Tra metamorfosi e sconfinamenti. Poesie di Jo Shapcott nel viaggio interiore.

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Cover

Il filo che tiene insieme questa raccolta di poesie di Jo Shapcott, Della Mutabilità, (Del Vecchio 2015) che spazia, spiazza e sconfina via via che procediamo nella lettura, potrebbe essere proprio il viaggio, inteso come spostamento interno ed esterno che l’incertezza, persino nel dolore, carica di ricchezza. La scrittura non cerca la lirica ma si sviluppa in un linguaggio lucido che riflette sull’inafferrabilità del senso della vita; nessun ripiegamento malinconico, piuttosto una consapevolezza pacata della continua mobilità ed evanescenza esterna e interna, un continuo necessario cammino su mari di frontiera con richiami alla mitologia e alla storia.

Ero sulla terra, ma la terra non apparteneva
più al mondo, le era concesso poggiare
qua e là su zolle galleggianti.
Il marciapiedi ondeggiava sotto le mie scarpe.
Tutto quel che vedevo apparteneva all’acqua:
liquide chiese, e teatri, monumenti, case,
liquido sole e cielo. Le mie mani vagavano
nell’acqua, raccoglievano acqua. La faccia rivolta
alle nuvole. Sentivo le membrane
del mio corpo tremare per il fluido
che contengono, e il flusso maestoso della linfa,
il pulsare accelerato del sangue. Il motore di una barca
vibrò attraverso la terra, le onde, i miei piedi
fin dentro il mio petto. Lenta – lentamente, salii a bordo.
(La Serenissima)

Ci si àncora sì con mani e piedi e polsi, ma all’acqua. Del resto la raccolta è occasionata da una vicenda di malattia dell’autrice, vicenda personale che traspare ma si tiene a distanza, sta sullo sfondo. Gli accenni al corpo, anche se evocano talvolta il malessere, si aprono in un percorso all’interno e fuori di sé come annientamento dei confini e della geografia, un viaggio-scavo nelle possibilità di vita e di parola.

Ci guida lo scritto della stessa Jo Shapcott che introduce la raccolta, dal titolo illuminante Confondere la geografia, testimonianza della propria riconoscenza a Elisabeth Bishop, la sua “insegnante di anti-geografia”: riconoscenza al suo mondo di sconfinamenti e disappartenenze geografiche e di linguaggio come punto di vista privilegiato e non deficitario, convinzione che Shapcott condivide e amplifica. E spesso il corpo stesso è il luogo di frontiera da cui parte l’osservazione e lo scavo per poi protendersi verso l’alto, come nella poesia che dà il titolo alla raccolta:

Troppe delle cellule migliori del mio corpo
prudono, frastagliate, inacerbite
in questa gelida primavera. È il duemilaquattro
e non conosco un’anima che non si senta piccola
nella folla. Rasa a zero.
Abbassa gli occhi questi giorni e vedrai che i piedi
non si fidano del marciapiedi e le tue analisi del sangue
incupiscono il volto del dottore.
Alza lo sguardo e con la coda dell’occhio coglierai
eclissi, foglia d’oro, comete, angeli, lampadari,
raggiungili se vuoi, impara l’astrofisica, o
il canto folk, il sacrificio umano, la mortalità,
a volare, pescare, il sesso senza toccarsi troppo.
Ma non ti preoccupare, però, di andare altro che in cielo.

Consapevole della travagliata molteplicità che ci compone (sono questa, sono quella, / inspiro e divento tutto quel che vedo) Jo Shapcott perlustra “una dozzina di copie del mio io flessibile in blu”, dodici io blu che scoprono con una minuziosa indagine la forza lancinante della fragilità:

Possono mentire i calvi? La natura della pelle dice no:
è pallida come neonata, sostanza tenera come erezione,
ogni pensiero visibile – conoscenza pura,
mente attiva – brilla attraverso il cranio.
Ho visto una donna, del tutto calva, che faceva le pulizie.
Lavava il pavimento verde, spolverava scaffali,
tutta straccio e concentrazione, regina della luna.
(Senza capelli)

E pure, lo sguardo si muove da un corpo che, colpito dalla malattia, forse proprio per questo, si fa ampiezza e lente di microscopio in uno spazio più vasto: siamo qui, a respirare smog e rassicurarci sul nostro tasso di informazioni assunte, ma là, da dove provengono quelle notizie che noi portiamo a passeggio in città, là non si può camminare se non tra incendi  e attacchi che colpiscono i sopravvissuti, e sottobraccio non c’è il giornale ma un bambino, stretto nella speranza di salvarlo.

…Sono nata in una città
dove poter girare in tranquillità per i quartieri,
portandomi dentro le notizie del giorno: foto
di soldati in posti che non volevano
capire, costretti a combattere per qualche spicciolo,
per quel che vale, per una latta di benzina.
Io vivo qui, l’odore di stampa e di cenere nel naso.
(St Bride)

Nel viaggio incontriamo poeti (Ovidio, Rilke, Puskin) e miti, perché la poesia stessa è uno slancio che dal passo fermo sulla città trasporta in volo (e ti unisci al gioco/ di splendore e dispersione / dove frammenti di poesie, / parole, nomi cadono come gloria / nei pozzi di luce a riempire / St Mary Axe fino all’orlo), e alberi molto umani, perché la natura ci avvicina ai temi della memoria e alla nostra sorte di mutevolezza e  rinnovamento, e vige una corrispondenza tra le forme di vita vegetale e l’essere umano, come osserva Paola Splendore nella postfazione che accompagna il libro. Lo squarcio offerto dall’indefinito è spaesamento ma anche possibilità di un al di là vivo e necessario. Insieme alle parole di Jo Shapcott, che così conclude l’introduzione a questa palpitante raccolta: “Confini, margini di territori e di lingua, casa e corpo, terra e acqua hanno da sempre offerto rifugi attraenti alle donne scrittrici che hanno capito da tempo che si potrebbe semplicemente lasciare entrare l’altro o setacciare ogni detrito sospinto a riva”.

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Sandra Querci. Nata a Prato, vive a Carmignano in Toscana. Redazioni editoriali, traduzioni dal francese. Dal 2012 partecipazione ai cammini di Repubblica Nomade. Con il Gruppo Grafio organizzazione di Itinerari in-versi, una lettura poetica per Lipchitz, Prato, Palazzo Pretorio (2013). Da gennaio 2015 creazione e organizzazione di Poecity - Azioni urbane itineranti di poesia, a Prato. Testi pubblicati nelle raccolte: Grafio, Laboratorio Forme 1, Attucci, 2008; Lungofiume, Quaderni di AFT, Archivio Fotografico Toscano.

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