conto di quanto siano incompleti e inaccurati. Questi riconoscono le proprie origini esclusivamente nella critica marxiana radicale occidentale del Novecento, tacendo in modo interessato sulla propria reale genealogia. Un percorso di ricerca in profondità porterebbe, infatti, chiunque al suo innesco nella rivoluzione proletaria sovietica, ai suoi movimenti artistici e alla storia della cultura materiale bolscevica.

Sarà il caso di presentare per la prima volta in Italia alcuni risultati di una tale ricerca, rompere, anche metodologicamente, con il campo di studi, ormai monopolio delle accademie occidentali, sulla “critica della vita quotidiana”. La nostra intenzione è di documentare le contiguità dirette e indirette tra le teorie marxiste radicali occidentali sulla vita quotidiana del Novecento e i movimenti di avanguardia artistica nella Russia post-rivoluzionaria. Finora tali contiguità sono state sottovalutate: mentre da una parte critici e storici hanno riconosciuto il valore artistico ed estetico dalla produzione dell’INKhUK fino alla sua  musealizzazione, dall’altra hanno trascurato il fondamentale obiettivo di questa esperienza che non era fare arte ma incidere sulla vita quotidiana per trasformarla. Senza questo obiettivo dichiarato, gli artisti dell’INKhUK non avrebbero mai iniziato. Tutti conoscono il costruttivismo perché dopo esser passato al vaglio di musei come le Fondazioni Guggenheim e il MOMA, si ritrova oggi applicato in una banale forma grafica ed estetica in vari settori del mercato neoliberista, in particolare l’advertising, il design e la moda.

Molti autori partono dal primo volume di “Critica della vita Quotidiana” del 1958 di Henri Lefebvre per individuare l’inizio degli studi occidentali. Tuttavia, non solo se si analizzasse tale saggio attentamente, risulterebbe pieno di inesattezze mistificatrici, troppe per un autore che ha così influenzato un movimento che intendeva rovesciare il mondo per ristabilire la vita autentica, come l’Internazionale Situazionista. Ma si troverebbe anche che Lefebvre si limita a riconoscere esclusivamente a Lenin di aver fatto “appello a tutti coloro che vogliono pensare da uomini d’azione e da uomini di pensiero, perché vogliono cogliere le lezioni della vita e guardare innanzi tutto alla vita quotidiana” e a Jean-Paul Sartre il primato della “prima critica indiretta della vita quotidiana”, con il saggio “Avere, fare, essere”. I riferimenti di Lefebvre sono soltanto filosofici e letterari, quasi soltanto francesi. Tralascia ciò che sapeva perfettamente fin da quando aveva aderito al Partito Comunista Francese prima di esserne espulso: la critica della vita quotidiana proviene dal cuore dei movimenti rivoluzionari e artistici sovietici che si adoperavano concretamente al rifiuto dell’arte, come il costruttivismo, e in particolar modo il produttivismo dell’INKhUK.

La narrazione della critica marxiana occidentale ha per lungo tempo sottovalutato queste ricerche, proiettando un cono d’ombra sul reale valore del lavoro teorico dei Costruttivisti. Pensiamo, ad esempio, a Boris Arvatov, un autore in cui ritroviamo le origini della prima “critica della vita quotidiana” attraverso l’oggetto socialista mai articolata prima. Sì, Lefebvre è perfettamente consapevole che qualsiasi critica della vita quotidiana debba partire dalla teoria del feticismo delle merci di Marx, ma pur avendo lavorato per l’Unione Sovietica e, sapendo come erano andate davvero le cose, in funzione tatticamente anti-stalinista, tace su tutto. Desideriamo essere più chiari di Lefebvre. Quando si dice “critica della vita quotidiana” si vuole criticare il mondo della merce. Tale mondo è con Marx il sistema di oggetti prodotto dal lavoro combinato del proletariato che si autonomizza e che gli si ripresenta innanzi come potenza ostile o seducente del tutto “naturale”. Criticare la vita quotidiana e volerla trasformare radicalmente dal suo stesso sistema di oggetti e manufatti (la cultura materiale) è quindi, immediatamente, un gesto rivoluzionario, come ben avevano capito lettristi e situazionisti, in modo molto più conseguente del filosofo, sociologo e urbanista francese.

DAL PROLETKUL’T ALL’INKhUK

Il Proletkul’t fondato nel 1917 da Aleksandr Bogdanov, Vasilij Fёderovič Lunačarskij e Anna Il’inična Ul’janova era l’Organizzazione culturale-educativa Proletaria, con la quale s’intendeva rinnovare la cultura materiale degli operai sia attraverso la “critica dell’arte proletaria” sia attraverso la diffusione dei saperi scientifici in università pensate appositamente. L’obiettivo in particolare di Bogdanov era di far crollare il culto degli idoli e dissolvere qualsiasi feticismo delle merci. La rivoluzione non solo doveva aver successo ma sarebbe dovuta durare, divenendo un nuovo ordine sociale senza classi per l’intera umanità, solo e soltanto qualora la vita quotidiana fosse stata radicalmente cambiata. Bogdanov è anche un filosofo della vita quotidiana e per via di questo suo costante focalizzare il marxismo sulla cultura materiale influenzerà e darà slancio all’avanguardia costruttivista. Con la Rivoluzione, pittori, scultori, architetti, designer, poeti, scrittori e critici mettono in discussione il proprio ruolo e si attivano per riformulare radicalmente la cultura, dando vita a correnti, gruppi e istituzioni culturali.

Già nel 1917, tra gli altri, nasce il Narkompros (Il Commissariato del Popolo per l’Istruzione) a guida Lunačarskij, che individua gli artisti e gli intellettuali che avrebbero dovuto indirizzare le nuove istituzioni culturali rivoluzionarie. Vassilij Kandinskij entra nella sezione IZO del Narkompros che si occupa delle arti figurative e fonda a Mosca nel maggio del 1920 l’INKhUk. Malevič è posto alla direzione del corrispondente istituto a Pietrogrado. Ben presto nell’INKhUk sorgono divergenze, i resoconti delle attività dell’Istituto riportano divisioni insanabili già dal 1921: lo spiritualismo e lo psicologismo di Kandinskij si trovavano in netto contrasto con il punto di vista dei sostenitori dell’oggetto socialista. Kandinskij abbandonò l’Istituto ed entrarono nuovi membri, tra cui Aleksandr Rodčenko e Varvava Stepanova. Con impostazioni diverse l’Istituto inizia a sperimentare e teorizzare nel campo dell’“arte applicata” per rispondere alle richieste rivoluzionarie del nuovo mondo sovietico, senza perdere in creatività e sviluppando nuovi codici linguistici per una sintassi in divenire.

Il costruttivismo è stato per la prima volta storicizzato da Aleksei Gan nel 1922. La teoria cui era gradualmente approdato l’INKhUK del rifiuto dell’arte accademica e “da cavalletto”, si può considerare una radicalizzazione proveniente dall’idea costruttivista di Gan dell’artista come produttore. Senza velleità estetiche, senza riguardo per l’aspetto spirituale, l’artista deve apprendere il metodo dall’operaio. Aleksei Gan, cofondatore nel 1921 del gruppo di lavoro sul costruttivismo nell’INKhUK, ha partecipato applicandosi ad ogni forma espressiva: dal teatro al graphic design, dal cinema all’architettura, dalle propaganda alla fotografia. Agitatore politico proveniente da ambienti anarchici, fu anche editore. La sua terminologia deriva direttamente dal Proletkul’t di cui aveva fatto parte.

“Costruttivismo” è un saggio di Gan del 1922 e costituisce il primo tentativo completo di produrre una compilazione teorica del movimento, elaborato con vari contributi, tra cui il “Primo Manifesto Costruttivista” redatto in collaborazione tra Konstantin Medunetskij e i fratelli Vladimir e Georgji Stenberg, in occasione della prima mostra “Costruttivisti”, tenutasi poco prima, nel gennaio 1922 a Mosca. “Costruttivismo” di Gan, è una vera e propria dichiarazione di guerra, iconoclasta e provocatoria all’arte tradizionale borghese, redatto in una forma linguistica a metà tra il pamphlet e il manifesto, nel quale il rifiuto dell’arte imposta fin dall’inizio il testo: “Primo slogan del Costruttivismo è: basta con la speculazione nel lavoro artistico! Noi dichiariamo risolutamente guerra all’arte”. L’annuncio dell’arrivo dei costruttivisti ha avuto la forma di un pamphlet rivoluzionario che anche nel gruppo di artisti e teorici dell’INKhUK causò discussioni e malumori per l’estremismo delle formulazioni.

La terminologia di Gan è direttamente mutuata dal Proletkul’t, in particolare in tre passaggi fondamentali: 1) “Tectonica”. Il termine è derivato dalla geologia, scienza nella quale viene utilizzata per definire il materiale organico che per esplosione proviene dallo strato più profondo della Terra. Quindi la Terra fornisce la materia prima considerata viva e in continuo divenire. 2)  “Faktura”. Il termine indica il processo di lavorazione della materia organica nella sua interezza e non soltanto sotto un suo aspetto. La “Faktura è, quindi, la selezione cosciente della materia e il suo utilizzo “conveniente” senza mai interrompere il movimento tectonico. 3) “Costruzione”. Il termine disvela il processo di assemblaggio attraverso il quale concetto fa prendere forma alla materia organica lavorata.

Lunačarskij l’anno prima della fondazione dell’Istituto si era rivolto personalmente agli artisti tentando di coinvolgerli in tutti i settori e tutte le discipline artistiche, dalla propaganda all’organizzazione della cultura contemporanea, dall’organizzazione museale a quella accademica, dal cinema al teatro, dalla fotografia alla letteratura. Vladimir Tatlin rispose attivamente alla chiamata di Lunačarskij partecipando al “Piano leniniano di propaganda monumentale”, avviato per sostituire i monumenti zaristi che venivano in quei giorni abbattuti. Tatlin aveva progettato nel 1920 un monumento che sebbene mai realizzato è ancora fonte di ispirazione oltre i confini della stessa esperienza storica, artistica e politica da cui è stata generata. Si tratta del Monumento alla III Internazionale che avrebbe dovuto raggiungere i 400 metri di altezza contro i 25 del modello presentato, ospitare diverse sale e servizi tra cui una stazione radio e mostrare, senza ornamenti, i materiali industriali, vetro e ferro, e la struttura della costruzione. Un progetto che era in aperta competizione con la Tour Eiffel e che ne rigettava le futili decorazioni liberty.

Pubblicato nel 1922 “Eppur si muove” di Il’Ja Erenburg attribuisce a Tatlin la prima grande realizzazione de “La Costruzione” che implica una rottura, punto di non ritorno con l’arte accademica. Nel testo di Erenburg vi sono lucidamente espresse intuizioni e aspirazioni che domineranno le discussioni nei collettivi e nelle accademie: “utilitarismo”, soppressione dell’individualismo e rifiuto dell’arte. Vladimir Tatlin nello stesso periodo in cui progettava il suo monumento fu chiamato a insegnare nei corsi di “cultura dei materiali” alla VKhUTEMAS.  Tenne corsi sulle relazioni tra materiali e spazio e il loro utilizzo ai fini dell’organizzazione artistica dell’oggetto: “ogni creazione non può immaginarsi se non in funzione di una serie di rapporti e di relazioni tra l’individuo e l’oggetto […] fra la funzione e il materiale usato, fra i diversi materiali che costituiscono l’oggetto”.

Gli artisti abbandonano l’individualismo scappando dagli studi. La vittoria dei bolscevichi è rappresentata da El Lissitskji con poche forme geometriche e tre sole campiture di colore: su fondo parzialmente nero, il rosso incunea e spacca i bianchi. Tutti comprendono tale rappresentazione in un paese scarsamente alfabetizzato che aveva bisogno di messaggi semplici e diretti, tutti ne afferrano la sintassi elementare e sofisticata allo stesso tempo, ancora oggi ineguagliata per la potenza del messaggio possibile grazie al contributo collettivo che l’ha generata. Marc Chagal per celebrare la rivoluzione dipinge metri e metri di tela, una commissaria del popolo sprezzante farà notare che con quel materiale tessile avrebbe potuto provvedere a nuove -utili- camicie per gli operai. Accanto a tutto questo entusiasmo celebrativo aspettava di trovare spazio la spinta di un pensiero più articolato e non sempre lineare che intendeva trasferire dalle grandi realizzazioni pubbliche e di piazza lo spirito del comunismo nelle forme più minute, elementari e quotidiane dell’oggetto.

LA VITA QUOTIDIANA E LA CULTURA DELL’OGGETTO: BORIS ARVATOV.

Nel 1923 Osip Brik, personalità di spicco dell’INKhUK, scrittore e critico letterario, fondò la rivista di riferimento dell’Istituto con sua moglie Lilja Brik, Vladímir Vladímirovič Majakóvskij, Boris Arvatov e Varvara Stepanova: LEF (Fronte di Sinistra delle Arti). Per comprendere quanto il loro approccio all’arte sia direttamente una critica della vita quotidiana occorrerà analizzare un formidabile e avveniristico saggio di Boris Arvatov  “La vita quotidiana e la cultura dell’oggetto” apparso per la prima volta su Nuova LEF nel 1925. Questo filosofo, matematico di formazione, già nel 1918 segretario accademico nel Proletkul’t, divenne lo storico e critico d’arte dell’INKhUK.

Nel saggio di Arvatov, pur essendo realizzato nell’ambito del dibattito dell’INKhUK, non si affronta direttamente il tema dell’arte ma quello della creatività nel processo di produzione. Il suo valore di anticipazione, di cui lo stesso autore mostra di essere consapevole, è tale da poter essere considerato la prima reale “critica della vita quotidiana” mai scritta prima. Arvatov considera l’oggetto-merce capitalista come un “oggetto passivo” che il socialismo avrebbe rovesciato in un “oggetto attivamente connesso con la pratica umana”, in grado di produrre un nuovo tipo di consumatore e, dunque, un nuovo tipo di consumo.

Arvatov sostiene che la “vita quotidiana si forma in opposizione al lavoro così come il consumo si forma in opposizione alla produzione”. La cultura proletaria deve rompere con questi dualismi appropriandosi della produzione come momento creativo e, attraverso gli oggetti socialisti della vita quotidiana, riunire ciò che è separato secondo l’impostazione monista di Plechanov prima e Bogdanov poi. L’insistenza di Arvatov sul potenziale trasformativo degli oggetti sulla vita quotidiana costituisce un tentativo unico tra le teorie marxiste sovietiche dell’epoca, che marginalizzavano la vita quotidiana o qualora la prendessero in carico non ne realizzavano la critica, limitandosi a speculazioni puramente ideologiche e fissandosi sull’aspetto puramente produttivo. I teorici sovietici sottovalutavano l’intero mondo del consumo, quindi il rapporto dei produttori con gli oggetti da loro stessi prodotti come terreno di autorealizzazione e autocoscienza proletarie.

A parere di Arvatov anche il più minuto e comune, apparentemente insignificante, oggetto della vita quotidiana e il gesto umano in relazione ad esso, costituisce la trama della cultura materiale: “la capacità di prendere un porta sigarette, di fumare una sigaretta, di indossare un cappotto, di portare un berretto, di aprire una porta”. Inoltre, tutte queste banalità acquisiscono ancora più rilievo nel momento in cui gli oggetti di consumo vengono prodotti in forme più sofisticate: ampliandosi il momento della circolazione, si amplia allo stesso tempo la qualità dell’oggetto. Un oggetto qualitativamente superiore è prodotto su scale sempre maggiori e può trasformare sempre più profondamente la cultura materiale socialista, rendendola ancora più inclusiva, mentre un oggetto-merce, fondato sul valore di scambio, tende a limitare l’accesso al consumo, se non a eliminarlo del tutto, quanto più l’oggetto prodotto è qualitativamente superiore.

Il consumatore non solo è estraniato dall’oggetto-merce da lui stesso prodotto in quanto parte dei produttori, egli non solo è senza rapporto fisico con esso, ma è anche senza rapporto psichico. Il suo rapporto con l’oggetto-merce è limitato in prima battuta al suo valore di scambio e in seconda, qualora vi potesse accedere, alla sua proprietà privata. Questo modo di rapportarsi con l’oggetto-merce rappresenta una sfera talmente passiva dell’esperienza quotidiana che occulta il fatto che il reale produttore dell’oggetto è lo stesso consumatore. Dunque, la produzione della merce è diametralmente opposta alla creazione dell’oggetto socialista. La merce è un oggetto statico e privo di vita. Al contrario, pensare al “valore sociale” di un oggetto invece che al suo valore di scambio, costruisce cultura proletaria, valorizza la tecnologia e il materiale che essa permette di modellare, portando a un livello superiore il feticismo dell’oggetto in senso socialista in quanto forma di elevazione spirituale del consumatore. Paradossalmente Arvatov nell’opporre al feticismo dell’oggetto-merce un valore sociale e spirituale dell’oggetto socialista, ne ribalta la natura di feticcio, riaffermandola.

Arvatov afferma che: “Le segrete origini di queste [le merci] sono nascoste alla coscienza del consumatore. Qui l’oggetto diventa una categoria astratta, appare cioè come il potere di un valore di scambio a-materiale […], come nudo e quindi astratto mezzo di accumulazione”. Infatti, il critico d’arte porta come esempio le strade delle città occidentali dove le vetrine, nei luoghi di scambio commerciali, le due sfere, produzione e consumo, sono non comunicanti nella vita quotidiana, se non nell’esposizione degli oggetti stessi sul mercato. La città stessa si configura così come il luogo in cui questa cesura tra produzione e consumo si manifesta in continuazione, determinando come estensione del valore di scambio dell’oggetto, un’astrazione della vita quotidiana stessa. La mistificazione dell’oggetto che diviene da concreto ad astratto determina la banalità della cultura materiale borghese.

Arvatov prima di Walter Benjamin arriva a tali conclusioni e afferma che “la natura di merce della vita quotidiana borghese costituisce le basi per la sua relazione banale con l’oggetto in generale. L’oggetto in quanto categoria a-materiale, di puro consumo, l’oggetto collocato in una dimensione astratta, estromesso dalla sua produzione creativa, fuori dalle sue dinamiche materiali, fuori dal suo processo sociale di produzione, l’oggetto in quanto cosa già completa, fissata, statica e di conseguenza già morta, caratterizza la cultura materiale borghese”. Per il consumatore borghese il processo di produzione è privo di interesse, ne acquista il prodotto finito in una modalità spiritualmente insignificante.

Al valore sociale, spirituale e tecnico della produzione e del consumo dell’oggetto socialista si oppone il valore di merce che organizza ogni aspetto della vita quotidiana borghese e il suo modo di esprimersi: “un appartamento riccamente arredato”; “un riparo umile”; “scarsamente decorato”; “dispendiosamente arredato”. L’oggetto appare come la rappresentazione materiale pervasiva delle categorie socio-ideologiche che caratterizzano la società borghese, competitiva ed esibizionista. L’oggetto-merce costituisce l’arcano sul quale si costruisce e gravita la rappresentazione cerimoniale quotidiana della vita borghese che ha carattere primariamente astratto e di proprietà. L’oggetto-merce è realizzato non solo per acquisire un valore di scambio ma anche per essere vivo soltanto al livello di immagine: ricercatezza, rarità, capacità di rappresentare lo status sociale del suo proprietario. Eppure l’oggetto borghese resta nelle innovazioni continue sostanzialmente sempre lo stesso, sempre identico, come una manifestazione della classe dominante e della proprietà privata.

Per Arvatov: “L’idealismo dell’oggetto vissuto nella sfera privata, ma psicologicamente dominante nella sfera sociale, è il carattere dell’idealismo borghese in generale”. Un idealismo impossibile se il borghese entrasse attivamente e creativamente nel mondo dell’oggetto, se ciò accadesse significherebbe la fine dell’esistenza stessa della borghesia come classe parassitaria. La proprietà privata dell’oggetto non ne potrà mai determinare una vera appropriazione da parte del consumatore, bensì un’alienazione non solo all’interno processo produttivo ma anche nel momento del consumo. Nel consumo stesso, in quanto manifestazione ideologica, di esibizione del gusto e di rappresentazione dello status, non restano al consumatore borghese che due momenti a mobilitarlo spiritualmente: lo “stile” e la “moda”. Questi due momenti sono necessari al consumatore borghese per poter apprezzare e scegliere gli oggetti-merce in generale. Paradossalmente proprio il costruttivismo, inteso superficialmente come estetica diretta e comunicazione d’impatto, è stato assorbito nella cultura capitalista e viene utilizzato ancora oggi come cifra comunicativa e stilistica nella moda, nel design e nell’advertising. Ci torneremo.

La costruzione della cultura proletaria non è che una cultura consapevolmente organizzata dalla classe operaia che richiede l’eliminazione della separazione tra gli oggetti e i suoi produttori che caratterizza la società borghese. Questa costruzione presuppone l’istituzione di un punto di vista metodologico che comprenda il mondo degli oggetti in modo unitario in quanto base della cultura materiale socialista. La società proletaria non conoscerà il dualismo degli oggetti della produzione e del consumo della società borghese, per quanto avanzata essa possa diventare. La società proletaria sarà impregnata del più profondo senso degli oggetti: la riunione di ciò che è separato.

POPOVA E STEPANOVA: FORMARE LA VITA QUOTIDIANA DEL PROLETARIATO.

L’istituto INKhUK non era certo un gruppo di artisti qualsiasi ma nemmeno di intellettuali che si limitavano a speculare sulla critica della vita quotidiana, il loro obiettivo era il rifiuto dell’arte in una forma concreta e non semplicemente dichiarata. Per realizzare l’arte attraverso il suo superamento intendevano adoperarsi alla produzione di oggetti, anche i più minuti, che avrebbero permeato l’esperienza della vita quotidiana del proletariato vittorioso, ovvero crearne la nuova cultura materiale in modalità affini a quelle che abbiamo visto in Arvatov, al di là della politicizzazione dell’arte o dell’estetizzazione della politica, che lasciava molto indietro il dibattitto marxiano occidentale.

Un esempio di questa concretezza la troviamo in quelle che una parte della critica occidentale ha chiamato le “amazzoni dell’avanguardia” costruttivista russa, come Liubov Popova e Varvara Stepanova. Erano donne combattenti che affrontavano il maschilismo dei bolscevichi con la presenza concreta e attiva, occupando con le loro esperienze artistiche pregresse e in quel momento sperimentali le posizioni più strategiche della produzione sovietica. Entrando nel processo di produzione stesso degli oggetti potevano a questo modo influenzare con il loro gusto la vita quotidiana di tutta la classe operaia russa. Ljubov Popova e Varvara Stepanova disegnando per la prima fabbrica sovietica di abbigliamento e tessuti a Mosca, entrano direttamente nella catena di produzione industriale, introducendo un nuovo modo di consumare oltre il valore di scambio e il valore d’uso.

Per Popova fare arte attraverso il design di libri, riviste (le copertine della stessa LEF e Nuova LEF), copertine di dischi, porcellane, di ogni aspetto oggettuale del teatro, di tessuti e dell’abbigliamento, compresi i pigmenti per colorarli (era nello stato sovietico colei che si occupava della “disciplina dei colori” per il  VKhUTEMAS, prima ancora di entrare nel all’Istituto INKhUK) significava occuparsi direttamente di investire la vita quotidiana di nuova meraviglia senza ricorrere a teorie pregne di psicologismo ed esoterismo come nel caso dei surrealisti occidentali. Portare la propria creatività dentro il processo di produzione significava investire la vita quotidiana di un nuovo tipo di feticismo non alienante ma che riuniva ciò che è separato ad un livello di auto-coscienza superiore. Pur provenendo, con una storia personale davvero unica, da movimenti come il futurismo, il post-cubismo e il suprematismo russi il suo periodo più avvincente e prolifico parte proprio nel 1921 con la sua adesione all’Istituto INKhUK quando prende partito anche per il produttivismo costruttivista e vota a favore delle proposte di Osip Brik per l’anti-arte.

Tuttavia ancor prima aveva fatto parte del “Soviet Masterov (Soviet dei Maestri), un soviet che aveva la stessa funzione dell’INKhUK ma che lo aveva preceduto in tutto e per tutto. Nell’Istituto vi fa entrare il suo “linguaggio non-oggettivo” o “creatività non-oggettiva” elaborati ai tempi in cui era un’artista astratta. Ella aveva applicato precedentemente alla pittura astratta i principi dell’architettura, pitture articolate cioè “spazialmente”, cercando le basi scientifiche (così come aveva suggerito il Proletkul’t di cui era stata sostenitrice) dell’attività espressiva: materiali, superfici, faktura, colori, spazio e tempo, movimento. Popova passò dalla pittura spazializzata all’“oggetto a tre dimensioni”, alle “costruzioni spaziali” o “costruzioni spazio-forza”, con lo slogan “Arte nella vita”.

Si dedicò intensamente al teatro, applicandovi i principi produttivisti, occupandosi di ogni aspetto, anche dei vestiti degli attori, creando per loro abiti mai visti prima che univano gesto, architettura, bio-meccanica, pittura e movimento. Impiegò poi le sue precedenti esperienze in pittura astratta nella produzione industriale di oggetti socialisti. Non a caso Chrstina Kiaer, una delle massime studiose dell’“arte utilitaria sovietica”, scrive di oggetti della vita quotidiana che prevedono tutti i vantaggi conosciuti dal poter consumare senza tuttavia doverli “possedere” in modo borghese.

Varvara Stepanova era più legata alla concezione del costruttivismo di Rodchenko che non Popova, ma ne condivise fin dal 1919 la concezione di “creatività non-oggettiva” e quando entrò a far parte dell’INKhUK ne divenne in poco tempo “research secretary”. Era più coinvolta di Popova nell’attività di LEF e della nuova LEF come autrice di manifesti e saggi, ma assieme a Popova condivideva l’ambito di superamento dell’arte nel teatro e nel fashion proletario, entrando a far parte nel 1922 come designer di tessuti alla Tsindel (la prima fabbrica statale del tessile). Nel VKhUTEMAS divenne subito professoressa di disegno tessile e si dedicò sempre all’abbigliamento in chiave costruttivista, seguendo le linee basi suggerite fin dall’inizio dal Proletkul’t. Kiaer sostiene in “The Russian Constructivist Flapper Dress” che Stepanova assieme a Popova, per aver lavorato come designer nel fashion proletario alla Tsindel furono le prime due donne a vedere superata l’arte nel momento della circolazione dell’economia sovietica attraverso i loro oggetti socialisti e le prime nel vederli consumare dalla classe operaia come oggetti di un nuovo tipo. La cultura materiale così dell’Unione Sovietica era permeata all’inizio soprattutto dal gusto femminile più che da quello degli uomini del costruttivismo che si impegnavano in oggetti che riguardavano nella maggior parte dei casi la propaganda.

OSIP BRIK: CONTRO LA PERSONALITÁ CREATIVA.

Osip Brik era lo scrittore e critico letterario dell’INKhUK. Radicalmente anti-individualista, anti-utopico e per il superamento non solo dell’arte ma anche della personalità creativa borghese, fu profondamente influenzato da Bogdanov, rifiutandosi di partecipare attivamente assieme a lui e alla maggior parte degli oztovisti alla rivoluzione del 1917 dopo averla preparata lungamente. Tacciati di infantilismo per aver tentato di provocare più volte insurrezioni in anticipo sui tempi previsti da leninisti e trotskisti, portandosi sempre dietro la maggioranza degli operai russi, sottoposti a durissime critiche, Brik e i suoi arrivarono a chiedere di essere cancellati dagli “eletti” della setta bolscevica. Brik non era un costruttivista qualsiasi, era un produttivista radicale e quando il costruttivismo divenne affare di stato si trovò d’accordo con Lunačarskij nel affermare che non poteva esistere un’arte di Stato, seppure “autonoma”, che fosse un tradimento della dichiarazione della morte dell’arte, che la l’arte se doveva tornare ad essere tale avrebbe dovuto essere realizzata all’interno della cultura proletaria per la cultura proletaria e non essere strumentalizzata dai burocrati della società sovietica.

Brik sostenne che anche qualora i costruttivisti produttivisti dell’INKhUK fossero stati sempre più inquadrati nel VKhUTEMAS, la scuola dell’arte e degli studi tecnici di Stato, non si sarebbero dovuti lasciare intimidire. Ed è proprio nella nuova serie della rivista LEF che troviamo la prima critica di cui siamo a conoscenza della personalità creativa. Quasi una strategia per salvaguardare la personalità costruttiva delle origini del produttivismo una volta istituzionalizzata e sussunta dallo Stato, una strategia che prevedeva la negazione stessa della creatività, quasi un suo sciopero generale, constatando amaramente le prime defezioni.

Critico fin dall’inizio con quei costruttivisti che avevano continuato a fare arte cambiando solo il loro linguaggio, trasformando più che la vita quotidiana e l’arte solo le parole con cui chiamare le proprie opere, sostituendo “composizione” con “costruzione”, “scrivere” con “dare forma”, “creare” con “costruire”. Mentre ex pittori come Rodchenko avevano superato davvero l’arte e non solo il linguaggio dell’arte per portare l’attività artistica nelle strade e nelle fabbriche. Egli ricorda come questo atteggiamento radicale di artisti come Rodchenko irritasse la falsa coscienza di molti costruttivisti a parole attirandosi le loro feroci critiche e accuse di star facendo in fondo soltanto arte applicata e ricevendo sempre come risposta: “Non abbelliamo oggetti, diamo loro forma, li produciamo”.

OMICIDIO IN ACCADEMIA: CHI HA UCCISO L’ANTI-ARTE?

Questa sorta di anti-arte resiste nel momento della produzione solo se entra nel momento della circolazione come sistema di oggetti che riunisce ciò che è separato (produzione e consumo), andando cioè al di là della separazione tra valore d’uso e valore di scambio, non tornando tuttavia al solo valore d’uso, ma producendo un terzo valore che potremmo chiamare “sociale” e che non chiude, in fondo, per sempre con il feticismo come avrebbe voluto Bogdanov ma lo porta a un livello superiore di seduzione e fascinazione. Tuttavia questa situazione in evoluzione durò poco.

La morte dell’anti-arte avviene proprio nel momento in cui si sarebbe dovuta realizzare, a causa della vittoria dell’oggettivismo leninista e trotskista sull’inter-soggettivismo del Proletkul’t. Tutto il discorso dell’epoca si sposta sul momento della produzione sottovalutando completamente il momento della circolazione, senza considerare che già Marx aveva sostenuto che una merce si realizza come tale solo nel momento della circolazione. Senza considerare, quindi, che l’oggetto socialista si sarebbe realizzato solo nel momento del consumo, realizzando con esso anche la riunione tra il produttore e il suo lavoro a un grado di auto-coscienza e spiritualità superiori.

Spostando tutto il discorso sull’edificazione della società sovietica sul momento della produzione si rovescia il dominio capitalista ma non si elimina il dominio. Esso invece che esercitarsi come nelle società occidentali del Novecento nel momento mercantile-spettacolare come direbbero i situazionisti finirà per riversarsi proprio in quello della produzione e del lavoro. L’arte rientra così in sé stessa proprio nella produzione e i produttivisti che in quanto tali “producevano consumatori” e un nuovo tipo di consumo sono stati costretti loro malgrado a tornare all’arte. Con il rientro ufficiale dell’arte nelle accademie di Stato e delle arti applicate convenzionali per le fabbriche tayloriste il sogno costruttivista muore lentamente.

CONCLUSIONI: DAL CONSUMO PROLETARIO A MICHEL DE CERTEAU.

C’è un percorso che parte dal produttivismo e che brucia sottotraccia per tutto il Novecento: lo ritroviamo in autori come Unger quando scrive della “soppressione dell’arte”, in Benjamin quando scrive di perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Kracauer quando trova le prime vere e proprie forme pratiche di passaggio dalla politicizzazione dell’arte all’estetizzazione della politica nelle masse utilizzate come ornamento, in Tosaka quando sostiene alcune argomentazioni simili a quelli di Brik affermando che chiunque possa essere un giornalista superando l’arte della scrittura, nell’estetica socialista jugoslava del neo-costruttivismo di Vejnceslav Richter, da EXAT51 passando per le ricerche nel design a Zagabria, infine, in Lefebvre, soprattutto nel secondo volume di “Critica della vita quotidiana”, nei Lettristi, nei Situazionisti, nella Scuola di Birmigham fino al grande tradimento del movimento potstmoderno e post-strutturalista (decostruttivismo).

I ricercatori anglosassoni e americani che si sono cimentati con la critica della vita quotidiana hanno finora solo accennato il discorso che portiamo avanti e non potendo inserire tra i fondatori della critica della vita quotidiana gli autori bolscevichi di sinistra (gli infantili), hanno preferito rifarsi ad Antonio Gramsci. Anche se effettivamente, soprattutto nei Quaderni dal Carcere, Gramsci offre utili spunti e il concetto di egemonia culturale ci permette di spiegare al meglio l’influenza dei bolscevichi di sinistra sulla classe operaia russa, riteniamo che l’utilizzo di questo autore del termine “popolo”, “nazional-popolare”, “popolare” sia del tutto in rotta di collisione con il Proletkul’t che tanto ha ispirato il costruttivismo e il produttivismo in particolare.

Con la fine dell’epoca postmoderna per esaurimento di cultura materiale da decostruire, il costruttivismo ritorna come una sorta di eredità dell’estetica contemporanea. Molto oggi sembra ispirarsi ingenuamente o meno al costruttivismo e come abbiamo visto non solo per il suo valore di anticipazione su quasi tutti i temi d’interesse dell’arte d’avanguardia occidentale, ma anche perché ha continuato a influenzare non solo con le sue opere ma anche coi suoi discorsi e manifesti anche il mercato neoliberista occidentale. Oggi il costruttivismo e, in particolar modo, il produttivismo, potremmo dire, si prende la sua grande rivincita sia sul capitalismo che sull’oggettivismo produttivo e lavorista leninista e trotskista. Come abbiamo visto, proprio come sosteneva Arvatov, moda e stile sono due momenti in cui il consumatore borghese apprende a scegliere e selezionare nella varietà degli oggetti-merce. Poiché lo stile e la moda sono oggi fortemente influenzati dal Costruttivismo in quanto estetica e sintassi linguistica colta, si può dire che sia divenuto esso stesso il massimo criterio di scelta e selezione della merce capitalista a cento anni di distanza. La sua grande rivincita può essere definita nella sua capacità di sussumere lo stile e la moda nel mondo capitalista e, allo stesso tempo, di aver trovato il suo spazio autonomo di creazione senza poter più essere sussunto ormai dall’apparato statale sovietico.

Forse l’autore più vicino alle posizioni dei produttivisti russi è stato l’antropologo gesuita Michel De Certeau. Egli, volendo offrire nella trama disciplinare dei dispositivi di controllo e cattura studiati da Michel Foucault, una contro-trama di dispositivi di aggiramento minuti ad uso dei consumatori che permettessero di depistare i primi, ha messo in causa per primo lo statuto della vita quotidiana, ricorrendo a momenti in cui si potesse riunire ciò che è separato: la produzione e il consumo, il consumatore e gli oggetti prodotti dal lavoro. I situazionisti erano troppo dalla parte del momento della circolazione e hanno sottovalutato troppo il momento della produzione, pur avendo elaborato lo splendido concetto produttivista di “detournamento”, facendolo divenire, tuttavia, da mezzo a fine dell’attività rivoluzionaria, da tattica a strategia.

De Certeau invece, forse proprio in quanto teologo gesuita, sa che quando la rivoluzione è lontana non vi è strategia che tenga, non resta che la tattica e la tattica è un thesaurus di astuzie. Riunire l’oggetto prodotto dal lavoro al consumatore per ottenerne una maggiore auto-coscienza e spiritualità può avvenire solo a patto di piegare la merce alle proprie intenzioni affettive e al proprio mondo inter-soggettivo. Deturnare, insomma, è solo una tattica e non può essere anche la strategia. Il fine resta superare l’arte per realizzarla nella quotidianità sì con la rivoluzione, ma soprattutto avendo bene in mente che si tratterà incessantemente per farla durare, formando la cultura materiale post-rivoluzionaria in ogni aspetto della vita di tutti i giorni: ovvero attraverso la sua trama di oggetti.

 

Bibliografia:

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  • Unger E., Politica e metafisica, Cronopio, 2008 [1921]
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Chiara Sestili è storica dell’arte e conservatrice di beni culturali, ricercatrice di cultura materiale medievale e paleografia latina, porta attualmente avanti ricerche sulle avanguardie artistiche del Novecento, in particolare della ex Jugoslavia. È fotografa e artista, da anni mette in campo le sue competenze fotografiche e di storica dell’arte documentando sul territorio ex Jugoslavo le relazioni tra la storia politica, la cultura materiale e i movimenti artistici del periodo socialista: memoriali, sculture, architetture, grafica, design, riviste, giornali, letteratura, musica. Il suo lavoro fotografico e critico sull’ex Jugoslavia è stato presentato ed esposto in numerose gallerie. Chiara Sestili e la su macchina fotografica vanno in deriva per il mondo, in particolare tra Roma e Belgrado.

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Daniele Vazquez è antropologo, psicogeografo, urbanista e scrittore di science fiction. Tra i fondatori del Luther Blissett Project, ha fatto parte e fa parte di numerosi gruppi anti-artistici, attivisti e di ricerca indipendenti sulle forme di vita urbane, tra i quali l’Associazione Psicogeografica Romana. Ha pubblicato contributi per diversi libri, articoli per numerose riviste e nel 2010 il volume Manuale di Psicogeografia, nel 2012 il romanzo La comunità dei sogni, nel 2015 La fine della città postmoderna, nel 2016 ha fatto parte dell’équipe di ricercatori che ha lavorato al volume Sviluppo e benessere sostenibili. Una lettura per l’Italia, nel 2018, con Cobol Pongide, il libro patafisico Ufociclismo. Atlante tattico ad uso del ciclista sensibile e, con Laura Martini, la raccolta di scritti del Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari: Che cosa è un luogo singolare?

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