Dopo Il sangue delle donne. Tracce di rosso dalla Casa Internazionale delle Donne di Roma alla Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna

Dalla Casa Internazionale delle Donne di Roma alla Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna: così il progetto Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco prosegue il suo viaggio, ampliando i propri orizzonti oltre la dimensione capitolina.

La mostra ha tratto spunto dal ritrovamento fortuito, in un mercato rionale, di alcuni panni di lino, utilizzati nel secolo scorso dalle donne durante il periodo mestruale. Quattordici artiste sono state coinvolte dalle due curatrici, Manuela De Leonardis e Rossella Alessandrucci, interpretando in maniera profonda il proprio rapporto con l’oggetto, chiamando in causa il vissuto personale, proponendo riflessioni intime, talvolta ironiche, ed esprimendo con forza il bisogno di rompere tabù e stereotipi.

Il 27 novembre prossimo il progetto sarà presentato nell’ambito dell’evento Fil Rouge a Bologna, dove le curatrici sono state invitate a intervenire assieme all’artista Giovanna Caimmi. In tal senso, l’evento si inserisce nella proposta della Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna, che prevede l’organizzazione di incontri con autori che possano da vita a riflessioni e scambi di idee sull’identità di genere, attivando percorsi di approfondimento e di ricerca.

Ho avuto l’occasione di parlare con Manuela De Leonardis e Rossella Alessandrucci del loro progetto, da come si è originato agli eterogenei e originali sviluppi proposti da ogni artista coinvolta.

Il progetto nasce dal ritrovamento casuale, da parte di Manuela, dei panni di lino utilizzati dalle donne durante il ciclo mestruale fino alla metà del secolo scorso. Da questo ritrovamento, come è nata l’idea della mostra?

Manuela De Leonardis: Ho trovato i panni in un mercatino di seconda mano a Roma. Nel mucchio di pizzi e di vecchi merletti ho riconosciuto i pannolini. Ho una memoria visiva di questi oggetti, che sono stati usati anche da mia madre e da mia nonna. Anche se non appartengono più a questo secolo, fino agli anni Sessanta si usavano. Mia madre si è sposata nel ’65 e li aveva nel corredo. Anche Rossella li conosceva. Fanno parte di una memoria piuttosto recente per quanto riguarda il femminile. Poi, da questi pannolini che ho acquistato, ho pensato di coinvolgere una serie di artiste che fossero legate al tema del femminile e quindi è partito il progetto. Poi, a un certo punto, ho pensato di coinvolgere Rossella perché avevamo già lavorato insieme alla performance di Susan Harbage Page, una delle artiste con cui lavoro da parecchio tempo e che ho coinvolto nel progetto. Due artiste sono state scelte da Rossella: Paola Romoli Venturi e Sonya Orfalian, che era stata precedentemente ospitata nella sua galleria “LaStellina ArteContemporanea”.

Rossella Alessandrucci: Nel 2012 Sonya aveva realizzato da me “Homo sine pecunia est imago mortis”, facendo una mostra scioccante. Sonya è un’artista molto ‘intrinseca’: racconta poco, ma in maniera esplosiva, i suoi sentimenti. Quindi mi piaceva molto ed era proprio adatta per questa mostra. È stata la prima che ho coinvolto. Dopo Sonya Orfalian ho cercato di coinvolgere un’artista saudita e anche Manuela l’avrebbe voluto. Purtroppo non è stato facile e non l’ho trovata, è un argomento troppo difficile per l’Arabia Saudita.

M.D.L.: Questo tema è difficile in Occidente, figuriamoci poi per il mondo arabo, dove è ancora un tabù.

Il vostro intervento alla Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna rappresenta un ulteriore sviluppo del progetto. Ne avete in mente altri?

M.D.L.: La Casa Internazionale delle Donne di Roma è stata una location scelta da entrambe con piena consapevolezza, proprio perché era un luogo istituzionale adatto a ospitare un progetto del genere. È stato il primo step di un progetto, che vedrà come tappa successiva la nostra partecipazione nell’ambito dell’evento “Fil Rouge” a Bologna e che andrà ad ampliarsi con la pubblicazione del catalogo in inglese, poiché quello presente è solo in italiano. L’idea che abbiamo è quella di coinvolgere altre artiste internazionali. Abbiamo già in mente un’artista statunitense, un’indiana e probabilmente la saudita. L’idea è ampliare i punti di vista a livello internazionale e quindi portare la mostra e il progetto anche in altri luoghi. Inoltre, Ivana Spinelli, una delle artiste del progetto e docente dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, vorrebbe organizzare una conferenza sul tema in Accademia. In realtà, la mostra alla Casa Internazionale delle Donne è stata soltanto un punto di vista minimo sull’argomento, che può essere indagato ulteriormente, secondo declinazioni diverse.

Il sangue delle donne è il titolo di un libro del giornalista Alvaro Fiorucci, uscito lo scorso anno, in cui racconta oltre trent’anni di femminicidi avvenuti in Umbria. Anche nel vostro progetto è presente la volontà di approfondire o denunciare la violenza, attiva o passiva, che le donne subiscono tutt’oggi?

R.A.: Il libro non ha molti legami con il nostro progetto, il taglio è diverso. C’è anche un altro libro recentissimo, “Il sangue matto”, che tratta proprio di questo argomento, anche se riflette su tutta una serie di problematiche dell’autrice e ha poco a che fare con noi. C’è stata già una mostra intitolata “Il sangue delle donne” ma non ci sembrava il caso di citarla perché aveva quella frase da sola, senza il resto. Quindi, proprio per non ripeterci con delle cose che ci sono già state precedentemente, abbiamo aggiunto “Tracce di rosso sul panno bianco”, che poi voleva essere inizialmente il titolo. Il motivo era perché è troppo forte “Il sangue delle donne”, quindi avevamo pensato di addolcirlo, di non parlare del pannolino, perché è un discorso un po’scabroso. Lascia perplessi parlare di questi argomenti così intimi e allora abbiamo deciso di aggiungere “Tracce di rosso sul panno bianco” che è più pertinente, più poetico, lasciando comunque “Il sangue delle donne”. Il sangue serve sempre!

M.D.L.: Tra l’altro, le tracce di rosso sul panno bianco non sono solamente quelle del sangue mestruale, ma anche quelle delle iniziali, delle cifre. I pannolini, come in generale l’abbigliamento, le sottovesti, i mutandoni e le lenzuola, erano quasi tutti ricamati con le iniziali della sposa, nei corredi. Noi abbiamo ritrovato una serie di pannolini di periodi e di materiali diversi. Alcuni più grandi, tessuti a mano, altri più dozzinali, per cui anche questo aspetto è stato interessante.

Come hanno lavorato le quattorodici artiste coinvolte nel progetto?

M.D.L.: Ogni artista ha lavorato sul materiale che le è stato dato, sul pannolino, affrontando tematiche che non sono soltanto quelle che si può immaginare, del femminicidio o del sangue mestruale, ma trovando ognuna una chiave di lettura diversa, anche ironica.

R.A.: Elly Nagaoka, ad esempio, ha parlato della menopausa. Ogni artista ha toccato un aspetto diverso della vita della donna.

M.D.L.: Ketty Tagliatti ha utilizzato il pannolino come se fosse una seconda pelle, rivestendo un oggetto domestico, una teiera. È molto femminile e allo stesso tempo una metafora per dire come ci siano degli argomenti nascosti.

R.A.: Fa anche riferimento all’educazione femminile, all’ora del tè. C’è questo aspetto femminile, però nascosto dal pannolino dove si vedono le cifre originarie, che erano quasi sempre rosse o bianche. Il lavoro è stato inserito in un contenitore di ferro, da cui si originava il contrasto con la delicatezza della teiera e del pannolino. Patrizia Molinari, invece, ha realizzato un lavoro apparentemente semplice, che esprimeva molto. Era un lavoro più concettuale. Ha utilizzato del sangue animale per dipingere il pannolino, lasciandolo così com’era, attaccandolo a un chiodo, quasi alla stregua di una bandiera. Il chiodo richiamava la sofferenza, la forza del sangue. Un oggetto così semplice racchiudeva in realtà molto.

M.D.L.: Abbiamo anche avuto una poesia di Tomaso Binga (alter ego di Bianca Menna), che si chiama “San guè”, molto ironica, presente in catalogo. Non è stata una delle artiste della mostra però si tratta un’artista storica proveniente dal femminismo, che ha voluto partecipare al progetto – in questo caso editoriale – mettendoci a disposizione questa poesia visiva che aveva già realizzato sul sangue.

R.A.: Abbiamo avuto poi una serie di lavori che parlavano del concepimento e, addirittura, anche di un periodo precedente, come nel lavoro di Anja Luithle, dove veniva presentata la temperatura basale, ovvero la temperatura interna del corpo, misurata prima che lei rimanesse incinta. Rappresentava quindi il picco massimo non solo dell’ovulazione ma proprio del rimanere ‘gravida’. I grafico riportato sul pannolino era legato all’osservazione che aveva fatto su se stessa da quando era rimasta incinta.

M.D.L.: Il lavoro di Susan Harbage Page, al contrario, parlava di un ciclo mestruale che rimaneva sterile perché faceva riferimento a quello delle monache di clausura, con cui l’artista sta lavorando da tanti anni in Italia, a Spello. Ha cucito sul pannolino le parole “work” “love” “play” “bleed” ovvero “lavora”, “ama”, “gioca” e “sanguina”. Si avevano quindi questi due lavori speculari, di Anja Luithle e di Susan Harbage Page, che trattavano due aspetti contrastanti: da una parte la fecondazione come preludio alla gravidanza; dall’altra, il ciclo fine a se stesso delle suore.

Nei lavori di Silvia Levenson e Rita Boini si faceva invece riferimento al femminicidio. In maniera un po’ più ironica Silvia Levenson, con la bomba a mano ricamata con le perline, un’icona del suo lavoro; in maniera più dolorosa Rita Boini, coinvolta per la prima volta in un progetto artistico. È una giornalista di Perugia che lavora molto sul tema delle donne. Per l’occasione, aveva deciso di raccontare una storia personale appartenente alla sua famiglia, che lei, piuttosto che scrivere – linguaggio che le viene spontaneo – aveva deciso di tirare fuori in maniera più visuale.

Maïmouna Guerresi, che tra l’altro ha inaugurato una personale il 12 novembre da Matèria, è un’artista che utilizza la fotografia. Il lavoro proposto per “Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco” si chiamava “Red Carpet”. L’artista è musulmana e ha scelto di convertirsi all’Islam: si trattava di una sorta di tappeto e nello stesso tempo un modo, attraverso la preghiera, di andare avanti, in maniera sicuramente ironica.

Le opere proposte in mostra sono state dunque molto eterogenee, sia nelle modalità di esecuzione dei lavori che nell’approccio al pannolino, anche dal punto di vista simbolico. Le artiste hanno quindi avuto piena libertà creativa rispetto all’oggetto che hanno avuto in consegna?

M.D.L.: Ognuna di loro era completamente libera di lavorare l’oggetto. Elly Nagaoka, meravigliosa, ne è un esempio.

R.A.: Ne “Il Ciclo dei cicli” ha parlato della sua menopausa, dipingendo a mano il panno, piuttosto che ricamandolo, in modo particolareggiato come solo una giapponese può fare. È stato esposto in maniera tale che bisognava chinarsi e guardare sotto il panno, da sotto in su. Al di sotto, infatti, si trovava un ringraziamento in giapponese, una parola utilizzata per esprimere gratitudine per il lavoro svolto dal pannolino, a cui in qualche modo ci si inchinava.

M.D.L.: Alessandra Baldoni è una fotografa che ha voluto ricamare la citazione “c’è sempre qualcosa d’assente che mi tormenta” come omaggio alla modella raffigurata nella stampa fotografica Camille Claudel e al suo destino tragico. Presso la Casa Internazionale delle Donne l’opera era posizionata accanto a un’acquasantiera, che apparteneva alla sacrestia della chiesa seicentesca lì accanto.

R.A.: Il posto era esattamente ciò di cui avevamo bisogno, non solo perché era la Casa Internazionale delle Donne, quindi un luogo istituzionale, ma anche storicamente, perché si trattava di una sacrestia, per cui rispecchiava la sacralità che noi donne abbiamo intimamente, per il fatto di sanguinare e di ospitare il concepimento.

M.D.L.: Un’altra artista che è stata coinvolta nel progetto e con cui interverremo a Bologna è Giovanna Caimmi: in “Il sangue blu delle donne” ha utilizzato un uovo di quaglia giocando sarcasticamente con il guscio, che è, sì, un oggetto fragilissimo, atto a contenere e a proteggere (legato anche alle ovaie e al corpo femminile), però, allo stesso tempo, è anche un luogo molto amato e frequentato dagli uomini, per cui sono stati raffigurati tante piccole figure in fila per entrarvi dentro.

Anche Ivana Spinelli utilizza molto l’ironia: ha realizzato una vagina in miniatura, posizionandola su un pannolino ripiegato, cosparso di macchie di sangue a pois. L’oggetto era stato posizionato sotto una campana di vetro, simile a quella dei santi di un tempo, come se la vagina fosse una reliquia da conservare. Al contempo, la campana era un oggetto molto domestico perché ricordava il contenitore dei dolci.

R.A.: Sonya Orfalian, artista armena, al contrario, è stata tutt’altro che ironica. Nel proprio lavoro ha usato una spada, che ha asserito essere quella dei Turchi. La spada, però, era inserita dentro una morsa che la teneva ferma, rappresentando la morsa che noi stessi abbiamo dentro o il ruolo della donna, che, come una morsa, attrae e tiene fermo l’uomo.

L’uomo ricondotto alla ragione e alla calma dalla donna, quasi tenuto sotto il suo controllo.

R.A.: Oltre a questo aspetto, era presente quasi un gesto di devozione da parte del pannolino, in cui si vedeva questo oggetto come se stesse inginocchiato di fronte alla spada.

M.D.L.: A me invece ha sempre fatto venire in mente un fagottino, un bambino, per cui anche questo aspetto era molto inquietante, molto legato alla storia del genicidio degli armeni. Anche nell’opera “Dry your tears” di Virginia Ryan avevamo nuovamente un’allusione: il pannolino era come se fosse un tessuto che assorbiva, in questo caso, le lacrime delle donne.

R.A.: Quest’oggetto veniva dai contenitori dei kleenex, una scultura in bronzo che conteneva il pannolino, pronto all’uso per asciugare le lacrime.

Tra l’altro, oltre a ricordare un contenitore di fazzoletti, l’oggetto avrebbe potuto richiamare, nuovamente, la forma della vagina come luogo che accoglie e protegge.

Parliamo ora di un’altra artista che ha partecipato al progetto, Paola Romoli Venturi, con un lavoro molto legato al proprio vissuto personale.

R.A.: Paola è un’artista che ho avuto modo di conoscere personalmente e che ho invitato con piacere a partecipare a questo progetto. Quando le ho consegnato il pannolino è nato un racconto personale, di cui l’artista ha lasciato traccia scritta accanto al suo lavoro. Paola possedeva già dei pannolini e li ha utilizzati per lenire le piaghe da decubito della madre, in punto di morte. Da questo progetto è venuta fuori la sua storia privata. Nel nostro progetto, infatti, non volevamo parlare solo di mestruazioni, ma di tutto, anche della morte.

M.D.L.: Il pannolino non era presente in mostra, ma solo citato attraverso la stampa, la matrice. L’oggetto pannolino l’ha tenuto l’artista, come se si fosse voluta riappropriare di una sua storia personale. Ogni artista ha inserito nel progetto una storia diversa, quasi sempre legata al proprio vissuto privato.

Ogni artista ha dunque inserito nel progetto riflessioni di vario genere, ironiche senza dubbio, ma soprattutto molto legate alla loro storia privata. L’aspetto più interessante è che il progetto è stato l’occasione, per le artiste coinvolte, per tirar fuori qualcosa della propria vita, in maniera quasi liberatoria, come nel caso di Paola Romoli Venturi.

R.A.: Era proprio questo il nostro scopo, utilizzare questo argomento per parlarne liberamente, senza retorica.

M.D.L.: Inoltre, l’idea di mettere un box all’ingresso della mostra, dove ognuno poteva lasciare la propria testimonianza, è diventato anche un modo per riprendere il vecchio discorso dell’autocoscienza femminista.

Il sangue è stato un elemento ricorrente dell’arte della seconda metà del secolo scorso. Penso all’Azionismo Viennese e, soprattutto, alla Body Art. Per esempio, nelle performance di Gina Pane il sangue costituiva una presenza centrale per approfondire tematiche relative al femminismo e al ruolo della donna. È stata presente una volontà di riallacciarsi anche a questo tipo di esperienza?

M.D.L.: Ne ho parlato nel mio testo in catalogo. In questo caso l’attenzione è stata piuttosto sul pannolino: le artiste hanno lavorato non con il sangue, ma con l’oggetto pannolino, declinando i vari significati che c’erano dietro. Nel mio testo parlo sicuramente della presenza del sangue nell’arte contemporanea e non soltanto. Noi però siamo partite dall’oggetto, per cui penso che sia stato anche abbastanza originale come progetto.

R.A.: È lontano da qualsiasi altro utilizzo del sangue. Più che il sangue, il protagonista è stato l’oggetto usato per assorbirlo. Il sangue è presente principalmente nella storia delle donne ma non solo, è una presenza importante anche il rapporto con l’uomo, come nella gravidanza. Il sangue è il nostro compagno di vita. Nel mio testo mi sono divertita a dire quanto lo abbiamo avuto vicino e quanto invece poi ce ne vergogniamo, ci soffriamo e poi ci manca da morire quando non c’è più! Pensi soprattutto a come la vita sia passata, la menopausa è sempre legata alla tristezza, alla vecchiaia, alla possibilità di non avere più figli. Quindi la donna era finita, invece le artiste hanno voluto dimostrare quanto sia divertente e creativo trattare questo tema.

Per concludere, è importante sottolineare che il progetto è stato interamente autoprodotto e questa è stata una grande forza.

R.A.: L’idea mi era piaciuta da subito e ho sentito che era una cosa che valeva la pena fare. Da giugno di quest’anno LaStellinaArteContemporanea non ha più una sede stabile, prediligendo supportare la realizzazione di mostre in sedi di volta in volta selezionate appositamente per il progetto espositivo, come in questo caso presso la Casa Internazionale delle Donne.

Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco ha avuto molto successo: il prossimo passo è dunque la Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna il 27 novembre.

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Francesca Castiglia

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