Le Città Invisibili di Italo Calvino. A teatro dove mutano le forme delle città

immagine per Le città Invisibili
Foto Claudio Drago

La città è, da sempre, il simbolo dell’umano. È “città degli uomini” quasi per definizione. È quel luogo nel quale, scriveva Aristotele nella Politica, soltanto un Dio o una bestia è impossibilitato a dimorare. Tale peculiare e costitutiva qualità umana, appare intimamente intrecciata all’essere l’uomo un animale simbolico, e il privilegio del linguaggio, per dirla con Cicerone, è ciò che fonda la dimensione stessa della societas proprio in virtù dell’utilizzo della parola. L’uomo, dunque, è colui che abita la città e, al contempo, abita il linguaggio, e la nozione stessa di humanitas sembra essere indissolubilmente intrecciata con la civiltà della polis, che è anche civiltà della parola e della scrittura.

E qui, forse, già si potrebbe rinvenire una traccia, un senso possibile che permetta di orientarci nel testo di Italo Calvino, Le città invisibili, nella messa in scena del regista Ivan Vincenzo Cozzi, presso il  Teatro Sala 1 di Roma, se stiamo anche alle parole che lo stesso Calvino ha voluto premettere al proprio testo: “Che cosa è oggi la città, per noi? Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili […] Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici“.

Cosa è, ci chiediamo, che svanisce, che intristisce, e cosa è quel senso incerto e cupo di un incipiente e definitivo tramonto? Muoiono le città, e muore anche l’uomo e il senso dell’umano, forse? Il racconto che Marco Polo porge a Kublai  Kan, imperatore dei Tartari, interpretato da un Alessandro Vantini quanto mai efficace nel suo umbratile e perplesso meditare, reca in sé il senso di un ammaliante e dolente epitaffio.  Se la giovane Shahrazād, ne  Le Mille e una notte, narra per non morire, certa del potere salvifico della parola, qui la parola di Marco Polo pare svelare, a questo imperatore melanconico, sempre più straniato e incapace di riconoscere i luoghi del proprio Impero, percepito come sfacelo informe e senza fine, un destino di irreversibile eclissi e  declino.

Ognuna delle città raccontate, 15 delle 55 del testo di Calvino, nella messa in scena di Cozzi, è parte di una categoria più ampia (Le città e la memoria, Le città e il desiderio,  Le città e gli scambi, etc.) entro la quale trova un compiuto significato, attraverso un sottile gioco di antitesi e reciproci rimandi e rispecchiamenti: Valdrada, costruita in modo che ogni suo punto sia  riflesso dal suo specchio; Sofronia, composta  da due mezze città; Eusapia, i cui abitanti hanno costruito una copia identica della loro città sottoterra.

L’universo delle città, nel mentre comincia a svelarsi, quasi come una epifania, al Kan-Lettore, si dissolve e si vanifica nella stessa parola del Narratore Marco Polo: “E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio“.

Ecco, dunque, che la dimensione stessa della temporalità, della memoria, nel dispiegarsi caleidoscopico della narrazione, è, sempre, “tempo perduto” e perpetua metamorfosi, che riduce il desiderio a ricordo di qualcosa di già avvenuto, di già vissuto altrove. Forse in un’altra città, all’interno di  un gioco di continuo rimando e sdoppiamento, di specchi che riflettono altri specchi. Tale temporalità, tuttavia, sembra rapprendersi e rigenerarsi nella parola che narra e la scelta del regista di voler dissolvere e frantumare la figura del narratore Marco Polo in tre figure femminili, quasi archetipiche, pare suggerire la natura corale, arcaica, ancestrale ma anche sfuggente e impersonale del raccontare: la parola e il linguaggio prendono vita con l’uomo  ma lo abitano e lo raccontano.

È forse il linguaggio che parla attraverso di noi, che ci parla della nascita, della vita, del morire e che, nominando le cose, generando segni e simboli, crea una vita oltre la vita, ci fa vivere nell’immaginare, nel trasfigurare, nel sublimare la realtà vera e fisica delle cose: le immagini relative al “gigante tatuato”,  alle “gemelle vestite di corallo” alla “cortigiana col ventaglio di piume di struzzo” nella città di Cloe, appaiono più vive, nel loro cangiante  nitore, della vita stessa, effimero ma anelato rimedio contro  l’irridente caducità di ogni cosa.

Calvino ha insistito sull’idea della città come luogo del desiderio, ma la stessa letteratura, come arte del racconto, appare attraversata e scandita dal desiderio di voler racchiudere il complesso della esperienza umana entro i confini del discorso e del linguaggio. Tutta la realtà e la verità trova quindi posto entro le mura delle città e del linguaggio, al contempo, all’insegna di una costitutiva duplicità del raccontare: ora in quanto meccanismo convenzionale di segni, ora come analogo  del mondo. L’universo dei segni, dei simboli, del linguaggio è ciò che può sostituirsi alla vita, fingerla ma anche svelarla, e questo progressivo sfumare delle città, il loro intristire, costituisce anche il segno di una lingua che ha perduto ormai ogni riferimento alle cose, alla realtà: “L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d’acqua, il fiore dell’ibisco la fine dell’inverno […] L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose“. Ecco, dunque, il linguaggio che insegue sé stesso, come in una galleria di specchi, parole che parlano di altre parole.

Cosa resta, infine, in questo implacabile e lento trascorrere? Forse la gioia del racconto, la potenza delle parole che divengono gesto, efficacemente resi dalle tre protagoniste femminili, Roberta Lionetti, Brunella Petrini, Mariachiara Vigoriti, più che mai convincenti  nell’alternare una ieratica trance del narrare a un dire  giocoso e fanciullesco. Le musiche ipnotiche e suggestive di Tito Rinesi, i costumi ideati da Marco Berrettoni Carrara e le scenografie di Cristiano Cascelli contribuiscono alla creazione di un fascinoso amalgama di parola, gesto, suono, evocatore di memorie, presenze, odori e voci. La vocazione teatrale del testo di Calvino, grazie anche alla significativa silloge trattane, è stata qui ben colta, nel suo essere radice e principio del ridestarsi e rifiorire dei vivi e dei morti.

Cosa resta, allora, di quell’ umano abitare lo spazio delle città? Forse la parola, la letteratura, il teatro, ovvero  l’ invenzione dell’umano:  “Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte, la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti”.

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Sono nato e cresciuto a Roma, luogo dell’anima, dove amo passeggiare senza apparenti finalità. Svolgo, ormai da anni, attività di docenza presso l’Università di Roma Tre, attraversando tematiche di matrice filosofico-letteraria, con un costante interesse per i linguaggi delle arti e le loro implicazioni educative ed emancipative. Tra le mie pubblicazioni (monografie, saggi, articoli), alcune sono esplicitamente dedicate al teatro e all’educazione estetica. Passioni dominanti: Shakespeare, Dostoevskij e Camus, il blues e il jazz, la chitarra di Eric Clapton, la voce di Nina Simone, le Variazioni Goldberg, i classici greci e latini, il cinema (Lang, De Sica, Bergman, Losey).

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