Cultura come appartenenza: intervista a Rania Hammad

Scrittrice e attivista per i diritti umani della comunità palestinese, Rania Hammad in questo momento drammatico della stessa, antica storia di dolore, oppressione e privazione di ogni diritto e di ogni dignità, ci racconta la Palestina. I suoi simboli, la sua poesia, l’identità. E la necessità che non venga mai meno il dialogo fra le culture.

Gentile Rania, prima di tutto una curosità: vorrei sapere da lei il significato della kefiah che i palestinesi indossano. Mi piacerebbe entrare nel cuore dell’identità di un popolo attraverso i simboli, ormai abbandonati dal nostro mondo occidentale.

Con la kefiah si entra veramente nel cuore dell’identità del nostro popolo. I palestinesi portano la kefiah con orgoglio, dignità e onore, è uno di quei simboli che più identificano il popolo palestinese. Negli anni ’30, durante la rivolta araba, la kefiah aveva già svolto un ruolo unificante di fronte all’occupante inglese.

Infatti, durante le rivolte arabo/palestinesi del 1936-39, veniva indossata dai combattenti per spingere ad abbandonare il tradizionale tarbush ottomano o fez a favore della kefiah, un chiaro esempio di consapevolezza di una specifica identità nazionale palestinese.

Per questo è da sempre un simbolo del nazionalismo palestinese, anche se è negli anni ’80 e con il leader Yasser Arafat che è diventata famosa a livello mondiale e vista come un simbolo della lotta palestinese e per la libertà. Oggi molti la mettono perché fa moda, o perché sostengono qualche giusta causa, ma è sicuramente un pezzo di tessuto chiaramente riconducibile e identificabile con la Palestina e il suo popolo.

In Occidente purtroppo spesso è stato stravolto il significato identificandolo come indumento indossato da ribelli o terroristi. Dopo l’11 settembre è iniziato lo “scontro di civiltà” con la demonizzazione del mondo arabo e islamico per motivi geopolitici e questa bellissima sciarpa bianco nera è stata associata a gruppi di mercenari.

La verità è che la kefiah è simbolo della resistenza del popolo palestinese e della lotta per la liberazione dall’occupazione militare e non ha nulla a che fare con il quadro più ampio della guerra contro il fanatismo, la lotta al terrorismo o ad una lotta contro Israele o gli ebrei che il mondo occidentale mira a far pensare.

La kefiah, come il tatreez, il tipico ricamo palestinese, sono chiari esempi dell’esistenza e presenza dei palestinesi nel mondo, sono la dimostrazione che il popolo esiste e da sempre. Lo stesso si è verificato con la nostra danza tradizionale Dabka o il nostro cibo tipico palestinese. Ma la lotta del popolo palestinese è una lotta per la libertà e contro l’occupazione, e la kefiah è un simbolo onorevole che significa resistenza e quindi è un concetto che tutti i popoli del mondo possono comprendere ed abbracciare.

Per autodeterminarsi la cultura è il mezzo più potente che esista: i palestinesi hanno un legame forte con i loro intellettuali, in patria e all’estero?

Ogni nazione usa le arti come espressione della propria identità culturale, ma anche come mezzo per raccontarsi e farsi conoscere nel profondo. Per i palestinesi, questa identità culturale trasmessa da generazione in generazione è consacrata dai nostri scrittori, poeti e artisti. I palestinesi sono un popolo con una lunga storia e profonde radici nella propria terra e nelle proprie tradizioni.

Per migliaia di anni la Palestina è stata un punto focale di importanti eventi storici e appartiene alla famosa Mezzaluna Fertile dell’antichità umana, sede di alcune delle prime comunità del mondo. Questa storia millenaria non poteva che generare un cospicuo numero di acclamati scrittori palestinesi che hanno prodotto un prodigioso corpus di letteratura e pensiero intellettuale, e non solo negli ultimi decenni ma già dal 1900.

Figure di spicco del secolo scorso includono Emile Habibi, Jabra Ibrahim Jabra, Ghassan Kanafani, Sahar Khalifeh, Edward Said, Samira Azzam, Raja Shehadeh, e Walid Khalidi, solo per citarne alcuni. Ma uno degli uomini più straordinari che ha contribuito al pensiero politico moderno e alla letteratura occidentale, è stato il noto scrittore e accademico palestinese Edward Said, professore di letteratura della Columbia University, e autore dell’importantissimo e influente libro Orientalismo.

I palestinesi poi hanno una tradizione poetica particolarmente forte: da Fadwa Tuqan e Samih al-Qasim, al nostro poeta più famoso a livello internazionale, poeta del mondo, appunto, Mahmoud Darwish.

L’opera poetica a partire dagli anni ’20 ad esempio si caratterizzava per i suoi messaggi anti-occupazione e di indipendenza dall’occupazione britannica, mentre le poesie di Mahmoud Darwish come Betaket Hawiya (in arabo “carta d’identità”) esprimevano la libertà dall’occupazione israeliana. Certo che i nostri scrittori e poeti hanno contribuito e continuano a contribuire all’arricchimento della nostra cultura e rivendicando i diritti all’autodeterminazione e alla libertà.

Le poesie hanno avuto un valore talmente importante nella nostra vita che i messaggi sono incorporati nella vita quotidiana, come ad esempio, la poesia Mawtini di Ibrahim Tuqan che è diventata l’inno nazionale palestinese nel 1996.

Oggi abbiamo centinaia di intellettuali palestinesi che diffondo la cultura palestinese nel mondo e spesso i loro temi esprimono le preoccupazioni e aspirazione dell’esperienza palestinese, come la perdita della terra, l’amore e l’attaccamento alla terra, il confronto con l’ingiustizia, la resistenza e la ricerca della libertà.

I palestinesi della diaspora invece spesso affrontano temi quali l’esilio, il ritorno e l’identità ma raccontano anche temi universali quali l’amore, le relazioni familiari, la vita e la morte oltre a temi attuali e globali.

Insomma, il popolo palestinese come tutti i popoli, produce geni letterari dentro e fuori la Palestina, e anche se la maggior parte dei loro scritti si concentra sulla nostra condizione, è anche vero che spesso vogliono solamente esprimere la loro creatività e arte.

Ci sono delle differenze sostanziali tra gli arabi che abitano nelle diverse nazioni del Medio Oriente. Come spiegare questo concetto a chi crede semplicisticamente che basta una religione o una lingua per rendersi parte di una comunità e vorrebbe collocare l’identità palestinese in una unica compagine etnica e culturale così da rendere quasi inutile l’idea di uno Stato indipendente?

Questa confusione è dovuta ai vecchi slogan che oggi tornano prorompenti proprio a causa degli ultimi eventi. Oggi in Palestina si vive un clima molto pesante. Sono tornati nelle strade dei quartieri palestinesi bande di estremisti paramilitari che inneggiano contro gli arabi sia a Gerusalemme est che dentro i confini dello Stato israeliano dove vivono palestinesi cittadini di Israele.

Questo è il clima attuale, i palestinesi non sono palestinesi ma considerati solamente arabi e questo è uno stratagemma per non considerare “essenziale” la permanenza in un territorio come abitanti autoctoni.  E pensare che i palestinesi sono la comunità cristiana più antica del mondo e antenati dei cristiani occidentali…

In pratica, questa visione semplicistica che tenta di associare palestinese/arabo o palestinese/musulmano è un escamotage che ora è ritornato a dominare il linguaggio ed è utilizzato per far credere che si tratti di una questione di religione e non di terra e diritti umani.

Bisogna dar voce alle forze laiche e progressiste e non a quelle che demonizzano e disumanizzano l’altro, il “diverso”. Questa cancellazione dell’identità del nostro popolo mira a delegittimare qualsiasi pretesa della popolazione palestinese a vivere nella propria terra in uno Stato palestinese indipendente.

Come è potuto succedere che una popolazione, ad eccezione di piccoli gruppi in determinati luoghi, è semplicemente svanita? Spesso si pensa agli stati come entità naturali e statiche e non come comunità immaginate e inventate; in realtà tutti i nazionalismi sono in un certo senso inventati e non sono un avvenimento naturale.

Se prima avevamo città-stato, e poi imperi e dopo stati-nazione, allora diventa ovvio il concetto che queste entità sono fluide, e in continua evoluzione.

Se pensiamo all’identità nazionale “italiana” capiamo che l’identità nazionale è molto recente, ed è appena nata alla fine dell’Ottocento. Eppure, nessuno sostiene che gli italiani sono un popolo inesistente, nonostante la loro identità nazionale non esistesse 200 anni fa.

L’identità palestinese contemporanea è delineata in molti documenti storici, nonché da storici e sociologi israeliani come Ilan Pappe, Israel Shamir, Baruch Kimmerling e altri, ma una delle opere più importanti è quella dell’accademico palestinese Rashid Khalidi che scrive che l’identità nazionale palestinese può essere fatta risalire all’epoca ottomana e probabilmente ha iniziato a cristallizzarsi nella sua forma moderna durante il periodo della Prima guerra mondiale.

Il fatto che i palestinesi si siano identificati in alcuni periodi con l’idea di una nazione araba più grande non ha precluso l’identità e il senso di appartenenza ad un unico popolo palestinese. Di fatto per noi non è mai stata una contraddizione identificarci sia come arabo che come palestinese, e qui sta il punto.

Anche se storicamente i palestinesi avevano accolto calorosamente la creazione del primo stato panarabo nel 1920, la maggior parte dei palestinesi che si consideravano arabi ed essenzialmente “siriani del sud” erano consapevoli di vivere in una regione territoriale chiamata “Palestina” separata, anche se ne costituiva una parte, dalla “grande Siria”. Ma il progetto fallì e anche gli stessi nazionalisti palestinesi che hanno sempre espresso l’idealismo panarabo hanno poi diretto i loro sforzi verso il raggiungimento di uno stato più fattibile.

La prima edizione del Falastin Festival di Roma è stato un successo. Ci parli di questa esperienza e del futuro della manifestazione.

Il festival della cultura palestinese di ottobre 2020 è nato dall’esigenza di far conoscere non solo la politica e storia travagliata della nostra terra, ma la nostra cultura, il nostro ricco patrimonio culturale artistico, letterario, cinematografico, musicale e culinario.

Il popolo palestinese è straordinariamente creativo e molto resiliente specie se si considerano le nostre circostanze e condizioni dentro la Palestina, come in Cisgiordania e Gaza dove nascono grandi scrittori, artisti e registi. Anche nella diaspora palestinese stanno nascendo dei grandi talenti palestinesi e attraverso il Festival volevamo farli conoscere al mondo.

L’evento è riuscito proprio perché abbiamo usato un linguaggio differente, abbiamo parlato di libri, di moda, di bellissimi film.
È stato un modo più semplice per raccontare la nostra storia e anche i nostri drammi. La solidarietà con la Palestina cresce ogni giorno e sempre di più, e questo perché la gente diventa più consapevole delle battaglie comuni che si devono fare insieme contro ogni forma di oppressione e razzismo.

Il festival si ripeterà con la stessa passione e voglia di condivisone, e con ogni edizione il movimento a sostegno dei diritti dei palestinesi crescerà.

Lei è instancabile nelle sue attività in favore del dialogo interculturale e della difesa dei diritti umani del suo popolo. Nonostante le notizie poco confortanti, esiste uno spiraglio di fiducia per una pace giusta ad opera delle nuove generazioni?

Le nuove generazioni sono la nostra continuazione, sono come una catena che lega il passato al presente e si mantiene nel futuro. Noi facciamo parte di loro perché siamo le loro radici, storia, patrimonio, così come loro sono parte di noi proiettati nel futuro, rappresentano speranza e vita.

Khalil Gibran scriveva: I vostri figli non sono figli vostri…sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita. Nascono per mezzo di voi, ma non da voi. Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono. Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee. Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni. Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri”.

Ecco, il futuro della Palestina è nelle loro mani e con le loro idee porteranno avanti quello in cui credono. Dopo più di settant’anni di esilio chiedono, come noi d’altronde ma forse con ancora più forza e determinazione, il diritto al ritorno.

Si domandano anche come può un testo antico e mitologico decidere il destino di un territorio, rivendicano i loro diritti usando il linguaggio chiaro e giusto, quello della legalità e della giustizia.  Una visione semplice e anche molto logica, mi pare.

Grazie a Rania Hammad per il tempo che ci ha dedicato. Il futuro è la somma del tempo donato, mai di quello sottratto: è un proposito che faccio pensando alle storie eccezionali come quelle della sua vita.

 

immagine per Rania Hammad
Rania Hammad

Rania Hammad è laureata in Scienze Politiche a Roma, ha un master in Relazioni Internazionali conseguito a Londra e insegnava alla St. John’s University.

Il suo impegno nella divulgazione della causa palestinese le ha fatto scrivere il libro “Palestina nel cuore” che attraverso la storia della sua famiglia narra le vicissitudini del popolo palestinese e il libro “Vita tua vita mea” una raccolta di testimonianze di israeliani a sostegno della causa palestinese.

È organizzatrice del “Falastin Festival” di Roma.

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Antonella A. Rizzo è nata a Roma il 17 gennaio 1967. E' poeta, scrittrice, giornalista, performer. Ha pubblicato: Il sonno di Salomè - Edizioni Tracce 2012. Confessioni di una giovane eretica - Edizioni Lepisma 2013, Cleopatra. Divina Donna d'Inferno - Fusibilia libri 2014, Iratae pièce teatrale con Maria Carla Trapani - Fusibilia libri 2015, Plethora – Nuove Edizioni Aldine 2016, A dimora le rose, Edizioni Croce 2018, A tutti quelli che non sanno che esiste il vortice – Lavinia Dickinson edizioni 2019.

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