Il Classico Torricelli. Racconto analogico del liceo più antico di Romagna

Aula di scienze. © Andrea S. Neri

“Nel corpo dell’antico palazzo rosso affocato nel meriggio sordo l’ombra cova sulla rozza parete delle nude stampe scheletriche”.

Un secolo ci separa dalle righe dei Canti Orfici, di Dino Campana, che ritraggono il Liceo statale Evangelista Torricelli di Faenza  liceo tra i più storici di Romagna e tra i più antichi d’Italia, ma le 51 fotografie di Andrea Neri, già esposte a Parigi e Faenza ed ora raccolte in un libro tutto analogico, restituiscono agli sguardi contemporanei il permanere di quelle ombre profonde, di quei mattoni rossi all’angolo tra due strade.

Luogo iconico-simbolico per eccellenza, dedito agli studi classici dal 1623 ma con sezione scientifica annessa, il Liceo Torricelli è studiato e vivisezionato da queste stampe cromogeniche di modeste dimensioni: fotografie senz’aura, che mostrano intatto il delitto della conoscenza, di quella conoscenza eccessiva, strabordante, sistematica, così profondamente inappropriata ad un’epoca dai “caratteri limitati”, e così impossibile da mantenere (nelle sue sedi, troppo care da ristrutturare, e nelle sue leve, non più integrabili nel mondo del lavoro).

Il racconto fotografico si confronta con l’apparente semplicità di questo luogo di istruzione classica, luogo di privilegiato sapere non spendibile altrove, luogo di fiera disciplina e sfrontata adolescenza, luogo delle prime proteste, dei primi viaggi e dello studio del mondo, luogo-idea di uno studio libero di essere inutile, libero di non essere che metodo. “Per imparare a studiare tutto” (come una volta si prometteva) prima che l’alunno sia chiamato a rimuovere per meglio potersi inserire nel presente, per esprimersi online in un una lingua semplice, polemica, didascalica.

I suoi sono “spazi gloriosi e normali”, in cui, nonostante tutto, si accedeva solo per anagrafe e per forza di volontà, ed in cui era lecito, seppur a fatica, dimenticare la propria estrazione sociale. Cosa non da poco, rispetto a quella territorializzazione del sapere praticata altrove, ad esempio negli Stati Uniti o in Francia (stato in cui, grazie alla sempre dibattuta – ed oggi alleggerita – carte scolaire, dal 1963 l’obbligo scolastico veicola la segregazione spaziale, potendo accedere ad una buona scuola solo chi certifica una “buona residenza”).

Il liceo è anche il luogo del mostruoso, dei selvaggi animali impagliati, delle viscere in plastica nei manichini dell’anatomista, delle pagine astruse del chimico e del filologo, dei voti insindacabili, dei versi dell’allievo non integrato Dino Campana e infine dell’allievo scienziato Evangelista Torricelli, che al Liceo presta ancora il suo nome.

“Chi mira più in alto si differenzia più altamente”: fu questa la lezione di Galileo imparata da Torricelli; ma “che ne è di tale incauta ambizione?” si chiede giustamente Emanuele Mariani, nella raffinata postfazione che conclude il libro fotografico di Andrea Neri.

E che ne faremo di un sapere non settoriale, non strategicamente specialista, non tatticamente a tempo determinato, non immediatamente traducibile in formule di salvezza economica? Che ne sarà della sintassi, della grammatica, delle declinazioni, di quelle lingue così morte eppure così ardite, cosi adeguate alla cosa, al buio e alla luce, al bianco e al nero, alla poesia e alla guerra, alla scoperta e al dolore? Che ne sarà, semplicemente, della geografia, della storia dell’arte, della filosofia, della storia inghiottita tutta intera dal principio alla fine, su quei banchi stretti di giovani intransigenti? Che ne sarà di quelle materie fondamentali che già scompaiono, faticosamente difese da pochi?

Se parlerete altrove dei metodi e dei programmi d’insegnamento utilizzati nei licei italiani, in special modo della sovrabbondanza di versi e romanzi d’altri tempi da apprendere a memoria fino allo sfinimento, giovani europei un po’ meno disoccupati vi diranno che laggiù, in Italia, “siete troppo attaccati alla tradizione”, ovvero affossati nelle vostre radici. Diranno, polemicamente, che “bisogna farla finita con il greco ed il latino” (come recita l’ironico titolo dell’articolo di Pascal Engel, pubblicato su “Libération” qualche mese fa), perché di certo non aiutano il giovane nella spregiudicata corsa al protagonismo democratico, né gli garantiscono la sopravvivenza di oggigiorno, divenuta tortuosa e macchinosa, mai affabili i toni dei suoi traghettatori. E l’istanza della saggia e democratica espulsione del latino torna nuovamente in voga per via della recente e altrettanto dibattuta Réforme du Collège, applicabile nelle classi francesi sin dal prossimo anno scolastico (e sulle lotte intestine tra pseudo-elitisti-latinisti ed anti-noia-classicheggiante, dice tutto il brillante racconto di una professoressa delle medie, Marie Cosnay, intitolato De Racine, de l’ennui et du subjonctif).

Ma la contrapposizione moderno-classico, che oggi e soprattutto altrove pare risolversi in una cronaca del quasi sempre uguale spacciata come espressione e conquista dell’attualità, non usava mostrarsi, tra quei banchi, come una dicotomia escludente, né in forma di terrore e panico per un passato da sempre straniero. Appariva, piuttosto, come un tentativo sempre in fieri, da ridiscutere nelle pagine del giorno dopo, e “l’eco dei secchi accordi” rifluiva nelle lezioni quotidiane proprio per poterne riscattare “le pretese non morte” (quelle in cui, inaspettatamente, si potevano riconoscere anche le nostre, le vive).

“Il classico Torricelli è lì a ricordare questa tradizione culturale. Una tradizione che, a differenza di quella anglosassone assai più rivolta alla specializzazione e alla creazione di settori, è fatta di scienziati-pittori, di opere di fisica che hanno rivoluzionato la concezione del sistema solare ma che s’impongono allo studio anche per il loro valore linguistico-letterario, di opere di artisti che prefigurano e anticipano le figure della geometria, la comprensione dello spazio, la pratica dell’architettura”, si era scritto, a proposito della mostra, su “Gagarin Magazine”.

E il classico Torricelli è pure lì a ricordare la scuola come uno dei luoghi più permeabili alla sovrapposizione dei tempi e delle persone che noi tutti siamo, e contemporaneamente saremo. Perché torneremo al liceo, ci torneremo da aspiranti professori, da aspiranti tutor, da aspiranti segretari, da aspiranti bidelli e infine da fotografi, studiosi osservatori pronti a cogliere in dettaglio ciò che pure è impossibile comprendere nell’insieme, quel “metodo classico” teoricamente impossibile da fotografare.

Di quest’ennesima istituzione archeologica del sapere che forse non sopravviverà alla cattiva economia italiana, Andrea Neri non ne fa un museo, né un’amara denuncia. Non ne satura i toni per commuovere l’ex allievo, o il concittadino, né divaga in cornici eccentriche, in accostamenti postmoderni. Ne fa, piuttosto, un luogo d’indagine e innanzitutto di scoperta, di meraviglia, “un luogo di precisa visione”. Tra quelle mura, ed oltre, il fotografo incontra tutti i soggetti e le materie e gli strumenti dell’apprendimento: lo studente, il custode, il professore, il tecnico di laboratorio, il pittore-grecista e infine le lavagne, i modellini, i mappamondi, le statue di marmo, i banchi di ferro, le porte di biblioteca, gli alogenuri.

La visione è accresciuta dall’ottica e dalla chimica ma resta tutta umana, e più che umana. Mantenendo il rigore dell’indagine visiva caro alla scuola emiliana dei poeti-fotografi (Luigi Ghirri, Guido Guidi), assunto con curiosità e passione sin dall’indagine sugli spazi italiani del nucleare dismesso (iniziata nel 2010 con il progetto Saluggia), Neri consegna allo sguardo il mistero di quel denso sapere che una sola didascalia, né una pronta riforma, potranno mai esaurire.

Presentato a Le Bal di Parigi lo scorso novembre, in occasione del Paris Photo, il volume Classico Torricelli è edito da Nagabbo Edizioni in versione bilingue (it-en). Inaugurata lo scorso settembre a Faenza (Palazzo Naldi), la mostra sarà invece riproposta all’Université Sorbonne Nouvelle (Paris 3) il prossimo autunno.

Visibile invece fino al 16 agosto a Villa Brandolini di Pieve di Soligo (http://www.pievecultura.it/villa.php) Sono Stato lì. Call nazionale sulla fotografia di paesaggio, collettiva a cura di Stefano Munarin e Andrea Pertoldeo promossa dalla Società Italiana degli Urbanisti, dallo Iuav, dalla Fondazione Fabbri e dall’Associazione Linea di Confine. Nella collettiva è esposta la seconda parte del progetto Saluggia (Various Nuclear Sites), che confluirà nell’Archivio fotografico sul tema del paesaggio di Pieve di Soligo (Casa Fabbri http://www.fondazionefrancescofabbri.it/fff-la-fondazione/pieve-di-soligo/).

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Dottore di ricerca in Filosofia contemporanea, s’interessa di architetture cosmiche e di terzo paesaggio, di montaggi per la vista e per l’udito, di estetica del brutto e di archeologie dell’immaginario. Di posti dove “non c’è nulla da vedere” ne scrive su un blog malfamato, dal comodo acronimo GBAPB (https://guidabellaipostibrutti.wordpress.com/). Di fatti e di finzioni, di libri o di prese visioni ne scrive altrove, quando la penna vuole. Le arcaiche passioni al bromuro d’argento le ha stipate QUI (http://www.ariannalodeserto.com/), sempre in forma di serie.

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