Maurizio Cattelan e ancora Maurizio Cattelan. Nè Duchamp né Manzoni.

WC d'oro di Cattelan, al Guggenheim di New York
WC d'oro di Cattelan, al Guggenheim di New York
WC d’oro di Cattelan, al Guggenheim di New York

È tornato alla ribalta Maurizio Cattelan con la sua nuova opera America, consistente in una tazza di WC di oro massiccio che è installata nella toilette del Museo Guggenheim di New York ed è perfettamente funzionante. Come sempre di fronte all’opera di Cattelan, la prima definizione che è venuta alla mente a molta critica è stato l’aggettivo “provocatoria”, come se il discorso dell’artista fosse semplicemente dedicato ad un benevolo sberleffo dell’american way of life o del sistema dell’arte. E in effetti alcuni detrattori, legando l’opera alla Fontana di Duchamp e alla Merda d’artista di Manzoni, non hanno trovato di particolare novità l’operazione dell’artista. Ebbene, come spesso accade per capire Cattelan bisogna uscire da una semplice nozione di ironia, fosse anche ironia postmoderna. Se anche esiste un’effettiva dimensione giocosa nell’arte di Cattelan come in tutta la produzione che va dall’avanguardia a oggi, questa non è disgiunta da un discorso sotterraneo molto tagliente e denso. Come l’oro del WC, bisogna distinguere tra la confezione iper-realistica ed apparentemente concettuale e la dimensione significante della sua opera. Cominciamo dal titolo: America. Siamo di fronte a una feroce critica dell’american way of life ad una sua paradossale esaltazione, quasi warholiana, ad uno sberleffo sopra le righe? A tutte queste cose insieme?

Piuttosto a chi scrive sembra che il titolo sia più, come nella miglior tradizione d’avanguardia, una falsa pista o meglio ancora un modo di creare una tensione dialettica in modo che tra titolo e opera si crei una sorta di frattura, di crepa, luogo nella quale lo spettatore è costretto a porsi. L’opera stessa acquisisce dunque un carattere multidimensionale. Da un lato abbiamo il manufatto con tutto il suo valore auratico, dall’altro ci troviamo di fronte a uno spostamento metonimico dato dal titolo. Lo spettatore dunque è costretto a un sovrappiù di interpretazione, interpretazione che l’artista non vuole né accettare né rifiutare. Ci troviamo di fronte a un cortocircuito ermeneutico che è il centro di molte delle operazioni di Cattelan, soprattutto Him. Di fronte alle sue stesse opere, Cattelan non prende mai, come nell’arte concettuale, una posizione manifesta anzi tende a mascherare in maniera molto evidente la sua intentio auctoris. Questo non vuol dire che non ci sia un nucleo di significati disponibili nella sua opera, ma che il gioco dell’interpretazione, delegato al pubblico e alla critica, è destinato a concatenarsi e a stratificarsi senza posa. Se c’è un rimando a Duchamp è proprio questo: quando l’artista francese nel 1919 esponeva la sua Fontana, ciò che contava era innanzitutto la sottrazione del manufatto al suo contesto. Lo stesso titolo duchampiano per quello che era un comune orinatoio esigeva uno scarto semantico tra l’oggetto e la sua rinominazione. Come nelle nature morte, l’oggetto di uso comune riguadagnava il suo mistero. Di fronte alla decontestualizzazione dall’uso comune il manufatto di basso livello e di basso uso acquisiva l’aura di opera. In questo modo Duchamp allargava alla dimensione puramente mentale e non solo a quella tecnica la funzione di opera artistica.

Vivendo esattamente un secolo dopo, Cattelan conosce benissimo una tecnica comunicativa che ormai è diventata normalizzata e tipica dell’opera d’arte, soprattutto l’installazione. Però l’artista padovano non può avere la fiducia nell’avanguardia come totale decostruzione dell’attività artistica che poteva permettersi Duchamp un secolo fa. Allora il discorso duchampiano viene rovesciato da due diversi punti di vista. In primo luogo il ready made, il WC, è di oro massiccio. L’aura artistica che da Duchamp veniva fatta discendere solo dal titolo e dalla decontestualizzazione, viene riportata da Cattelan al materico e all’economico. Non si tratta di un oggetto impreziosito dall’intervento concettuale e dall’intuizione dell’artista, bensì di un oggetto di alto valore economico che entra però in contraddizione con la sua pulsione originaria. Inoltre, mentre l’orinatoio di Duchamp era regolarmente esposto nelle sale del museo come opera, e non poteva essere usato per la sua funzione originaria, il water di Cattelan è esibito nei bagni del museo e può essere regolarmente usato dal pubblico.

Marcel Duchamp, Fountain, ready-made, 1917, Galleria 291, NY (l'originale), by Alfred Stieglitz
Marcel Duchamp, Fountain, ready-made, 1917, Galleria 291, NY (l’originale), by Alfred Stieglitz

L’opus di Duchamp poneva in discussione lo statuto artistico attraverso una contemplazione, per quanto scabrosa e oscena, Cattelan mette in discussione la nozione stessa di contemplazione. Siamo di fronte a un’opera, quindi con un suo valore di scambio e un suo valore artistico o qualcosa abbassata al suo valore d’uso, cosa paradossale in quanto il manufatto è davvero prezioso. In un certo senso ci troviamo di fronte al rovesciamento dell’operazione originaria del maestro dadaista: questi innalzava l’osceno ad arte, un’operazione più volte ripetuta fino al teschio ricoperto di diamanti di Damien Hirst. L’artista veneto invece riabbassa un oggetto prezioso, per quanto di forma paradossale, alla sua funzione originaria: lo scatologico e il suo rapporto contraddittorio con la visione non è solo contemplato, ma addirittura agito. La contraddizione dunque diventa insolubile.

Ci troviamo di fronte a un oggetto artistico, che dunque esibisce una sua distanza dallo spettatore, o ad un oggetto di pessimo gusto relegato a una funzione organica? Il punto forte dell’operazione di Cattelan è che a priori la risposta alla domanda è indecidibile. Se l’opera d’arte è un enigma riguardo al suo discorso e al suo statuto lo è anche rispetto alla sua funzione. L’oro la nobilita, il corporeo la abbassa. Il titolo le dà una dimensione allegorica, la forma la riporta al suo statuto scatologico. A questa tensione evocativa del manufatto si aggiunge la possibilità per lo spettatore di usare il proprio corpo. La contemplazione non è passiva, dunque chi si trova di fronte ad America, si trova di fronte alla propria dimensione corporea, fluida, organica che neutralizza la distanza della visione. Lo statuto dell’arte diventa inscindibile dalla funzione, anche corporale, dello spettatore.

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Francesco Rosetti nasce a Roma il 7/9/1973. Laureato in Lettere indirizzo Spettacolo presso L’università La Sapienza nel 2006, ha all’attivo collaborazioni con siti di critica cinematografica (Cinemastudio, Offscreen e Reflections), con il quotidiano “Il riformista” e con diverse testate per le quali scrive di critica cinematografica e storico-artistica (sulle riviste Paratesto e Avanguardia, Monitore romano). Ha inoltre collaborato alla stesura di volumi collettivi, firmando saggi sul cinema francese e inglese, sul cinema italiano, su Pasolini e la violenza e di arti visive.

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