Covid-19. Non destino ma l’arte della destinazione

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Niente sarà come prima, ma dev’essere meglio e bisogna costruirlo da subito. La DG Creatività contemporanea del Mibact, inter e post Coronavirus, costituisca e strutturi la Rete Nazionale dei Centri per l’Arte Contemporanea. Altrimenti sarà peggio, molto peggio!

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Eurasia 2020, La via della lana, 02 2020 di Giorgio Kadmo Pagano

L’arte dell’Arte non si limita a ipotizzare o pre-vedere un/il futuro e, magari, reificarlo ma, e soprattutto, a cercare di cambiarlo nella sua scontatezza. L’Arte non come destino quindi, e nemmeno come rappresentazione s’intende, bensì come Destinazione e cambiamento del destino. Tutto sommato era questo anche il senso profondo delle Avanguardie storiche che hanno dato vita alla modernità nel mondo.

Cominciamo col dire che il 97% di tutti gli antibiotici in America vengono importati dalla Cina, incluso il materiale chimico di partenza utilizzato per produrre la doxiciclina per il trattamento raccomandato in caso di esposizione al famoso antrace. Ebbene è in questo quadro che Trump rispetto al Covid-19, con epicentro proprio la Cina, aveva dichiarato già a marzo inoltrato che fosse«Meno grave dell’influenza» così come, già a fine febbraio, che avessero un numero di casi insignificante.

Perciò commentando sulla mia pagina FB l’articolo “Parla Ilaria Capua: L’America attenta al modello italiano, ma qui la cura costa” rilevai come i conti non tornassero perché gli Stati Uniti:

1)      Non hanno chiuso i voli da/per la Cina.
2)      Sono 350 milioni di persone.
3)      Hanno rapporti aziendali molto più grandi, intensi e congrui di quanto li abbia l’Italia.
4)      Hanno un sistema sanitario privato dove ci si pensa quattro volte prima di andare in ospedale (donne a rischio ereditario di cancro al seno si sottopongono a mastectomia preventiva perché non potrebbero reggere i costi di una lunga cura) e, nel caso specifico, il costo di un tampone, secondo MarketWatch può oscillare tra i mille e i 4 mila dollari.
5)      Se un uomo d’affari statunitense va in una clinica privata, figurarsi se vuole pubblicità o si permette di fargliela la clinica.

E, infatti, i conti hanno cominciato a rivelarsi in tutta la loro drammaticità per gli Stati Uniti il 23 marzo: gli Stati Uniti hanno superato Cina e Italia per contagi.

I segni, insomma, c’erano già tutti, bastava saperli leggere.

Ma i segnali che gl’innaturali, e mentalmente schiavistici, fenomeni della globalizzazione e della internazionalizzazione fossero destinati a finire per la palese e drammatica servitù che le élite anglobalizzate[1], a guida statunitense, creavano nel resto del mondo, erano lì da molto prima.

L’arte e la cultura italiana, prima che europea, avevano già perso l’occasione di cambiare il loro destino subalterno e miserabile per via del crollo finanziario del 2008, la grande recessione mondiale verificatasi tra il 2007 ed il 2013 innescata dagli Stati Uniti d’America a partire dal 2006 in seguito alla crisi dei subprime[2] e del mercato immobiliare: l’Economiavirus. Poi, come già detto altrove – sempre su questa rivista – tra il 2016 e il 2017 tali segni hanno finalmente preso corpo inequivocabilmente in due fatti: il referendum britannico per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e l’elezione di Trump nel 2017 al grido di “America first and only America first”.

Questi due fattori hanno smascherato le élite anglocosmopolite portando davanti agli occhi di tutti quella che nel Dopoguerra è stata, ed è, la legge del più forte mascherata da ipocrita amicizia: a cominciare dal Piano Marshall, l’esca che permise agli statunitensi di prendere all’amo le economie dei paesi europei e fare, a tutt’oggi, di quel mezzo miliardo di eurocittadini, utenti e consumatori delle multinazionali americane impedendo, nel contempo, che gli Europei ne creassero di paragonabili e concorrenti a quelle o che intessessero rapporti commerciali e di amicizia con paesi terzi che non fossero preventivamente approvati da Washington.

L’Italia e l’Europa, l’arte italiana ed europea, si sono trovate finalmente nella possibilità di giocare nuovamente un ruolo finallora vieto e vietato ma ciò è stato impedito, e lo è a tutt’oggi, dal fatto che, sia il Mibact e segnatamente la DG Creatività contemporanea, che le direzioni dei musei d’arte contemporanea e delle molteplici Fondazioni, facevano e in gran parte fanno ancora parte proprio di quella élite cosmopolita anglobana[3] dell’internazionalizzazione alla rovescia, cioè dell’anglomonopolismo, meglio ancora dell’assimilazione della lingua e cultura italiane (ed europee) alla lingua e alla cultura anglosassoni, al The Empire of the Mind come lo chiamavano Churchill e Roosevelt [vedasi in tal senso le due facce museali della stessa medaglia nei miei due articoli: Maxxi, Museo nazionale oppure regno del made out e No zeitgeist: dopo il Maxxi, il Macro].

È bene ribadire che queste realtà preposte all’arte e alla creatività italiane sono finanziate con i nostri soldi, e che non stiamo parlando di spiccioli: solo per fare un esempio talmente pubblico che più pubblico non si può, il Direttore della DG Creatività contemporanea del Mibact (al momento ad interim) percepisce annualmente, ma è più esatto dire ha percepito, visto che l’ultimo aggiornamento rintracciabile sul sito dei beni culturali è di nove anni fa, 166 mila 745,52 Euro.

L’aggettivo che usano questi dirigenti per nascondere la loro realtà anti italiana ed anti europea è “indipendente”. Ecco, ogni volta che sentite o leggete la parola “indipendente” mi raccomando: portate subito la mano a protezione della tasca dove avete riposto il portafoglio!

La parola “indipendente” sta per: né carne né pesce, né bianco né nero né grigio, né maschio né femmina, né di destra né di sinistra né di centro, né sì né no però mi dovete strapagare. Insomma con questi dirigenti, e grazie a chi li ha scelti – già, perché il pesce puzza sempre dalla testa – abbiamo perso occasioni e tempo, abbiamo perso soldi, e tanti, favorendo l’occupazione straniera piuttosto che la nostra libertà. Gli “indipendenti” ci hanno reso e continuano sempre più a farci colonizzare l’inconscio a tal punto d’averci resi alieni a noi stessi.

Wim Wenders lo denunciava già nel 1976: «L’America ci ha colonizzato l’inconscio»[4].

E ora è arrivato sua maestà il Coronavirus.

Il Joseph Beuys di “se l’umanità fallisce, la natura avrà una vendetta terribile, una vendetta terribilissima che sarà l’espressione dell’intelligenza della natura e un tentativo di riportare gli esseri umani al lume della ragione attraverso lo strumento della violenza” si è reificato in un virus: dopo i due segnali, quello del 2008 e quello del 2016, è arrivato il terzo avvertimento in meno di venti anni; ma stavolta la scossa prodotta investe non solo l’economia come la prima, non solo i rapporti tra Stati come la seconda, bensì ad Economia e Stati aggiunge direttamente le persone, ciascuno di noi.

E allora no! Davvero proprio NO, Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice del Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli, non sono affatto d’accordo sulla tua proposta di passare direttamente al 2021, e certo non solo perché, a prescindere, continueresti a prendere i tuoi 75 mila euro annui senza colpo ferire, bensì perché questo è proprio il momento della riorganizzazione, della ri-scossa. E’ il momento in cui l’Arte non si adagia passiva ad un baro (come “bari” sono gli “indipendenti”) destino, ma lo guida verso tutt’altra destinazione, finalmente equa e giusta.

Museo per l’immaginazione preventiva, logo di Marco Campardo/Nicola Pecoraro

Ed un no va anche detto al neo direttore del Macro Luca Lo Pinto che, come dire, si era già messo in posizione attendista persino prima del Coronavirus, presentando il suo progetto di Museo per l’immaginazione preventiva a partenza addirittura ad ottobre 2020. Certo, pensando che solo a dieci mesi dalla chiusura del Macro ci sarebbe stata la sua completa riapertura, forse bisognava immaginare quanto accadeva un tempo a circa tre chilometri da esso, là dove c’erano i navalia e in soli sei mesi Roma costruiva duecento quinqueremi…

No, quindi, a quelle tempistiche e a quell’ormai deteriormente vecchio progetto.

Gentile direttore, il Coronavirus le impone di cambiarlo e farne partire quanto prima un altro più appropriato ed ambizioso. Però se il buongiorno si vede dal mattino, già la presentazione del dilatorio progetto non prometteva e non promette bene:

Complesso delle ex colonie marine “Vittorio Emanuele III” in Roma Lido, foto di Aldo Marinelli

1) Più di qualcosa dell’Asilo, nell’accezione più scolastica del precedente progetto, rimane e si perpetua nel polipetto verde con intorno la scritta “Museo per l’immaginazione preventiva” del nuovo logo e che, più che ad un museo di/per l’arte contemporanea, fa pensare ad un museo per i ragazzi che si apra ad Ostia nel complesso delle ex colonie Vittorio Emanuele.

2) Nel programma presentato, della rigorosità collettivistica del famoso Ufficio per l’immaginazione preventiva di Benveduti-Catalano-Falasca non c’è nulla. Nulla della centralità del “Noi” che lo contraddistingueva e, a proposito del quale, è il caso di rammentare qui, circa la tesi e la carica rivoluzionaria del “Noi contro l’Io”, uno specifico ed eloquente articolo di Mimma e Vettor PisaniScritto di chiarificazione ideologica e politica” contro il fare di Beuys come “eroe in natura”, articolo ospitato da “Imprinting”, altra avventura editoriale del trio BCF di quegli anni.

Inoltre, non è possibile fare alcun serio parallelo con quella dimensione, con l’allora, e ce lo dicono i fatti e i documenti storici emersi solo molto a posteriori:

Siamo a ridosso del ’68, è ancora ben vivo tra gli intellettuali e gli artisti il desiderio di costruire un mondo più giusto e migliore. Tutti ignoravano che, invece, per gli Stati Uniti, i giochi in Europa erano definitivamente chiusi, e quelle mere velleità; l’influenza politica e la colonizzazione culturale e linguistica dell’Italia come dell’Europa, erano considerate talmente, definitivamente acquisite che già nel 1967 gli USA avevano deciso di chiudere definitivamente le attività del loro ministero per la colonizzazione culturale europea, il Congress for Cultural Freedom che, costituito a Berlino fin dal 1950, aveva raggiunto lo scopo: ormai “il soggetto operava nella direzione richiesta per motivi che riteneva essere propri”; imprimetevi a fuoco nella mente questa frase: il soggetto operava nella direzione richiesta per motivi che riteneva essere propri  [Frances Stonor Saunders in “Who Paid the Piper?: CIA and the Cultural Cold War” pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1999, nel 2000 negli Stati Uniti, e solo nel 2007 in Italia col titolo Gli intellettuali e la CIA].

Ma in Lo Pinto non sembra albergare una tale capacità, velocità intellettuale e la forma mentis per pensare di cambiare l’antiquato progetto ed adeguarlo al nuovo mondo che il Coronavirus sta ridisegnando e ridisegnerà.

Se continueremo a stare in silenzio e a fare gli ignavi, la cosa più probabile è che continuerà a prendere il suo compenso persino ri-dilatando il già dilatorio vecchio progetto, un progetto però antiquato ancor prima del Coronavirus perché, come ricordavo sopra, i segnali dell’iniquità dell’anglobalizzazione erano espliciti fin dal 2008, quell’iniquità che ha comportato, fin’ieri, ad avere sempre meno miliardari con sempre più miliardi e sempre più persone sempre più povere e con sempre meno personalità perché senza adeguata istruzione ed informazione.

Di quella élite anglobalizzata Lo Pinto è parte, ed è totalmente assimilato ad/da essa. Lo si constata dal suo profilo Instagram ed osservando tutti i Post in esso contenuti: 2 mila e 100 immagini compresa quella della sua foto, che potete vedere qui e che, partendo dalla prima delle 13 e 35 del 5 giugno 2013 all’ultima delle 15 e 54 del 28 marzo 2020, poco o nulla parlano di arte ed artisti italiani, con didascalie quasi totalmente nello scontato e coloniale inglese, e che anche quando parlano di nostri grandi artisti, non ricevono adeguata valorizzazione, anzi. Segnatamente, parlo del caso per me sconcertante, di un vecchio lavoro della fine degli anni ’50 di Gianni, un “senza titolo” che oggi è in una collezione privata di Mönchengladbach vicino Düsseldorf, raffigurante frecce in un percorso di lettere che vanno a colpire una svastica negativamente ossessiva per l’artista. Ebbene il nome dell’autore del quadro, Jannis Kounellis, viene mutato in un incomprensibile e diffamante Nazi Kounellis, sì Nazi non Jannis. Senza virgolette, null’altro che potesse far comprendere come la vita e la storia di Gianni, che morirà da lì a 3 anni, sia stata, agli antipodi, Antinazi.

Il sistema pubblico dell’arte contemporanea, cioè pagato da noi italiani, a cominciare dalla DG Creatività contemporanea – la quale dovrebbe anche esercitare una supervisione sull’operato dell’intero sistema dei musei e dei centri per l’arte contemporanea, i quali a loro volta dovrebbero divenire innovativi Campi di Deconcentramento e di decolonizzazione –, dovrebbe operare secondo precise linee degli interessi degli italiani così sintetizzabili:

1)      Arte e artisti italiani (un enorme lavoro, anzitutto di revisione storica – es. Lucio Fontana contro Jacksn Pollock –, di studio, di valorizzazione dei nostri grandi artisti a partire dall’arte italiana del ‘900, il tutto con l’occhio e l’obiettivo della decolonizzazione delle menti);

2)      arte e artisti dei Paesi dell’Area Euro, con particolare attenzione alla Francia in considerazione della volontà operativa di Macron per costruire un Rinascimento europeo (ne ho parlato in L’Italia nel Rinascimento europeo di Macron);

3)      arte ed artisti dell’Area non Euro;

4)      arte e artisti europei, con inclusione della Russia (gli assi cartesiani della nascita del moderno nel mondo: Berlino-Roma, Parigi-Mosca);

5)      arte e artisti euroasiatici (storicamente da Marco Polo a Beuys),

6)       arte e artisti del resto del mondo, con un’attenzione particolare al ripristino della legalità e della democrazia internazionale (ricordo l’operato del colonialismo culturale statunitense, in particolare quello svolto in Europa con i fondi neri della CIA attraverso il Congress for Cultural Freedom a partire dal 1950, vedasi p. 8 del mio Come divenire la super potenza culturale che siamo) nonché ad una sistematica opera di decolonizzazione. A tale proposito ho ricordato in No zeitgeist: dopo il Maxxi, il Macro come Trump abbia sostenuto qualcosa che dovrebbe preoccupare ancora di più noi italiani detentori del 65% dei beni culturali del mondo, minacciando pubblicamente di colpire i siti del patrimonio culturale iraniano, minacce finora inattuate ma, contro il patrimonio culturale italiano, la distruzione ha già avuto il suo avvio culturale a Yale dove viene cancellato lo studio del Rinascimento.

La DG Creatività contemporanea del Mibact, inter e post Coronavirus, dovrebbe strutturare una vera e propria Rete Nazionale dei Centri per l’Arte Contemporanea che comprenda:

1)      i luoghi d’interesse pubblico dedicati alla promozione dell’arte contemporanea, dai musei alle gallerie, le varie tipologie di spazi ad essa in parte o del tutto dedicati, gl’Istituti culturali italiani all’estero, gl’investimenti bancari;

2)      gli eventi e le manifestazioni dedicate all’arte contemporanea promosse nei vari territori come anche quelli organizzati dall’Italia all’estero;

3)      le strutture formative scolastiche e di rilievo accademico per l’arte contemporanea.

Questa Rete Nazionale dei Centri per l’Arte Contemporanea è la precondizione operativa dell’Arte contemporanea nel Paese, quella che permetterà successivamente di riparare la rete creativa nazionale che fa acqua da tutte le parti e che spesso persegue interessi estranei, persino colonialistici e vessatori del nostro Paese e dell’arte dei nostri artisti. Una rete, oggi fallace e piena di falle, di vasi e giacimenti incomunicanti, con uno sperpero immane di risorse finanziarie ed umane, a fronte di una capacità di affermazione dei propri artisti a livello internazionale pari a zero.

Insomma, se ancora non è sufficientemente chiaro, sto parlando di mettere a Sistema la creatività italiana finora preda di dirigenti e funzionari che troppo prendono per quello che danno producendo danni. Incalcolabili.

L’identità storicamente creativa del Paese non può più permettersi che l’artista italiano venga costretto a creare e dipingere come un artista cinese, il quale “artista cinese, – come sostiene Massimo Cacciari nel mio Perché l’artista italiano è sempre più insignificante? la sua autorità storica ridotta a zero? Conversazione con Massimo Cacciari – dipinge ormai esattamente come quello di New York”.

Sono, siamo, coscienti che hanno fatto di tutto, e continueranno a farlo, per portarci alla follia dell’inidentità[5] spinti e finanziati dalle forze dell’anglobalizzazione, ben consci che, come diceva Victor Hugo, c’è e ci sarà sempre “gente che pagherebbe per vendersi” e che, in questo frangente, tali forze distruttrici potrebbe portarci ad un debito pubblico di livelli argentini. Da cosa sono rappresentati questi pericoli, quali sono i chiari (anche qui) segnali che pochi sembrano sapere o volere leggere?

1) Nazionalizzazioni.
Si vorrebbe nazionalizzare di tutto e di più (la fallimentare Alitalia) ben sapendo che tutto finirà sulle spalle degli italiani e che questo è un paese nel quale non esiste meritocrazia né, tanto meno, il riconoscimento del talento (e figuriamoci della genialità), bensì:

  • clientelismo;
  • cordate e/o cartelli;
  • infiltrazioni malavitose;
  • politici, come intellettuali (se ne esiste ancora qualcuno, in realtà solo professori), artisti nonché giornalisti, in massima parte mentalmente corrotti: ossia “soggetti che operano nella direzione richiesta [dagli Stati Uniti, come spiega la Saunders, vedi sopra] per motivi che ritengono essere propri.

I guasti, sappiamo bene, non sono di per sé nel Privato bensì nel fatto che il Pubblico gli è stato compiacente, e che è stata la triade pubblica (politici-dirigenti-funzionari) a permetterglielo.

2) Debito pubblico.

E’ un’eredità per le giovani generazioni già pesante ora, siamo intorno al 135 per cento di debito pubblico, figuriamoci domani quando i guasti del Dopo-Covid19 si sommeranno a quelli del Dopo-guerra, e saremo con ogni probabilità intorno al 150 percento ma, ma senza esserci posti minimamente non tanto di come abbiamo utilizzato quel danaro ma come abbiamo utilizzato questo tempo

La chiamata è quindi anzitutto ai giovani, alle persone che amano l’Arte, a coloro che vogliono costruire un Rinascimento nuovo, italiano come europeo… Tutti devono rendersi conto che hanno una grande opportunità con il Coronavirus: cambiare il corso della loro storia, della Storia, del Dopo-guerra.

In tale prospettiva è essenziale un giornalismo nuovo della e nella Cultura, un giornalismo d’arte d’inchiesta, capace di mettere al primo posto la lettura dei bilanci delle istituzioni pubbliche, i compensi dei loro dirigenti e funzionari… Per fare cosa? Gli interessi degli italiani che pagano? O no?!

Questo è venuto a dirci, questa volta con le cattive, il Coronavirus per quanto riguarda l’Arte italiana. E non solo l’Arte evidentemente.

In conclusione, non un misero e pusillanime revanscismo nazionalista bensì, all’opposto, una visione dell’arte, della lingua italiana e della cultura italiana beni immateriali dell’intera umanità.

Non un sordido vetero-nazionalismo o, peggio, sovranismo da suburra (già, perché molti politici dimenticano che il nazionalismo di Trump, come della Gran Bretagna, è quello di due vasi di ferro, di due Imperi, al cui confronto noi rappresentiamo il classico vaso di coccio), bensì cultura italiana come Cultura del Sì che lancia il suo messaggio di libertà dall’dall’anglobalizzazione al mondo, e che può farlo perché Mito storico e ultra millenario riconosciuto da quel mondo stesso.

Intanto, se ci tenete alla vostra pelle, e a quella dell’Arte italiana, andate, e mandate persone, a sottoscrivere l’Appello per l’Italiano lingua di lavoro dell’Unione europea, perché l’Europa, come gli altri Paesi dell’Unione (area Euro e no) non possono farci niente se siamo noi, i primi a non voler contare nulla.

Inutile ed infantile il solito piagnisteo: “la Germania è cattiva, e l’Europa pure”. Il Rinascimento nuovo lo fa la Cultura e nient’altro!

NOTE

[1] Definisco anglobalizzazione, il fenomeno della globalizzazione a impronta angloamericana, soprattutto statunitense.
[2] I subprime sono prestiti concessi a un tasso di interesse più alto di quelli stabiliti dal mercato ma a un soggetto che, a causa del basso reddito o di insolvenze pregresse, non offre sufficienti garanzie di restituzione del capitale.
[3]  Gli Anglobani sono l’analogo terroristico, di marca linguistico-culturale occidentale, dei Talebani, non a caso secondo il grande italista Guido Ceronetti: «La difesa dall’Inglese è come quella dall’Isis, soltanto che è incruenta, se Dio vuole».
[4] Nel film “Nel corso del tempo”.
[5] Non identità, follia.

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La prima mostra di Giorgio Kadmo Pagano, ventitreenne, è agli Incontri Internazionali d’Arte nel 1977, ha una preparazione culturale costruita in anni di frequentazioni con il meglio dell’arte italiana, da De Dominicis a Pisani a Kounellis ad Ontani, e politica con il “Gandhi europeo”, Marco Pannella, col quale ho condiviso migliaia di ore di riunioni, nonché prassi di lotta nonviolenta, e che lo ha portato nel 2014 a fare 50 giorni di sciopero della fame in auto davanti al MIUR contro il genocidio culturale italiano. Autore nel 1985 del saggio “Arte e critica dalla crisi del concettualismo alla fondazione della cultura europea”, dove già indicava la necessità di un’avanguardia europea che si facesse “esercito”, oggi col suo nuovo pamphlet ci guida sul “Come divenire la super potenza culturale che siamo”.

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