Spiccioli di riflessione sul monumento di Marc Quinn a Jen Reid in sostituzione di quello di Edward Colston, abbattuto

Lo scorso 7 giugno, a Bristol, sull’onda delle proteste per la morte di George Floyd, la statua di Edward Colston fu abbattuta e gettata nel porto fluviale cittadino da manifestanti di Black Lives Matter. Tra coloro che, per primi, parteciparono alla rimozione del controverso monumento[1] vi fu Jen Reid. La giovane attivista inglese si issò poi sul piedestallo spoglio, facendosi fotografare in piedi col braccio destro alzato, simbolo sia del Black Power che dell’empito rivoluzionario che animava gli astanti. La sua foto attirò l’attenzione di Marc Quinn, una delle stelle del firmamento artistico britannico contemporaneo, che invitò la Reid a posare per lui, nel medesimo atteggiamento e vestiario, allo scopo di immortalarla in una statua di resina e acciaio a grandezza naturale. La mattina del 15 luglio, la statua ultimata e intitolata A Surge of Power (Jean Reid, appunto) 2020, venne poggiata sul plinto vacante dell’effigie di Colston e lì rimase per un  giorno, prima di essere a sua volta rimossa dalla municipalità, destando l’interesse e gli interrogativi dei media e dei social di tutto il mondo.

In certo qual modo, la vicenda si inserisce, con una specificità propria, nel dibattito sulla liceità di svellere o ritirare monumenti pubblici encomiastici che non rispondano più alla sensibilità etica e cultural-politica che ne aveva consentito l’erezione.

Intanto, lo scultore di colore Thomas J. Price ha accusato Quinn di “colonialismo” artistico (https://www.gq-magazine.co.uk/culture/article/marc-quinns-jen-reid-statue-thomas-j-price) per come ha condotto tutta l’operazione, a cominciare dall’appropriazione presuntuosa da parte sua, in quanto bianco, dell’immagine della colored Reid. Stando a Price, il controllo iconografico del corpo dell’attivista, esercitato da Quinn, ha evidenziato più l’ambizione e l’abilità di “cacciatore di trofei” dell’artista, capace di cogliere come i documentaristi l’attimo topico da immortalare, piuttosto che la portata emancipativa  dei significati iconologici soggiacenti. Significati che per Price potevano essere espressi con pertinenza più puntuale solo da un artista di colore. Sullo sfondo del disaccordo, relativo alla sensibilità interpretativa  di Quinn, aleggia inoltre un suo conflitto d’interesse storico-personale, dovuto al fatto di essere stato sposato sino al 2014 con «Lady Georgia Byng, discendente del primo conte di Strafford (1672-1739), Thomas Wentworth, che ha svolto un ruolo diplomatico chiave nel negoziare la pace di Utrecht (1713), un accordo che ha dato ai commercianti di schiavi britannici il contratto, noto come “asiento”, per scambiare 144.000 schiavi all’anno».

A prescindere dal fatto che proprio la coscienza infelice avrebbe potuto spingere Quinn ad addivenire alla risoluzione di erigere un monumento riparatore alle malefatte degli avi della ex-moglie e non il desiderio di facile pubblicità, come insinua Price, l’installazione di A Surge of… apre scenari interpretativi interessanti sia in riferimento alla creazione oggi di un’opera a carattere memoriale che al suo quoziente espressivo. Occorre subito  premettere che quest’ambito specifico  riguarda in misura leggermente diversa la plastica funeraria privata e quella encomiastica pubblica, pur unificandole maggiormente sotto l’egida della trascendentalità temporale piuttosto che di quella spaziale (anche se quest’ultima tende a sedimentarsi con l’intorno fisico che accoglie il monumento o la scultura). Risulta evidente che il monumento funebre (privato) persegue un’istanza di presenza che richiede insistentemente di restare in essere attraverso la progressione mnestica che accompagna il ricordo del defunto da parte dei congiunti e delle loro generazioni successive. Teoricamente non dovrebbe subire diversioni differenziali prospettiche rispetto al suo nucleo centrale emotivo, che è l’ora e il poi attraverso cui la rimembranza dei parenti tende ad attutire la nostalgia di come sia stato possibile essere l’allora dello scomparso quando era.

Nella prospettiva fisicalista della mente allargata, che ipotizza l’esperienza come un hic et nunc solo differito nello spazio-tempo, quando ci rammentiamo vividamente di un parente morto, «l’oggetto della nostra esperienza, che rimane collocato al tempo del defunto, è ancora parte del nostro presente, non diversamente da quanto succede quando esperiamo la mela rossa sul tavolo» [2].

In ragione di ciò, il monumento funebre funge da ancoraggio prossimale diretto per stimolare l’esperienza del ricordo del deceduto in coloro che l’hanno conosciuto e, in proiezione epigenetica indiretta, anche nei loro discendenti. Questo effetto stigmatico sembra persistere anche in complessi funerari che eccedono l’ambito fisico cimiteriale, come il monumento a Maria Cristina d’Austria del Canova nella chiesa degli Agostiniani a Vienna o le tombe Medicee michelangiolesche presso San Lorenzo a Firenze, aprendosi così ad uno sguardo pubblico più allargato. Essendo questi dei capolavori, l’interesse scopico del pubblico ‘estraneo’ pare tuttavia subordinarsi al ricordo della committenza in termini obliqui, restando inscritto nella meraviglia sempre rigenerata dalla sorpresa e dall’estasi della visione, tanto da dare effetto alla futuribilità a venire dell’osservazione al di là della memoria parentale delle spoglie reali dei celebrati.

Dall’altro capo, una scultura pubblica in cui l’immagine di un personaggio (politico o della società civile) deve ergersi in un confronto duraturo e continuo con la storia, indipendentemente dalla salvaguardia di riconoscimento del proprio parentado, laddove manchi anche dei crismi autoriali artistici di prima fascia della fattura, risentirà inevitabilmente dell’impossibilità di visualizzare in sé la sospensione del tempo (con la sua presunzione di eternità) che la plastica funeraria assegna invece alla pietas privata. Il monumento pubblico non è nemmeno tutelato dall’abitudine prossemica che la sua collocabilità ambientale, il potenziale attrattivo visuale come riferimento abitativo proprio, riesce a parteggiare con lo spazio che lo circonda. Si può dire che il decorrere temporale storico, con il mutare dei punti vista e delle prospettive, sia ciò che erode la centralità presenziale del suo dislocamento così come avviene con lo stravolgimento del tempo circadiano per gli organismi viventi. L’entelechia di questo tipo di opera è la relatività permanente della soggezione all’assenso dell’opinione esterna, circostanziata dal cambio dei registri interpretativi aderenti al modificarsi più  dei valori sociali, civili e politici contingenti, che di quelli estetici.

Tornando alla statua di Colston, la felicità espositiva della collocazione,  all’imbocco di una delle vie cittadine più centrali (guarda caso, Colston Street) non è servita a preservarla dalla volontà iconoclasta dei manifestanti di BLM, che hanno finalizzato in seconda battuta i propositi del suo smantellamento, già sorti quasi subito con l’erezione nel 1895 – dopo violente agitazioni e scioperi dei portuali bristoliani – in quanto interpretata come tentativo della «classe aristocratica tardo-vittoriana di rispondere all’ingiustizia sociale con il paternalismo individuale e la filantropia piuttosto con che l’equità dei salari e delle condizioni di lavoro» (https://it.wikipedia.org/wiki/Edward_Colston).

L’anodina compostezza espressiva del sembiante bronzeo di Colston (scolpito da John Cassidy) [3], che appoggia la destra ad un lungo bastone e con la sinistra sorregge il capo per alludere ad un habitus meditativo [che spesso i passanti maligni contemporanei hanno interpretato come se :«He looks like he’s making a mobile phone call» (http://www.johncassidy.org.uk/cassidy2b.html)], evidenzia un carattere riflessivo e assorto, consono all’immagine e al pregiudizio pubblici del benefattore partecipe e del filantropo generoso. Contrapposta alla statica figuralità della parte superiore, indizio ideologico e allegorico dell’uso caritatevole e virtuoso della ricchezza, quella  inferiore è costituita da un plinto con  quattro delfini angolari e altrettante placche a rilievo in bronzo sui lati. Questa parte, in basso allude – con i mammiferi acquatici e i soggetti marini dei riquadri – alla dinamica concretezza  dei commerci oceanici con cui le fortune di Colston si sono sostanziate per consentirgli di farne poi buon uso..

Se nelle opere di Michelangelo e Canova, dove l’omaggio deferente alle virtù dei defunti presuppone in prima istanza lo sguardo familiare dei congiunti, la temporalità allegorica delle figure si snoda in quanto metafora delle disposizioni passata, presente e futura della vita, tanto da poterne illustrare la peripezia e la cifra esistenziali comparando lo scorrere astronomico della giornata con il susseguirsi delle varie età nell’uomo; nel lavoro di Cassidy, la statua di Colston esteriorizza invece solo spezzoni della vicenda autobiografica del personaggio storico, connotandoli per giunta con l’indeterminazione dell’esemplarità. A rigore, questo particolareggiare, richiamando l’attenzione, attraverso una gestualità indeterminata, è già presente nella statuaria onoraria romana con il portamento dell’arringatore. Infatti, la posa distesa del braccio durante l’adlocutio, mediante la quale il monito perentorio delle statue dei Cesari precisava ogni singolo indistinto destinatario come eventuale prescelto, istituiva anche, con la sua presenza scenica, un teatro sociale e un pubblico.

Ne consegue, dunque, che da sempre l’allure del monumento en plein air sia rimessa più che alla variabilità inclemente del tempo atmosferico alla relatività cangiante di quello storico, che scandisce con le sue cesure e mutazioni di consenso gli andamenti del gusto sociale rispetto alla legittimità della sua permanenza in scena. Stando così le cose, non si dovrebbe gridare allo scandalo circa l’abbattimento della statua di Colston e neppure riguardo alla sua sostituzione con quella di Jen Reid. Dal momento che il bronzo del benefattore schiavista è stato ripescato e, probabilmente, sarà (ri)posto alla vista più indulgente dei visitatori di un museo, rimane da verificare la congruenza del blitz espositivo ideato da Quinn.

A monte, per una delucidazione efficace della valenza effettuale dell’opera di Quinn, è bene aggiungere, a quanto già scritto sulla leggibilità encomiastica del monumento pubblico, che quella presume e pretende di ostendere, attraverso un plus-valore di apparenza, la propria sfera assiologica come fosse universalmente condivisa e non il risultato di interessi particolari (relativi, cioè, alla detenzione del potere politico ed economico di classe, che riverbera anche sulla plastica onoraria destinata a personaggi della religione, scienza o arte). Il plus-valore di apparenza è perciò una disposizione retorica enfatica che vorrebbe innestare perennemente il desiderio di commemorazione nella topografia del locus monumentale [4], dandogli facoltà di fregiarsi di un’atmosfera circoscritta e riconoscibile: in pratica, un dispositivo semantico pubblicitario per nulla dissimile da quello che contraddistingue l’odierna promozione delle merci. In realtà, il “valore (d’uso) di messa in scena” (Inszenierungswert), come lo chiama il filosofo Gernot Böhme, concerne l’estetizzazione di tutto il reale quale fattore decisivo per le economie nazionali capitalistiche contemporanee.

Questo fenomeno ha il suo correlato pratico nel concetto di “lavoro estetico”: «Con esso s’intende la totalità di quelle attività che hanno lo scopo di dare un aspetto particolare alle cose, agli uomini, alle città e ai paesaggi, conferendo loro una radianza, munendoli di un’atmosfera o producendola in toto» [5].

Viene così a risultare insignificante la differenza tra arte, artigianato e kitsch[6], che caratterizzava ancora il mito della qualità nell’industria culturale del secolo scorso, dal momento che il lavoratore estetico odierno, inteso sempre concettualmente, «include piuttosto l’intero spettro del termine dall’imbianchino all’artista, dal designer allo scenografo fino al produttore di musica di sottofondo, abbracciando tutte le attività umane che conferiscono alle cose, agli uomini e all’insieme quel qualcosa in più, che  eccede la loro presenza, disponibilità, realtà  e  finalità» [7].

La decosalizzazione della produzione estetica attesta in questo modo che i suoi prodotti (dalle semplici merci alle opere d’arte) non sono fatti solo  per essere esperiti in vista del soddisfacimento di bisogni, cosa che nelle economie avanzate viene considerata risolta, ma per suggerire esperienze e stili di vita sussunti però all’immaginario consumistico di un loro incremento potenziale infinito in quanto desideri. Il valore di messa in scena, che già baluginava attraverso la visibilità del monumento encomiastico in quanto suo valore di scambio nella sfera pubblica, è ora diventato moneta corrente per registrare le coordinate del lavoro immaginativo nel suo complesso.

Alla luce di tutto questo, l’intervento di Quinn sembra appropriato, almeno per quello che attiene alla parte superiore del monumento. Come lo stesso Price ammette, Quinn con la statua di Jen Reid fornisce una «powerful image of a black woman on top of the plinth», restituendo, in certo senso, attraverso la postura volitiva ed energica, la concitazione emotiva ed ‘atmosferica’ alla base della rivendicazione valoriale da parte dell’attivista (e, metonimicamente, di BLM) del suo operato distruttivo. Al  pari dell’immagine di Colston, la cui aura assiologica di visibilità è racchiusa in un portamento meditativo’ il surplus d’apparenza di A Surge of Power… trae forza dalla protensione dinamica – in protesta ma anche fenomenologicamente in proiezione futura – del braccio e pugno della Reid.

L’intera figura della Reid (insieme al titolo  Empito di potere… ) costituisce un plesso significante che richiama alla memoria, come una moderna pathosformel warburghiana, i pugni guantati e sollevati verso la bandiera americana di Tommie Smith e John Carlos durante la loro premiazione alle Olimpiadi messicane del 1968.  Essa riattualizza (in senso coscienziale) e salda insieme istanze tradizionali di rivendicazione dei diritti civili, implementandole sulla consapevolezza storico-sociale sempre maggiore della comunità di colore, che si protraggono da oltre mezzo secolo.

Appare dunque piuttosto strana la rimostranza di Price riguardante l’ambizione e il diritto di Quinn di dare immagine a questa rivendicazione  solo perché non nero: «Underneath this, however, you have the ambition and entitlement of this very privileged white guy, this white artist, Marc Quinn» (Sotto tutto ciò, tuttavia, c’è l’ambizione e la legittimazione di questo ragazzo bianco molto privilegiato, questo artista bianco, Marc Quinn.). Sembrerebbe che la supplenza di denuncia che Quinn, da bravo e sollecito sceneggiatore, ha allestito –  anticipando tutti con il set provvisorio di  A Surge of Power… – non possa essere legittima per via della sua mancanza (razziale? Metafisica?) di neritudine. Il privilegio, in ogni caso,  è ascrivibile solo al  possesso dei mezzi che gli ha consentito di mandare in bianco, precedendoli, quanti avrebbero potuto avere progetti simili al suo. Ma in una società come la nostra questo può essere considerato un fattore negativo?

Rimane la sincerità dell’intenzione di essere stato sodale alla causa di BLM pensandola in quanto manifestazione scultorea. Price, esplicitamente, non può fargliene il processo e in effetti parla di sicumera: «The hubris of this man is incredible. He hasn’t given anything, he’s only taken. He’s exploited an opportunity». Tuttavia, lo specifico dello sfruttamento opportunistico (di Quinn) dell’autenticità del gesto della Reid (e il pathos genuino delle sue motivazioni di dissidenza civile) viene ascritto (da Price) all’atto della sua iterazione artistica, al momento in cui è fissato nella copia della sua statua:« For her, that moment was one that felt right, that felt powerful, but it’s as if Quinn, by casting her in resin, and controlling her, is stealing that genuine moment away, claiming it as his own». Qui, il pregiudizio platonico di Price sembra riecheggiare la polemica tra Derrida e Searle circa l’impossibilità della felicità espressiva pura degli Speech Acts a causa della loro iterabilità linguistica [8].

Dal momento che la volontà di esposizione in perpetuo della memoria (di un evento o di un personaggio storici) nel monumento celebrativo comporta necessariamente la sua iterazione formale (sinestetica) in un costrutto immaginale non equivoco, che altro poteva fare Quinn? In realtà, un indizio di fretta, sintomo dell’esigenza di restare sintonici con gli umori dell’opinione pubblica, può essergli imputato  in relazione alla completezza della sua sostituzione celebrativa.  Il plinto, sul quale poggiava la statua di Colston, non era funzionalmente neutro come il quarto di Trafalgar Square sul quale Quinn aveva posto il torso di Alison Lapper, ma faceva parte del ‘corpo’ significante dell’opera.

Come già detto, il supporto a parallelepipedo rettangolare con piedestallo tronco conico della statua di Colston è ornato, sui quattro angoli, con figure di delfini perché la leggenda agiografica del personaggio vuole che sia stato proprio il sacrificio di uno di questi animali, turando con il corpo la falla nello scafo, a salvare la nave in balia della tempesta  sulla quale il Nostro viaggiava per affari. L’episodio è descritto su una delle quattro placche bronzee a rilievo sistemate sui lati del plinto. La foggia particolare dei delfini, poco somigliante a quella reale, venne suggerita a Cassidy dal simbolo della Dolphin Society, istituita nel 1749 da 18 gentiluomini per commemorare la nascita di Colston e sviluppatasi nel tempo come associazione filantropica. Un altro simbolo, che compare nel  riquadro con un  cavallo marino e sirene, è quello dell’ancora. La scena iconicamente connette l’attività commerciale dei trasporti marittimi alla Anchor Society, la seconda associazione filantropica bristoliana ispirata a Colston e fondata nel 1769. Una terza piastra lo  mostra intento ad aiutare finanziariamente una famiglia di riconoscenti indigenti. Infine, sul fronte del plinto, incisa nel metallo, vi è la dedica della cittadinanza che suona così:« ERECTED BY CITIZENS OF BRISTOL AS MEMORIAL TO ONE OF THE MOST VIRTUOUS AND WISE SONS OF THEIR CITY A.D.1895»

A costo di ripetersi, il plinto non è un semplice elemento di appoggio per la statua di Colston, ma sostanzia, ad un’osservazione non superficiale, l’ostensione valoriale della sua benemeranza come cittadino quale indizio giustificativo a monte dell’edificazione di un monumento in sua memoria. I riquadri e i delfini non ci educono sulla ‘natura’ specifica delle attività commerciali del celebrato, ma ci ‘mostrano’ che la Natura stessa le ha favorite e protette, ‘istruendo’ vieppiù col tempo la sua natura già incline ad essere compassionevole e prodiga verso le classi sociali più disagiate. Quinn non ha tenuto in conto le stazioni iconografiche del plinto, quanto vi ha sistemato sopra la bildding di Jen Reid. Questo è l’appunto che gli si può muovere.  L’incongruenza della sua risistemazione (che Price non ha evidenziato) consiste nel fatto di non aver provveduto a dotare il plinto di nuove immagini, di una nuova ‘storia, in sintonia con l’avvicendamento del simulacro della Reid in luogo di colui che ne aveva schiavizzato gli antenati. L’artista inglese avrebbe dovuto sovrapporre alle piastre originali nuovi episodi a rilievo, opposti all’ideologica indeterminazione della narrazione delle gesta commerciali colstoniane, magari mostrando che la realtà delle stive navali non riguardava delfini, sirene e cavalli marini, ma uomini incatenati, destinati a morire in caso di naufragio o a causa del protrarsi delle condizioni disumane del loro trasporto.

Se avesse dotato la statua della Reid della sua base di filogenesi storica, forse Quinn sarebbe riuscito, come voleva Benjamin, a concretare dialetticamente la sua immagine, trasformando «l’empito di potere» del suo braccio teso in un richiamo di sospensione del passato, in un arresto (Stillstand) del continuum della violenza. L’enfasi della posa della Reid non avrebbe circoscritto solo la sostenibilità futura del risentimento storico, ma anche l’attualità pietosa del passato in quanto memoria presente dei soprusi patiti dalla gente di colore nel corso dei secoli.

 

 

 

 

 

Note

1.  A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, le virtù civiche di Colston come benefattore e filantropo vennero offuscate dalla messa in risalto da parte degli storici del suo ruolo di azionista della Royal African Company     (dal 1680 al 1691), dedito al commercio degli schiavi e corresponsabile ( per il periodo in cui praticò la tratta) della morte di 19.000 di loro.

2.  Riccardo Manzotti, The Spread Mind, New York, Or Books LIc, 2017; tr.it di A.Panini, La mente allargata, Milano, Il Saggiatore, 2019, p.290.

3.  Quello che, per Husserl, circoscrive ‘idealisticamente’ la coscienza d’immagine dell’osservatore comune, «tripartita in :cosa iconica (Bildding, l’immagine fisica, Bildträger , il supporto materiale: marmo, tela, carta, pigmenti ecc.); oggetto iconico (Bildobjekt: quel che vedo raffigurato nella cosa iconica); soggetto iconico (Bildsujet: il referente esterno)» (Cfr., Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Cultura visuale, Torino, Einaudi, 2016, p.52).

4.  Paul Connerton, How Modernity Forgets, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 2009; tr.it. di P.Carmagnani, Come la modernità  dimentica, Torino, Einaudi, 2010, pp.38-48.

5.  Gernot Böhme, Ästhetischer Kapitalismus, Berlin, Suhrkamp Verlag, 2016,  p.26.

6.  La scultura The End di Eather Phillipson, sistemata alla fine di luglio 2020 sul quarto plinto di Trafalgar Square [quello lasciato vuoto fino al 1998 e che ospita opere pubbliche ‘a tempo’ (due anni), tra cui ha figurato anche nel 2005 il marmo di Marc Quinn Alison Lapper Pregnant (dedicato all’eroismo ‘quotidiano’ della focomelica artista inglese quale simbolo di una bellezza non canonica)], è l’esempio calzante del meticciamento espressivo, invalso con la valorizzazione figurativa della ‘messa in scena’. Non ‘celebra’ un personaggio o un eroe contemporanei, ma vuole rendere l’immagine di uno stato d’animo, o meglio l’atmosfera di una tonalità emotiva. Concepita nel 2016 durante il referendum per la Brexit, all’indomani dell’ elezione di Trump, ‘illustra’ lo spaesamento per l’incertezza della conclusione e l’appossimarsi incerto delle conseguenze, mostrando un drone su una ciliegia che troneggia, a sua volta, sopra  una montagna di panna sul punto di squagliare. A rendere meno invitante l’appeal del quadretto, contribuisce una mosca planata sulla dolce protuberanza  per cibarsene. Il drone ha una videocamera installata, che inquadra in permanenza una porzione della piazza, per cui tramite un’ app telefonica scaricabile i passanti nei paraggi del monumento possono visualizzare sul loro smartphone  i propri movimenti in diretta. Non so se questo escamotage di narcisismo riflettente contribuisca a far ‘riflettere’ meglio chi osserva circa il ‘messaggio’ che The End vuole palesare, dal momento che non si può fare a meno di convenire sul fatto che la sua retorica figurale renda abbastanza evidente il presagio di disfacinento del tutto anche per l’ermeneutica poco sofisticata delle masse deambulanti. In ogni caso,  pur se dovesse essere scambiata per un pastiche plastico che ‘inneggia’ al torneo tennistico di Wimbledon (mostrandone due must come il drone ‘occhio di falco’, per le palle out o in, e la panna tradizionale da consumare, con le fragole, durante gli incontri postprandiali) , non avrebbe tempo, dovendo rimanere ‘esposta’ solo 24 mesi,  di far ‘montare’ nei propri confronti un sentimento di rigetto tale da provocarne lo smantellamento.

7.  Gernot Böhme, Ästhetischer Kapitalismus, cit. pp.26-27.

8.  Jacques Derrida, Limited Inc., Paris, Éditions Galilée, 1990; tr.it di N.Perullo, Limited Inc., Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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