Tàpies: muri e tracce a un anno dalla sua scomparsa

“Non credo che un artista o una cultura, una volta raggiunta una certa maturità, passi necessariamente da uno spirito di inquietudine a uno spirito di ricostruzione, ormai non ci resta che accontentarci di ciò che abbiamo, e mettere semplicemente un po’ di ordine in tutto questo”.

Siamo in pieno centro di Roma, in via della Lupa, a pochi metri dall’Ara Pacis. La Gallerja, spazio che dal 2007 ha già ospitato artisti come Kounellis, Botanski e Dibbets, propone ora al pubblico una selezione di opere di Antoni Tàpies (Barcelona 1923-2012), a un anno dalla sua scomparsa.
Ecco che allora ci viene voglia di ripercorrere l’iter artistico del grande maestro.

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Tàpies vive il suo primo approccio con l’arte durante gli anni ’30, attraverso le opere di Picasso, Braque, Gris, Mondrian, Brancusi, Duchamp e Mirò. Ma il contatto concreto con la pratica artistica avviene poco dopo, secondo una modalità più intima e personale. Una malattia ai polmoni lo costringe, sin dagli anni ’40, alla solitudine di un sanatorio, condizione che lo avvicinerà alle arti visive ma anche alla presa di coscienza politica e a una profonda riflessione filosofica, alimentata dalla lettura di Marx, Nietzsche, Proust e Sartre.

Abbandonati gli studi di giurisprudenza, apre il suo primo studio a Barcellona e partecipa alla fondazione del movimento Dau al Set. Le influenze avanguardistiche emergono nelle primi lavori, di stampo surrealista e dada, influssi che perdureranno nelle opere grafiche (acquaforte, litografia e xilografia) e pittoriche fino alla prima metà degli anni ’50. I primi esperimenti dell’artista catalano sono figurativi, c’è l’ossessione per la dimensione fisica dell’autoritratto, la dimensione onirica e non mancano accenni all’astrattismo geometrico. Sullo sfondo piccoli grafismi ed elementi collaterali distraggono l’attenzione, dimostrando la voglia di misurarsi con maestri come Mirò e Klee.

Nel 1950, in occasione della prima personale alla Galleria Laietanes di Barcellona, emerge soprattutto una forte attenzione per la materia, interesse che esplode tra il 1953 e il 1954, in coincidenza con i Sacchi di Burri, gli Otages di Fautrier e le Hautes pâtes di Dubuffet.

Non possiamo però limitarci a confinare l’opera di Tàpies tra le file degli artisti informali, riuniti in questo periodo dalla concezione critica del contemporaneo Michel Tapié. Si tratta senza dubbio di un’ art autre, che promuove il materiale al ruolo di protagonista dell’opera, con riferimenti evidenti anche nei titoli. Ma il processo materico che viene attuato rimane ambiguo, sembra voler rivelare qualcosa di nascosto, quasi come ci fosse un’intenzione di cancellazione e azzeramento. Abbiamo la sensazione che, come ben detto dal Renato Barilli:

 “un’intercapedine, una distanza, uno sbarramento si erigeranno sempre, tra noi e il segreto da svelare”.

Molti critici collocano l’artista catalano tra coloro che sostengono la poetica del muro. Gli impasti pesanti, per lo più costituiti da polvere di marmo, collante e pigmenti, permettono a Tàpies di usare la superficie del quadro come una parete, uno strato pesante di materia che sembra lottare per cancellare una presenza che emana malgrado tutto, in un tentativo che rimane all’inizio goffo, incontrollato, e che poi diviene deciso e razionale. Muro come clausura, separazione, disordine e rovina, lacerazione e meditazione.

A questo proposito Giulio Carlo Argan è uno dei primi a sottolineare l’influenza che su di lui esercita la condizione oppressiva vissuta durante la situazione politica spagnola. Attraverso i suoi muri Tàpies (tapies è una delle parole che in catalano significa proprio muri) manifesta una voglia di riduzione, regresso, assenza di vita; testimonia attraverso una materia buia la sofferenza di un popolo a cui la luce viene negata. Veste le sue opere con connotati esistenziali che trasudano tragicità. Così lo definirà Kounellis:

“è figlio di Gaudí nel Giardino di Güell, e di Goya nelle pitture nere, è un uomo che coltiva il dramma e poi dipinge nel dramma […]. Parlare di A. T. è come guardare la sabbia desertica che si alza nel cielo tempestoso e, ricadendo con furia, dipinge tutto ciò che trova, di sabbia”.

I muri di Tàpies non possono però solamente essere considerati nella loro valenza materica: altra funzione che assumono è quella di prestarsi a essere supporti di tracce, impronte e gesti che emergono sulla tela come i graffiti sulle pareti delle strade. Parti del corpo, frecce e soprattutto croci appaiono con sempre maggiore frequenza sulle superfici delle opere dell’artista, tra la voglia di primitivismo e l’associazione alla segnaletica propria della comunicazione verbale. Un universo di segni sempre più ponderato e sintetico. Come afferma Argan, “la sua non è una simbologia, ma una semantica dell’angoscia”, testimonianza di memoria ed evocazione, e forse il desiderio istintivo di concedersi, in piccola parte, un’esperienza estetica.

La carriera artistica di Tàpies prosegue nutrendosi di continue esperienze espositive e di viaggi attraverso l’Europa e l’America, in una resistenza continua al regime franchista. Si confronta con le influenze contemporanee, reagisce all’happening, si relaziona alla Pop Art, alla Body Art e all’Arte Povera italiana. Anch’egli sperimenta la voglia di uscire fuori dalla superficie del quadro, confrontandosi con la messa in campo dell’oggetto industriale. Ma i suoi sono oggetti comuni e usurati (bastoni, cappelli, scarpe e scrivanie), affondano nella materia perdendo la loro parvenza oggettuale in una omogeneizzazione con i materiali freddi che li assediano, permeati di graffiti e tracce di vissuto, in una poetica oggettuale profonda e personale che influenzerà intere generazioni.

Negli anni ’80, con la fine del franchismo, l’artista espone finalmente nelle maggiori capitali europee, riceve dal Re di Spagna la medaglia d’oro per le Belle Arti e una laurea honoris causa al Royal College of Art di Londra. Nel 1984 nasce la Fondació Antoni Tàpies e nel 1997 viene allestita la sua ultima grande retrospettiva italiana nel museo Pecci di Prato. In questo caso, il contributo critico è di Bruno Corà, che anche oggi ci introduce alle 14 opere presenti in mostra attraverso “alcune qualità distintive”: l’equilibrio dei pesi interni all’immagine; l’amministrazione sapiente dei registri e l’educazione del gesto pittorico, in una sintesi di immediatezza e in una naturalezza distributiva provenienti dalla profonda attitudine meditativa dell’artista.

L’arco temporale coperto dai lavori è vasto e include opere di ciascuna decade a partire dagli anni ’60, fino al 2000. Numerose anche tecniche impiegate: inchiostro, matita, pastello, acrilico, vernice, collage, frottage, gouache e tempera; i supporti sono solo due: carta e cartone. L’assemblaggio dei materiali apre alla sperimentazione di diverse strategie compositive, unendosi alla pratica gestuale e dando vita a forme che si manifestano con prepotenza fisica agli occhi dello spettatore.

Volendo prescindere da qualsiasi ipotesi epistemologica e critica, quello che emerge, nonostante la costante variazione di materiali e tecniche da una parte, e la ripetizione di temi e forme dall’altra, è la persistenza di uno stile personale fortemente riconoscibile, unico e mutabile al tempo stesso, che cattura in forme immobili il divenire degli soggetti, rispecchiando una condizione di continua tensione emotiva ed esistenziale.

“Io faccio in realtà, meno muri meno finestre e meno porte di quanto si immagini […] queste immagini non sono mai state un fine a sé: bisogna considerarle dei trampolini, un mezzo per raggiungere degli oggetti più lontani. Tuttavia […] non cessano di essere lì e sono ben lontano ora dal tentare di farle sparire […], conservano la loro realtà senza nulla perdere della loro carica archetipa e simbolica” (A.Tàpies, 1969)

 Info mostra

  • Antoni Tàpies
  • Gallerja – via della Lupa, 24 – Roma
  • fino al 25 maggio 2013
  • Orari: martedì – sabato 11.00-13.30 / 15.00-19.30
  • www.gallerja.it
  • 06 68801662 – info@gallerja.it
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Giulia Conti nasce a Roma nel 1986. Nel gennaio 2012 si laurea in storia dell'arte contemporanea all'Università di Roma La Sapienza con il professor Claudio Zambianchi. Durante gli anni di studio lavora in ambito museale ed effettua esperienze nel campo della didattica dell'arte. Prima di terminare la carriera universitaria collabora all'allestimento della mostra di Carlos Amorales al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Trascorre in seguito due mesi a Città del Messico, dove lavora nello studio dell'artista messicano, sul quale scrive la sua tesi di laurea magistrale. L'esperienza vissuta le permette di pubblicare due articoli su una prestigiosa rivista di settore.

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