Torbida era Parigi… nello sguardo di Léo Malet

Malet_Le acqua torbide di Javel_pagina singola 1
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Léo Malet, scrittore francese di gialli e noir non molto conosciuto qui in Italia. Fazi, il marchio che ha il merito di averlo tradotto e diffuso sui nostri scaffali, ne ha da poco celebrato il ventennale della morte (il 3 di marzo 1996) pubblicando l’ancora inedito Le acque torbide di Javel nella collana Darkside. L’occasione – per chi non l’avesse già fatto – per imbattersi nel personaggio più famoso e frequentato di Malet: il detective privato Nestor Burma. Un campione di cinismo con un nome da fumetto (e infatti i romanzi di Burma hanno avuto varie trasposizioni nella bande dessinée, ad opera di Jacques Tardi). Una voce lucida di disincanto che è anche l’io narrante delle vicende poliziesche scaturite dall’immaginazione dell’autore.

Erano gli ormai lontani ’40 – anzi: esattamente il 1943 –; Léo, ex anarchico da Montpellier, ex surrealista (espulso), ex vagabondo, ex chansonnier, ex fattorino di articoli sanitari, ex prigioniero dei campi nazisti, insomma ex tutto, ha scoperto da un paio d’anni il modo per evadere dall’avvilente quotidiano: da quella sua torva Parigi occupata. Esorcizzandola sulla pagina. Scrivendo – o chissà: raccontandosi – le storie che lui stesso vorrebbe leggere. I diversi alias, spesso anglosassoni (Frank Harding il più celebre), con cui firma i suoi romans criminels non nascondono i modelli di riferimento: gli americani, Hammett e Chandler innanzitutto, la narrativa hard boiled, certo. Ma la penna agile e il mimetismo di Léo Malet si spingono ben oltre: vorrebbero finalmente realizzare quel «vrai film sur Paris» che nessuno ha ancora mai girato.

Mentre i surrealisti di Breton e compagnia si beano di Fantômas, mentre si ostinano a proiettare il suo spettro inafferrabile sulle macerie della guerra – forse snobbandole, forse per scordarle –, ecco allora la reazione di Malet. Nestor Burma parla l’argot reciso dei vicoli e degli operai, si muove a suo agio tra sicari ladri immigrati prostitute sfruttatori. E non si stupisce mai, di nulla. Perché Les eaux troubles de Javel, o di tutta Parigi, sono la sua acqua – il suo elemento.

Nella traduzione di Federica Angelini, Le acque torbide di Javel, del ’57, testimonia il “mestiere” collaudato del Malet-autore di genere. La sua lingua moderna, in cui trionfa l’oralità – i dialoghi, il monologo narrativo –, decisamente più vicina al nostro gusto che a quello degli anni in cui fu scritto. Che a volte gioca – quanto consapevolmente non sappiamo – con gli “standard” d’oltreoceano («Gli infissi delle finestre scricchiolavano come le giunture di un artritico», «Ma lei tremava come una foglia e dovevo evitare una rumorosa crisi di nervi» ecc.). E il suo occhio vigile, scaltrito, privo di illusioni che osserva la vita. L’occhio di Nestor Burma.

XV arrondissement, Rue de la Saïda, un caseggiato popolare nel «lugubre quadrilatero dei mattatoi di Vaugirard, il canile, l’ufficio degli oggetti smarriti», con le scale esterne metalliche a formare una gabbia verticale spazzata dai venti e due ragazzini in cortile che giocano sotto la pioggia fumando mozziconi di sigarette. È qui che ha inizio l’indagine in un desolato giorno di dicembre. A ingaggiare il detective privato Burma, titolare dell’agenzia investigativa Fiat Lux, è una donna, Hortense: vuole ritrovare il suo compagno Demessy, un ex barbone che l’ha abbandonata, incinta e senza mezzi, svanendo nel nulla. Una vecchia conoscenza per il protagonista («[…] cercavo il modo di fargli la carità senza che nessuno dei due sembrasse troppo imbecille. E tanto peggio se con i soldi che gli davo ci avrebbe comprato delle sigarette. Gli unici bei momenti (si fa per dire) che avrebbe avuto sarebbero stati quelli che si procurava da solo. Non rifiuto certo qualche spiccio a un ubriacone solo perché poi lui non ha nulla di più urgente da fare che bersi un bicchiere di rosso. Un bicchiere di rosso può essere a volte più necessario di un pezzo di pane. Dipende dalle circostanze»). Una vecchia conoscenza le cui tracce portano a un «lurido albergo» dai vetri sporchi di grasso dove Demessy si riserva sorprendentemente la stanza migliore, e indossa abiti eleganti.

Sta sfuggendo alle responsabilità di padre? Ha mollato tutto per un’altra? Oppure le cose non sono così semplici?…

Malet abita il suo intreccio con tre donne, una bislacca pitonessa, le fabbriche, i manovali, i bistrots, la gente nelle brasseries. La pensione dalle finestre unte è gestita da un arabo, è gremita di arabi (spesso ammassati in tanti nella stessa camera). A Parigi in quegli anni ci sono gli arabi qualsiasi, «quelli che lavorano nei cantieri mentre fanno i lavori più schifosi» e quelli che tra i tavolini dei caffè cercano di venderti la paccottiglia. Ma poi ci sono anche i beduini, i nordafricani dalla parlata gutturale – pure quella dei fellagha che si battono per l’indipendenza dal giogo coloniale. E la sorte di Demessy finirà per intrecciarsi coi destini di qualcuno legato ai gruppi clandestini nordafricani collegati a loro volta ai ribelli di Algeri.

L’impressione costante è quella di osservare forme accennate, sagome umane che ora compaiono, ora sbiadiscono, su uno sfondo senza colore. Raro uno scintillio, un acuto. I volti sono maschere riluttanti, avare di qualsiasi smorfia. Gli uomini e le donne – le presenze – di Malet hanno corpo e anima sfibrati, sono la vita che si trascina con indolenza e disincanto: per evitare quanto più possibile il disgusto, lo squallore profondo d’ogni giorno. In fondo Malet – e il suo “eroe degli arrondissements” con quel nome da fumetto – non è altro che questo: la descrizione di un adesso di disgrazia, di promiscuità con la sopraffazione ed il delitto. Non c’è spazio per momenti di bellezza, di equità. Nelle sue pagine non troverete la pace sorniona, tra la bocca e il naso, della nuvola di tabacco di Maigret. (Ma è questo, poi – viene da chiedersi –, che cerca il lettore di noir?).

Il confronto con Simenon, d’altra parte, è quasi obbligatorio parlando di detective stories parigine. E la differenza sostanziale, forse, può fornircela lo stesso titolo del libro: Le acque torbide di Javel. “Torbida” era Parigi nei post-bellici ’50 di Léo Malet, prefigurazione del degrado esplosivo delle banlieues attuali; stipata di diseredati ed emigranti che, tra i risvolti del gergo grugnito per le strade e fuori dei bordelli, già riecheggiava delle parlate aspre, abbaiate dei nordafricani: l’arabo dei fellagha algerini e tunisini. Una palude di cui – si è detto – Nestor Burma è parte, è il suo ambiente naturale: non è necessario che vi si lasci affondare. Burma, lontano anni luce dal personaggio di Simenon, “risolutore” dal distacco quasi olimpico nel tepore accogliente del 36 di Quai des Orfèvres, o nel rifugio domestico della signora Maigret.

Non solo: al contrario del celebre belga, Malet non ha giudizi, implicite condanne. Una narrazione amorale la sua: l’umanità non ha valore, non c’è bene perché solo il male è possibile – solo il male, o l’inadeguatezza, abita le strade –, il male è il riassunto dell’esistenza. Ed è là, e non altrove, che punta lo sguardo lo scrittore. Magari provando anche per se stesso quell’essere mancanti, incerti, inadeguati. Senza speranza. Perché non ci sarà riscatto né salvezza: né per l’anomalo clochard Demessy né per la sua Hortense, e tantomeno per la creatura che questa porta in grembo. Nessuna salvezza o assoluzione. Segnati (e però – ripetiamo – senza segni: profili solo schizzati, parsimoniosi di emozioni) gli attori e i figuranti di Léo Malet. Evocati in un copione che non splende mai per originalità, che forse troppo s’abbandona a dei canoni, a una pratica letteraria. Ma segnati dalla verità.

Alla fine della storia non cambieranno, non si redimeranno. Non emergeranno – né vorranno farlo – dalle acque torbide dei loro percorsi. La Senna li rispecchia un attimo in mulinelli di piombo. E Malet – il più asettico dei voyeurs – li snuda, li descrive, racconta i loro involucri. Di miseria e smarrimento. Niente di più. E niente di meno.

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Glottologo e lusitanista, studioso delle lingue e letterature ibero-romanze e blogger, Stefano Valente è anche illustratore e comic artist/writer. Scrivere è però la sua "fatica" irrinunciabile. Tradotto anche all'estero, nei suoi romanzi ama incrociare i più diversi generi letterari con una narrazione colta, attenta ai vari livelli di linguaggio - per «addomesticare un animale indomabile: la Meraviglia». 
Il suo titolo più recente è il thriller esoterico La Serpe e il Mirto (1978), appena uscito in nuova edizione. 
Nel poco tempo "libero" si dedica alla diffusione della narrativa breve e della microficción iberica e latino-americana curandone la traduzione nel blog Il Sogno del Minotauro (http://sognodelminotauro.blogspot.com)



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