Anche l’arte può essere interstellare

Mario Samonà - Energie, acrilico su el, 2001
Sonda Cassini-Huygens, foto del satellite Titano, Nasa 2017.

La Sonda Cassini-Huygens è in viaggio nel sistema solare dal 1997. La sua missione robotica interplanetaria è stata definita “una delle più spettacolari e ambiziose imprese nella storia dell’umanità”. La stampa ha in questi giorni diffuso alcune recenti foto che la Sonda ha trasmesso alla velocità della luce dalla siderale distanza di tre miliardi e più di chilometri.  Sono nitide e bellissime. Eppure non so se hanno emozionato quanti, frastornati da polemiche e faccende terra a terra,  non si interessano al cosmo in cui siamo immersi e in cui orbitiamo. La cultura, anch’essa spesso terra a terra, non incoraggia a farlo, né a trarne ispirazione per un  arricchimento visivo e concettuale (riflettere sull’immenso aiuterebbe invece a relativizzare molte cose…). Eppure, l’arte ha sempre integrato elementi cosmici – atmosfere, volta celeste, sole, luna, astri, stelle… – senza i quali scene, vedute, paesaggi e composizioni non avrebbero avuto respiro, pathos e valenza simbolica. Molti anni fa lo studioso Warren Kenton illustrò alcuni aspetti storico-artistici di siffatto Celestial Mirror.  Che ne è dello specchio celeste nel percorso dell’arte moderna?

In Italia, possiamo volgerci agli studi di Giacomo Balla, databili del 1914, sui vortici spaziali e, soprattutto, quelli per Orbite celesti, La costellazione di Orione e Mercurio passa davanti al sole visto nel cannocchiale. Questa ultima opera, comportava la scritta Compenetrazione dell’io con l’universo. Più tardi, l’aeropittura fu una esperienza pittorica assai singolare, ma i suoi artisti guardarono più dall’alto verso dinamiche e spazi terrestri che dal  basso verso  quelli celesti. E poi?… Il solo artista ad avere dedicato dagli anni Cinquanta al 2007 – data della sua morte (era nato nel 1925) – l’intero suo lavoro ad una poetica cosmica prefigurando, indagando e accompagnando con la sua pittura alcune poderose scoperte della astro-fisica e astronomia,  è stato Mario Samonà, detto Pupino.

Approdato a Roma dalla Sicilia nei primi anni Cinquanta, Mario Samonà aveva visitato Balla nel suo studio grazie a due altrettanto speciali personaggi – Emilio Villa ed Ettore Colla del gruppo Origine –, i primi a riscoprire Balla nel dopoguerra e a parlarne nella rivista “Arti Visive”. Samonà, allora giovanissimo, aveva già intrapreso delle ricerche (dipinti, disegni, bozzetti) su ‘eventi’ di spazi e materia, e nella ‘compenetrazione dell’io con l’universo’ di Balla aveva trovato ispirazione al suo indagare. Ma ben presto, dal concetto di  compenetrazione soggettiva, passerà alla resa pittorica di eventi contemplati nella loro immanente complessità, e nel corso degli anni andrà ben più lontano d’ogni altro artista (non solo italiano) in questa impresa pittorica. Lo sostennero con alacri discussioni vari amici scienziati – Marcello Beneventano, Luigi Campanella, Antonio Bianconi – che non mancarono di scrivere sul suo lavoro, come non mancò di scrivere sulla sua opera tutta una generazione di critici e storici dell’arte (Emilio Villa, Filiberto Menna, Giuseppe Gatt, Cesare Vivaldi, Maurizio Fagiolo, Enrico Crispolti, Fulvio Abbate, Achille Bonito-Oliva, Lorenza Trucchi, Marisa Volpi, Simonetta Lux e altre e altri ancora olre la sottoscritta), e non mancarono tante mostre, anche antologiche (Pupino Samonà, 50 anni di ricerca, al Vittoriano, Roma, 2004).

In una poesia, Mario Lunetta sintetizzò allora così l’iter del suo amico pittore :

“(…) un siculo kirghiso/ che rifà l’universo e vi si perde /(…) un acrobata del tempo e dello spazio/ gioca la sua partita/ & la vince…”.

Samonà non ha vinto la sua partita sull’odierna amnesia di un mondo dell’arte in ostaggio della logica tutta terrestre del mercato, e dalla prospettiva del solo presente e del sempre nuovo (talvolta per nulla nuovo). Ma l’ha vinta su un altro versante. Oltre a lasciare un’opera compiutamente coerente e bella, resta il fatto che laddove Scienza & Tecnologia sono arrivate con sofisticatissimi studi e macchinari, l’arte stava già perlustrando gli spazi interstellari. Esempio non da poco per la plurimillenaria storia del rapporto tra arte e scienza, e per quel concetto junghiano di ‘inconscio collettivo’, da estendere ormai all’universo tutto.

Sonda Cassini-Huygens, foto del satellite Titano, Nasa 2017

I primi soli/cerchi/pianeti – all’inizio neri e bianchi –  Samonà li dipinse a partire dal 1955. Poi, pur proseguendo ancora certe sue ricerche su energie e materie telluriche, si volse sempre più allo specchio celeste. Prima ancora di vedere le immagini  inviate su terra da Voyager 1 e 2 (entrati in opera nel 1977) e senza poter vedere quanto fotograferà in questi ultimi dieci anni la Sonda Cassini – ma pur sempre appassionandosi a quanto man mano l’astrofisica scopriva e mostrava sul mondo interstellare – elaborò composizioni di spazi, curve, astri,  orbite, materie, abissi, rifrazioni, fonti di energie e luci, e paesaggi primordiali che spesso prefigurarono quanto si andava davvero vedendo. Come scrivevano i suoi amici scienziati, non si trattava per lui di illustrare tutto questo (la Nasa ha i suoi bravi artisti-divulgatori per farlo), ma di rendere visibile, con l’arte e nell’arte, una cosmogonia nel contempo reale e visionaria. Per realizzare le sue opere, Samonà, aveva elaborato tecniche e materie speciali che, con l’uso dell’aerografo a spruzzo da lui inventato, permettevano di  ottenere tonalità soffuse, colori intensi, aloni e luminescenze, profondità siderali. Per la sua pittura si è parlato di “figurazione del cosmo”, ma potremmo anche – in quanto a stile e pathos – evocare il concetto di Abstract Sublime come enunciato da Robert Rosenblum.

Impossibile qui illustrare il ricco e variato percorso pittorico di Samonà. Se sorprende che siano stati in pochi a volgersi – per dirla con Margherita Hack – “ai nuovi paesaggi interplanetari che la scienza spaziale ci ha offerti”, riconforta che almeno lui lo abbia fatto. Oggi, che in tanti celebrano la spettacolare impresa della sonda Cassini-Huygens esaltando l’onnipotenza di Scienza & Tecnologia, la sua pittura ci consente di dire che l’umana visione e l’immaginario creativo possono anche loro viaggiare alla velocità della luce. Per un ampiamento d’orizzonte dell’arte e della cultura non è cosa da poco.

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Toni Maraini (nome d’arte di Antonella Maraini), scrittrice, poetessa, storica dell’arte e studiosa del Maghreb. Dopo gli studi e la laurea in storia dell’arte (Inghilterra, Usa, Francia), vive tra il 1964 e il 1986 in Marocco, dove svolge ricerche, insegna (Università di Rabat), pubblica vari libri e dove, nel 2008, le è stata conferita La Palme de Marrakech per i suoi scritti sull’arte. Ha presentato arti e artisti d’Africa e Maghreb in vari Musei (tra cui New York, Parigi, Grenoble, Bruxelles, Barcellona, Linz, Roma e in Nord Africa) e a ‘Documenta’ di Kassel (2007). Dal 1987 vive in Italia, dove ha pubblicato numerosi libri (narrativa, poesia, storia, saggistica). Ha collaborato a riviste e antologie, pubblicato testi critici su artisti italiani e stranieri, collaborato con artisti (libri d’artista). Impegnata nell’ambito di attività e studi su, e tra, le culture del Mediterraneo, ha tradotto e presentato anche poeti, scrittori, scrittrici. Collabora con vari testi di creazione e con studi e saggi (arte/storia, rapporto Oriente/Occidente, modernità/post-modernità/globalismo) a riviste, antologie, e pubblicazioni universitarie straniere.

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