Una polaroid per Antonio Moresco. L’intervista

Antonio Moresco
Antonio Moresco
Antonio Moresco

Non avrei mai immaginato di incontrare Antonio Moresco a Latina, uscendo dal portone del Palazzo M. Come scrittore l’avevo conosciuto quando i professori del liceo, sempre a Latina, ci portarono a teatro a vedere un dramma intitolato La santa, il cui testo era di Moresco. Circa quindici anni dopo, ero arrivato con un po’ di anticipo alla sua presentazione di Fiaba d’amore (Mondadori, pp. 155, euro 12) e quello che più mi piace di questa città – me lo raccontavo anche in quel momento, per far passare il tempo – è che sembra un quadro di Giorgio de Chirico: tutto qui è spigoloso, apparentemente immobile; le persone sono come le ombre delle pareti, buie allo stesso modo. Moresco, che non c’era mai stato, l’ha definita come un «cristallo incastonato in un tempo intermedio» e be’, anche chi ci vive la sente così, chi ci muore non lo so. Quelli che iniziavano ad avvicinarsi al portone, invece, parevano capitati lì per caso, come me e come lui, che se ne stava da solo, in piedi con lo zainetto in spalla, la giacca rossa della tuta, le scarpe ammaccate come pietre. Gli stringo la mano, iniziamo a parlare.

Quando incontro di persona uno scrittore mi incuriosisce soprattutto la voce, cerco di capirne le articolazioni nell’aria, senza l’interferenza di microfoni e amplificatori, e in quale punto del suono la voce che senti e che ti inventi, quando li leggi, si incontra con quella che viene fuori dai loro corpi, quando ce li hai di fronte. La voce di Moresco è tutta scorticata, le parole gli si staccano da dentro tra uno strappo di raucedine e l’altro; ci senti la fragilità, ma anche la perseveranza, la carezza, ma anche la lacerazione, un po’ come nei suoi libri. Poi, poco prima della bella presentazione, tutto è diventato come sempre – saluti, strette di mani, sedie che si spostano, microfoni che fischiano – e nel momento in cui mi sento interrotto dal normale corso delle cose mi passano per la testa le sei domande di questa intervista a forma di polaroid, minuta e immediata, a cui Moresco risponde di suo pugno:

Hai scritto a penna libri brevi come La lucina, ma anche Gli esordi e Canti del caos, le cui stesure ti sono costate parecchi anni di lavoro. La vicinanza tra il pugno della mano e la parola che appare in un filo di inchiostro può far luce su aspetti della tua scrittura che altrimenti non emergerebbero?

“Non lo so, ma è probabile che il fatto di avere scritto a mano questi libri significhi qualcosa. Il filo di inchiostro che ti esce fisicamente dal corpo, da un piccolo strumento che è attaccato al tuo corpo, dà probabilmente alla scrittura qualcosa che è più anche psicofisicamente irripetibile rispetto a quella che appare come per astratta magia elettrica su uno schermo. Se scrivi a mano, tanto più un libro di più di mille pagine, e per molti anni, senti anche tutto l’attrito fisico di questa messa al mondo, vedi le penne che si scaricano una dopo l’altra sotto le tue dita ecc. Anche se tutto questo ti fa perdere molto tempo, perché devi poi decifrare la tua stessa calligrafia per poter ribattere tutto con il computer, e perdi molte cose, e perdi molta vita. Ma poi la perdi davvero?”

Ne Gli esordi la materia narrativa è un magma unico tra personaggi e cose che li circondano. Questa immagine di fusione ritorna in Canti del caos, dove la parola è usata per spostare ondate di corpi che si inseguono e si attraversano la carne; specialmente nella terza parte, il linguaggio sembra sfaldarsi e andare in tilt: si smonta in un vortice, diventa movimento. È come se la parola perdesse adesione rispetto alle cose e venisse utilizzata come materia pura…

“La strana particolarità di questi due libri è che sono solo le prime due parti di un’opera la cui terza e ultima parte non è ancora uscita e non è perciò a conoscenza dei lettori, che non sanno ancora dove tutto andrà a parare. Mi rendo conto di cosa questo possa significare (tanto più per un’opera che ci avrà messo alla fine più di trent’anni per nascere nella sua interezza), perché in genere uno legge in un arco ragionevole di tempo un libro che ha un inizio e una fine e quindi si può fare rapidamente un’idea del perché delle sue varie parti e di dove portano. In questo caso bisognerà aspettare il terzo volume, che si intitolerà Gli increati e che credo uscirà l’anno prossimo. Tutto questo per dire che quanto avviene nel linguaggio della terza parte di Canti del caos significa qualcosa di non completamente intellegibile (e che perciò può essere equivocabile) se non si conosce anche la terza parte dell’opera e la direzione segreta del suo generale movimento.”

Gli incendiati sembra un lapillo staccatosi da Canti del caos, La lucina si stacca da Gli increati. Pur nella loro autonomia, in ogni opera si aprono dei cunicoli da cui passano altre opere…

“Non lo so perché vado avanti così. Ma è un fatto che non ci sono compartimenti stagni tra le cose che scrivo. Quanto ai miei ultimi romanzi brevi (Gli incendiati, La lucina e Fiaba d’amore) sono nati tutti e tre in modo inaspettato, ogni volta non sapevo un mese prima che li avrei scritti, sono venuti al mondo per esigenze intime travolgenti, in poche settimane, di getto, scaturiti da zone ferite e nevralgiche della mia vita e del mondo. Tutti e tre questi libri gemelli – dove la vita e la morte non vengono sentite come limiti anche narrativamente insuperabili – sono come delle porticine che portano fino alle soglie dei libri più grandi che stavo scrivendo negli stessi anni e mesi. Si vede che le cose, dentro di me, si muovono e fermentano in modo non del tutto controllabile e programmabile, e che io come scrittore sono attraversato da forze che non mi chiedono il permesso prima di passare in modo lacerante attraverso di me.”

Al farsi intrappolare da quello che il mondo offre, quando per noi rappresenta poco, è preferibile il niente, anzi, il niente può essere una barriera che cade, una parete sfondata sull’impossibile: stare soli da soli, come più volte hai affermato, significa entrare in zone remote dell’esistenza, spinti dalla voglia di cercarsi e di riconoscersi ancora. Queste sono alcune delle strutture portanti del romanzo Fiaba d’amore, ma anche de La lucina. Come sei arrivato, umanamente e quindi artisticamente, a non pensare alla solitudine come a qualcosa di cui aver paura, ma come punto di vista per riformulare la visione del mondo e del linguaggio?

“Nella mia vita ho sperimentato molto presto la solitudine, fin da quando ero bambino e poi adolescente, sia a causa della mia particolare situazione famigliare e per essere vissuto per anni in istituti sia per la mia insuperabile timidezza e per il dolore che provavo fin dalla tenera età di fronte alla superficialità e al cinismo dei comportamenti umani. E anche dopo i trent’anni, quando ho cominciato a scrivere le cose che poi avrei pubblicato molti anni dopo, ho sperimentato una profonda solitudine e sotterraneità. Eppure, anche quando stavo male, quando non ce la facevo più a sopportare il peso della mia vita e dell’emarginazione cui ero sottoposto, il mio unico rimedio, la mia unica cura, era cercare una solitudine ancora più grande. Così certe volte partivo da solo, con lo zaino in spalla, e andavo in posti lontani dell’Italia centrale, viaggiando su corriere assieme a gente sconosciuta, oppure in località turistiche fuori stagione, in Francia, dove vivevo da solo, mi cucinavo da solo, camminavo da solo di notte in posti deserti e bui e flagellati dal vento. Non parlavo con nessuno per settimane e quando poi ritornavo a casa la voce non mi usciva bene dalla gola, all’inizio. La solitudine non è solo una condanna, può essere anche una prova; la dolorosa vicinanza a se stessi che si sperimenta nella solitudine più profonda può essere anche una cruna che ti permette di vedere qualcosa d’altro e di passare da un’altra parte. Ci vuole il buio per vedere la luce. Certe volte bisogna fare buio, bisogna accogliere il buio dentro se stessi per poter vedere una qualche lucina. E poi… non sono peggio della solitudine la crudeltà dei cosiddetti rapporti umani e sociali, tanto più in questa epoca? Lo dice bene Emily Dickinson: «Sarei forse più sola / senza la mia solitudine – », e così continua questa meravigliosa poesia che – come L’infinito di Leopardi – è una di quelle che amo di più e che mi ha confidato qualcosa di forte, di profondo e di vero che è sceso fin nel profondo della mia anima e che ho portato con me come un talismano durante la mia non facile vita:

“Sono usa al mio destino:
forse l’altra – la pace –

potrebbe il buio interrompere,
affollare la stanza –
piccola per contenere
il Suo Sacramento.

Non mi è amica la speranza
che potrebbe da intrusa
con la sua dolce corte profanare
questo luogo votato al soffrire.

Può essere più facile affondare
in vista della sponda
che alla mia dolce penisola
giungere per morire di dolcezza.”

La tua opera è stata ignorata per molti anni dall’editoria italiana, oggi pubblichi con i maggiori editori, presenti i libri in famose trasmissioni televisive, hai l’ammirazione di molti colleghi. Hai mai l’impressione che la notorietà, per uno scrittore, sia l’altra forma del nascondiglio?

“È vero, stanno succedendo queste cose: i grandi editori, le trasmissioni televisive ecc. Eppure, anche se adesso sono più in vista, a me pare di essere lo stesso di allora, di essere ancora là, invisibile, non intercettato. Sono stato per tanti anni così dolorosamente vicino a me stesso e alla ferita della mia vita che anche adesso sono ancora là. Se c’è una forza nel mio lavoro di scrittore, questa forza nasce ancora da questo difficile dono che ho ricevuto e che mi sono sempre tenuto stretto.”

Si finisce mai di scrivere lettere a nessuno?

“Spero di avere la forza, negli anni che mi resteranno, di non disperarmi mai più per l’incomprensione, la crudeltà, l’ottusità e l’ostilità di cui spesso sono stato fatto bersaglio. Nei decenni scorsi, anche se ero inerme, ho dovuto fronteggiare e combattere l’intero mondo per non soccombere e per poter far sentire la mia voce, mentre portavo avanti al buio la mia esplorazione di scrittore e la mia invenzione. Ho dovuto nello stesso tempo affrontare anche questo combattimento e stare dentro questa fertile imperfezione. Ora non so che cosa succederà quando uscirà Gli increati, ma cercherò di avere un’infinita e disperata pazienza e la forza di non rintuzzare ogni piccolo assalto e di non scrivere mai più lettere a nessuno, perché sarò da un’altra parte. Ma forse quello che succederà sarà alla fine che le lettere ai tanti piccoli nessuno diventeranno un’unica lettera a un unico inconcepibile e inesplicabile nessuno.”

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Daniele Fiacco (Velletri, 1983) si è laureato in Scienze Storico Artistiche con una tesi in Storia dell'Arte Contemporanea. Ha lavorato come assistente alla direzione artistica della galleria Furini. Scrive testi critici per cataloghi di mostre. Ha pubblicato articoli e interviste su varie testate, tra cui Flash Art, Drome, Exibart, Arskey, Artribune e Dagospia. Vive e lavora tra Latina e Roma.

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