Bob Dylan: una lotta contro il tempo

Perché il Nobel per la letteratura nel 2016 è stato assegnato a Bob Dylan, un cantautore, e non a un vero poeta o a uno scrittore? Lo meritava oppure no? Perché proprio a un americano? Perché a lui e non a Don De Lillo o magari a Philip Roth, il quale non solo è americano ma anche ebreo come Dylan e per di più è un vero scrittore?

immagine per Bob Dylan
Bob Dylan

Forse i critici dell’Accademia di Svezia si sono lasciati influenzare da considerazioni politiche? Ma lui, Dylan, è di destra o di sinistra? Nella motivazione è scritto: “Per aver creato nuove forme di espressione poetica all’interno della grande tradizione della canzone americana”, una motivazione molto semplice e chiara, seppure riduttiva, che però non è riuscita a placare le infinite polemiche suscitate dal caso.
Polemiche alimentate poi dalle accuse di arroganza e snobismo che si sono succedute quando ha tardato a ringraziare e poi non è andato di persona alla cerimonia di ritiro del premio e altre sgarberie.

Molti ancora si lamentano che la voce gli è crollata, ormai mugugna e guaisce e nulla più, dicono. Ha smesso quasi del tutto di comporre, si è macchiato di plagi qua e là, canta canzoni di Frank Sinatra e carole natalizie. Alla fine si chiedevano: cosa c’entra Bob Dylan con la letteratura?

Dopo pochi mesi però si sono rassegnati al fatto compiuto e molti detrattori della prima ora hanno cominciato ad osannarlo, cavalcando l’onda lunga del conformismo. Sui giornali, in Tv e sui social sono apparsi titoli come: “Al Mandela di Firenze Dylan ha tenuto un concerto da Nobel”, oppure: “Finalmente il premio Nobel Bob Dylan torna in concerto a Roma”.  Come se il valore artistico delle sue canzoni dipendesse principalmente da quel premio, mentre sarebbe molto più interessante occuparsi di quali siano in concreto e da dove provengano le ‘nuove forme di espressione poetica’ create da un musicista/poeta che ha influito come pochi altri su tutta la letteratura occidentale del secondo novecento.

Un fiorire di argomentazioni pro e contro, un dibattito sempre più acceso in occasione di eventi che lo riguardano, pareri e discussioni a volte anche interessanti, che sarebbe ingiusto trascurare. Però, dopo averlo visto all’Auditorium di Roma, era difficile sfuggire all’impressione di avere di fronte un fenomeno al quale è bene avvicinarsi con un diverso atteggiamento mentale.

Perché al di là dei concerti in sé e della la loro qualità, conta di più quello che queste esibizioni rappresentano. Non solo perché i singoli eventi passano in secondo piano quando si ha a  che fare con un personaggio intorno al quale è stato creato un mito, tanto più tenace quanto più Dylan stesso tenta di sottrarsi alla propria mitologia.
Ma perché lo spettacolo di quest’uomo palesemente anziano, affaticato eppure irriducibile, intento a cantare nei limiti che le sue corde vocali gli consentono e a reinterpretare le sue canzoni per l’ennesima volta fino a renderle spesso irriconoscibili e a volte lasciando nel pubblico l’impressione di ascoltare un’unica sterminata canzone, un work in progress che dura da più di cinquanta anni, assistere a questo spettacolo è come trovarsi di fronte all’incarnazione vivente di un’utopia artistica.

Un’utopia che prescinde completamente da considerazioni legate all’attualità. Perché a ben vedere Dylan si è sempre tenuto lontano dall’attualità, per fare invece dell’inattualità la sua costante fonte di ispirazione artistica, nonché, già dalla giovinezza, un atteggiamento costante nei confronti del mondo.

Molti di noi per alcuni decenni hanno subito e tentato di comprendere il fascino di quell’ipnotico mix di parole in rima cantate, strascicate e deformate al limite della stonatura. Abbiamo letto anche le note pubblicate sulle copertine dei dischi: quei testi contenevano immagini poetiche e verità ambigue, in parte intuibili e in parte misteriose. E quel mistero doveva per quanto possibile essere interpretato o semplicemente accettato così com’era.

Poi, disco dopo disco, concerto dopo concerto, attraverso un’infinita serie di sperimentazioni stilistiche e cambiando continuamente generi musicali, ha cominciato a prendere forma coerente il senso di questa utopia artistica. Perché fin dalla giovinezza si è impegnato in una sfida contro il tempo, contro una presenza costante della morte che negli anni sessanta trovava la sua massima espressione nella minaccia della guerra nucleare e in seguito in una visione apocalittica del destino del mondo, una visione  che non lo ha mai abbandonato.

Una battaglia contro il tempo lineare e il suo scorrere implacabile e ingannevole, contro le mode, la loro futilità, le ideologie vuote, le morali fasulle, gli amori idioti, l’inutile lotta contro il destino e la falsità e la mediocrità al potere, gli inganni e le manipolazioni che offuscano la mente e impediscono di vedere cosa davvero è reale.

Il tempo e la fine del mondo compaiono quasi ossessivamente in tutte le sue canzoni. Ah, but I was so much older ythe/I’m younger than then now, ‘Ma ero molto più vecchio allora, sono più giovane adesso di prima’ (My back pages),Then take me disappearin’ through the smoke rings of my mind/down the foggy ruins of time,‘Fammi sparire tra gli anelli di fumo della mia mente, tra le rovine nebbiose del tempo’ (Mr. Tambourine man), Inside the museums infinity goes up on trial,‘Dentro i musei viene messa sotto processo l’eternità’ (Visions of Johanna), If the Bible is right, the world will esplode (…) the next sixty seconds could be like an eternity, ‘Se la Bibbia ha ragione il mondo esploderà (…) i prossimi sessanta secondi potrebbero durare un’eternità’ (Things have changed), This land is condamned/all the way from New Orleans to Jerusalem, ‘Questa terra è interdetta, da New Orleans fino a Gerusalemme’ per approdare a Time out of mind, un disco del 1997, costellato di canzoni quasi tutte evocanti un’atmosfera sepolcrale, un disco che qualcuno ha tradotto con ‘poesia del tempo immemorabile’.

Ma c’è dell’altro. Quando scrisse Tangled up in blue, una canzone del ’75, la sua idea era che una  canzone deve poter essere vista come un quadro, nel suo insieme e nello stesso momento. Per ottenere un simile risultato è necessario rivoluzionare la percezione comune del tempo. Questa utopia artistica, come si capisce dai testi di molte altre  canzoni e da alcune delle sue rare dichiarazioni pubbliche, sembrava più che mai prendere forma sul palco dell’Auditorium.

Le movenze rigide, a volte goffe, la voce malata seppure capace come sempre di un’infinita gamma espressiva, stavano lì a testimoniare un declino vissuto orgogliosamente, testardamente. Incurante di chi gli sta intorno, se non dei musicisti che devono svolgere l’arduo compito di accompagnarlo. Perché la lotta contro il tempo è anche, da sempre, una lotta contro i tempi, contro il ritmo delle canzoni, caratterizzate nel modo di cantare da  rallentamenti, accelerazioni improvvise e scarti imprevedibili a ogni esibizione dal vivo.

Le reinterpretazioni stanno lì a significare che il suo mondo artistico, poetico e musicale, non può essere fissato una volte per tutte, perché in quel caso sarebbe come morto. Si può discutere e ipotizzare se questa visione dell’arte e del tempo sia influenzata da Nietzsche, Bergson e Proust o da Keats, uno dei tanti suoi geni ispiratori, insieme a Blake, Ginsberg, Rimbaud e molti altri, o sia semplicemente dovuta a vicende personali.  O dalla morte di tante giovani rock star.

Si tratta di ricostruzioni biografiche e ricerche accademiche che diversi studiosi su scala mondiale hanno già intrapreso e che dopo l’assegnazione del Nobel per la letteratura si stanno moltiplicando. È però forse più interessante assistere alla lotta contro il tempo di quest’uomo ormai settantasettenne che pare avere deciso di consegnare al mondo il suo ego gigantesco, forse umanamente poco gradevole, capace però di contenere un intero universo: il suo repertorio va dall’amore/disamore fino alle giravolte del destino e alla più feroce disillusione verso la società, la politica, le convenzioni sociali e ancora oltre verso gli esseri umani e, alla fine, pare, verso la vita stessa. “Tutti dobbiamo morire, questo è quello che davvero conta” disse a un giornalista di Time quando era poco più che ventenne, oppure “La morte ti sta accanto ogni mattina, seduta al tavolo della prima colazione”, aveva detto in un’intervista degli anni settanta. Is not dark yet, but it will be soon, ‘Non è ancora buio, ma presto lo sarà’,(Not dark yet), Well my ship’s been to splinters and it’s sinking fast/I’m drownin in the poison, got no future, got no past/But my heart is not weary, it’s light and it’s free/I have got nothing but affection for all those who’ve sailed with me, ‘La mia nave è andata in pezzi e affonda in fretta. Affogo nel veleno, non ho futuro, non ho passato. Ma il mio cuore non è stanco, è libero e leggero, non serbo che affetto per chi ha navigato con me’, canta in Mississippi, dove sembra che il confine tra la vita e la morte sia stato cancellato nel mondo della ‘poesia di un tempo immemorabile’.

immagine per Bob DylanL’utopia artistica diventa un’utopia esistenziale, sembra cantare come se fosse già altrove, ed è grazie a questa utopia che la morte è solo una porta che si apre su un corridoio infinito, una maschera,  questo pare di capire dalle sue canzoni e da come si presenta al pubblico. A un giornalista che gli chiedeva in quale  religione credesse, ha risposto: “Io credo solo nelle canzoni folk”, riferendosi a quel mondo arcaico che andando indietro nel tempo risale addirittura al tardo medioevo, quello delle ballate popolari e delle  leggende inglesi e irlandesi, che raccontano di navi maledette, guerre insensate, amori demoniaci e donne con teste di cigno, un mondo fantastico, quello che Greil Marcus, noto studioso di Dylan, ha definito ‘la repubblica invisibile’.

Dylan sembra deciso ad orientare la propria vita come un viaggio che col passare degli anni appare sempre più un ritorno in direzione di una patria immaginaria alla quale si sarebbe voluti appartenere, un viaggio a ritroso che ultimamente lo ha condotto a cantare le canzoni di Frank Sinatra ma che affonda le sue radici molto più in là.

Un mondo che si cerca di raggiungere scavalcando il tempo,  pensando di potere attraverso la propria arte sopravvivere a qualunque morte. Ma credere in questa utopia è certamente una forma di fede religiosa. Una fede tanto più solida, nel caso di Dylan,  quanto più appare falsa e irreale la vita che viviamo noi esseri mortali, condannati a conformarci a quel minimo necessario di convenzioni sociali per sopravvivere e non essere schiacciati dalle infinite mutazioni del sistema.

Quando un giornalista gli chiese se per comporre i testi surreali o visionari, alla Dylan Thomas, di molte sue canzoni degli anni sessanta avesse fatto uso di allucinogeni o altre droghe, rispose: “Io mi limito solo a descrivere ciò che vedo intorno a me. Non ho inventato nulla”. Una sorta di realismo visionario. La realtà che lui vedeva e vede intorno a sé gli è sempre apparsa dominata dalla follia e destinata alla rovina. Ha sempre e solo cercato di fuggirne lontano, dopo un periodo giovanile nel quale si era posto l’arduo compito di giudicarla. Un compito del quale si è stancato presto.

Dylan non si adegua, è riuscito ad approfittare del successo senza pagarne tutte le conseguenze e più di una volta ha tenacemente fatto di tutto per non essere apprezzato da coloro che ne avevano decretato il successo.

Ha poco senso quindi chiedersi se ha cantato bene o ha cantato male, se e quanto abbia meritato il premio Nobel – che lui stesso ha coerentemente dimostrato col suo comportamento di considerare non particolarmente importante – oppure accusarlo di snobismo o arroganza, quando nei fatti è evidente che quest’uomo vive su un altro pianeta.

Un pianeta dove si è soli, nel quale il tempo e lo spazio sono regolati diversamente e forse non esistono, dove anche la forza di gravità non è la stessa. Ha scritto una canzone, I’m not there, che vale anche come una dichiarazione di intenti. La musica e la voce, perché i testi alla fine sono solo funzionali a un insieme armonico ed espressivo che ne moltiplica il senso, sono il veicolo privilegiato per viaggiare dentro quella solitudine fino ad atterrare lì.

Un luogo dal quale è difficile tornare indietro: Emptiness is endless, cold as the clay, you can always come back, but you can’t come back all the way, ‘Il vuoto è infinito, freddo come l’argilla/si può sempre tornare indietro, ma non da dove sei partito’, canta in Mississippi, e questo vale anche per chi ascolta la sua musica e i suoi concerti. Un pianeta che si può tentare di esplorare per brevi momenti quando lo si ascolta, a patto di tenere ben presente l’insieme dell’opera di Dylan come un unico fluire ininterrotto da più di cinquant’anni.

Come un enorme quadro, un lungo affresco. Quando ci si riesce è qualcosa che ti segna, è difficile tornare indietro. Come una cicatrice perenne. Forse è l’unico modo per comprendere una visione della vita e dell’arte che si può non condividere, ma certamente complessa e stimolante come poche.

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Sergio Kraisky, romano, di formazione sociologo, insegna italiano agli stranieri da molti anni. Collabora con la Biblioteca comunale Cornelia dai primi anni del secolo come operatore culturale, dove tiene corsi di scrittura narrativa/creativa e corsi di cinema e letteratura. Ha pubblicato numerosi racconti in antologie sul giallo e il noir, una raccolta di apocrifi sherlockiani e il romanzo di fantapolitica 'Animali da cortile' (deriveapprodi). Per alcuni ani docente a contratto presso la Facoltà di Scieze della comunicazione, La Sapienza. Da una vita studia il caso Dylan.

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