Rero non denuncia né cancella ma elegantemente mette in evidenza

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La prima esposizione in una galleria d’arte italiana di un artista come Rero non è passata inosservata. Una collaborazione tra l’agenzia creativa NuFactory e Wunderkammern ha portato a Roma una grande opera di arte urbana nel quartiere Ostiense, realizzata sulle pareti dell’edificio del DAMS di Roma Tre in occasione del festival Outdoor 2013, ed una mostra Supervised Indipendance, a cura di Giuseppe Ottavianelli e testo critico di Achille Bonito Oliva, che già dai primi giorni ha registrato un sold out di vendita. Coinvolti anche l’Istitut français – Centre Saint Louis presso il quale è stata realizzata una performance a fine novembre ed una serie di testate, riviste ed enti che hanno patrocinato o sostenuto l’evento che è stato inaugurato il 30 novembre 2013 ed è terminato il 25 gennaio 2014.

Chi è Rero? Quasi impossibile non averne sentito parlare.

Classe 1983, si afferma con le prime esposizioni in Francia e all’estero già nel 2009 e si fa conoscere per un singolare e tutto personale uso della parola ed in particolare dei “codici dell’immagine e del linguaggio”, come spiegano in galleria. Il messaggio artistico è scritto, come in un processo di materializzazione mentale e poi barrato, quasi a cancellare quello che si è pensato un attimo prima. Il lavoro artistico, in realtà, è ben decodificato e spiegato e non lascia spazio a molti dubbi: quella di Rero è una “ricerca sulla negazione dell’immagine” che mette in mostra il “processo del pensiero stesso” , denunciando una sorta di “censura e auto-censura” legata ai “concetti di proprietà privata fisica o intellettuale”.

Anche Achille Bonito Oliva si prodiga in un’analisi complessa e articolata, di cui citiamo solo alcuni brevi brani:

“Rero usa la scrittura per visualizzare a chiare lettere il suo pensiero critico nei confronti di una realtà sfuggente e irriducibile. L’artista francese riprende una figura retorica risalente al Manierismo, l’ossimoro, forma di convivenza semantica di opposti verbali, utilizzata nel Cinquecento per rappresentare la realtà contraddittoria del proprio tempo. Qui Rero lo usa per indagare principi fondamentali del nostro vivere come libertà, progresso, censura e autocensura, cancellando termini oppositivi di tali concetti che mettono in pericolo la libertà degli uomini”.

E poi:

“Rero con i suoi interventi in spazi pubblici e privati vuole restituire alla contemplazione dell’opera la corrispondenza tra ordine estetico e ordine morale. Ecco la conferma di una profezia di Picasso: L’arte puntata sul mondo”.

Un artista giovane ed etico, con un lavoro rigoroso e di denuncia.
Non ai miei occhi, però.

Non ho intenzione, in questa occasione, di smentire l’artista, l’importante critico o i bravissimi galleristi di Wunderkammern, che rappresentano una punta d’eccellenza nel panorama italiano anche per la capacità di costruire progetti curatoriali di spessore street e urbani, come PUBLIC and CONFIDENTIAL , con cui è arrivato in Italia Dan Witz (NY) e si avvicenderanno Agostino Iacurci (Roma/Nuremberg), Aakash Nihilani (NY) e Jef Aérosol (Paris).

Tutte le analisi fatte sono sicuramente vere e condivisibile, tuttavia a me sembra che manchi qualcosa.

Quello che vorrei aggiungere è qualcosa che mi accompagna guardando i lavori di Rero, qualcosa a cui mi sono sforzata di non pensare ma che è risalito inesorabilmente su nel momento in cui ho avuto la responsabilità di scriverne.

Nata tra esterno e interno, l’arte provocatoria di Rero fa quasi pensare ad una fuga di idee da un calcolatore elettronico. Come se uno dei primi personal computer avesse deciso di camminare sulle proprie gambe e fosse incappato in qualche incidente di percorso. Magari i dispositivi hanno incontrato una pozza d’acqua o un fiume, forse hanno contaminato l’aria e le falde acquifere.

Per intenderci, Rero mi sembra figlio del nostro tempo ed in particolare di un tempo che nei primi anni 2000 ha trovato la sua massima espressione. Ma anche del tempo contemporaneo, fatto di tweet, frasi fatte, slogan, gaffe ed interventi improbabili.

Tutto questo ha cominciato ad invadere lo spazio,ma soprattutto ha cominciato ad attirare come una calamita appassionati d’arte, critici e giovani collezionisti che da quel mondo e da quel linguaggio si sentono rappresentati. Il fatto che le provocazioni linguistiche fossero inserite in un contesto naturale, in una casa diroccata o all’interno di un telaio metallico verniciato, non faceva che accrescerne il risultato estetico.

Lo voglio dire: a me Rero piace. Nessun dubbio. Però mi piace come amo Francesco Vezzoli, non come artista combattente di denuncia. Trovo che sia un geniale e raffinato, in quanto francese, ragazzone che sa dire con parole artistiche, le cose giuste al momento giusto e sa parlare ad intere generazioni cresciute a pane e computer o anche a baguette e provocazioni.

E allora troviamo le allusioni al “grande fratello digitale” (viste sui panni stesi su palazzi intorno alla galleria), libri antichi usati come filtro di instagram a ricordare i limiti della conoscenza; oppure una citazione della casalinga tendenza a mettere sotto il tappeto i problemi personali e familiari. E poi statue (proprio come Vezzoli, sorprendete!) soffocate da sacchetti di plastica, su cui la parola si configura come spiegazione di un’idea e una frase al neon (che anche qui mi ricorda le urla di Milva alla mostra di Vezzoli al Maxxi di Roma) che mette in rilievo come l’umanità non abbia necessariamente una possibilità di redenzione, compromessa ormai dall’avvento della subdola era tecnologica. Quest’ultima è definita DIGITAL DARK AGE con un appellativo ben riuscito che non vuol dire che l’artista se ne tiri fuori. Secondo me ne è immerso fino al collo, dando spazio ai vagiti di quel vecchio pc finito male.

Incredibile come nella mostra, Supervised indipendence, composta di diversi interventi in esterno e in interno, l’artista sia riuscito mirabilmente a giocare con i contesti, con lo spazio, rubandoci anche la misera attualità italiana e dimostrando come un artista straniero non abbia paura di rovistare nel nostro humus culturale più o meno dignitoso.

Un lavoro destinato a lasciare il segno; sì, perché poi dimenticavo di dire che per me la linea nera “sottolinea”, non cancella.

E ci fa amare Rero ancora di più.

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Comunicatrice estetica e museale, segue con interesse i fermenti artistici dell’arte urbana e dell’arte contemporanea. Scrive per i portali web art a part of cult(ure) ed Exibart realizzando recensioni, interviste e articoli di approfondimento. Ha lavorato per artisti, gallerie e festival per le fasi di ideazione, progettazione e realizzazione degli eventi artistici. Negli studi di formazione come architetto si è concentrata sui focus della storia dell’arte, estetica e allestimento museale. E’ impegnata nella realizzazione di un innovativo portale dedicato all’arte e nell’organizzazione del festival Memorie Urbane.

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