Chorus. La scultura di Angela Maria Piga. Contributo di Marco Capua

“Non li vedo da due giorni e già mi mancano”, dice Angela Maria Piga entrando con me nel suo studio, e accidenti un po’ è vero: anche io, che queste sculture avevo visto qualche tempo fa, ho come la sensazione di un festeggiamento in corso, che riguarda tutti e dunque anche me, quasi il clamore di un’accoglienza viva, tutta mossa, e felice. Poi dici la scultura: dovrebbe starsene lì, immobile, sapere di eterno, funzionando come un nostro trascendimento, come una possibile consolazione della nostra finitezza, e invece in questo momento non riesco a immaginare nulla di più antitetico al lamento che sfuggì al massimo scultore del ‘900 italiano, Arturo Martini.

La scultura lingua morta? Macché, almeno qui dentro, acquattata nello studio di Angela, è confidenziale e vispissima, agitatissima, gesticolante, vociante, una cagnara allegra/triste, e profonda, credete a me, di gesti e di colori. La bolgia, l’assalto, l’assedio, sono le parole che all’inizio mi aveva ispirato questo popolo di esseri piccoli, popolo complice, compatto, assai prolifico, esercito numerosissimo che basta un niente e ti circonda, e ti chiede ascolto.

Approdo si intitola invece questa prima mostra da scultrice di Angela, sbocco di un percorso di oltre un anno, e così vai a vedere un po’ di etimologia e significato  della parola e leggi che vuol dire giungere a riva, o risultato positivo di un’azione e punto di arrivo di un’esperienza e, da proda ovviamente, sponda e riva, e fin qui ci siamo.

Ma anche, dal tedesco e dallo scandinavo antico: bocca. Me lo scrive Angela in un whatsapp pieno di punti esclamativi, aggiungendo di avere un bisnonno svedese e teosofo, Gustaf Kollerstrom, come a sottolineare (anche se con me non ce n’è affatto bisogno) che tutto torna, in fondo, che i cerchi qualche volta si chiudono sprigionando senso, significati, fatalità, destini.

Ovviamente, lo vedete anche voi, qui ci sono un sacco di bocche aperte, bocche da assetati, che reclamano acqua, bocche storte, in una specie di smorfia, magari, vallo a sapere, di dolore, o bocche che vorrebbero parlare, perfino gridare, forse cantare. Tenerezza e sforzi vani delle immagini dipinte o scolpite: succede di tanto in tanto che gli prenda la voglia di aprire bocca ed emettere suoni, che però noi non possiamo udire, se non nella nostra immaginazione, benché mai urlo fu più acuto e ondeggiante di quello di Edvard Munch, sul pontile.

Ma non è quella bocca che adesso mi viene in mente, perché c’è qualcosa di mite e arcaico in queste piccole figure che – non vanamente, ora accettiamolo – aprono bocca e in coro spargono nell’aria silenziosissimi canti e voci, non è quella bocca disperata, né quella che la seguì come un’eco furibonda, dai volti dei Papi ingabbiati da Francis Bacon, ma quella dell’uomo che canta di Ernst Barlach, quella pace lì mi viene in mente, quella tenacia, addirittura autoironica, di un’azione inevitabile, che vuole svolgersi a dispetto di tutto. Perché canti? Perché sì! La bocca gioca davvero un ruolo importantissimo in questo lavoro. E’ l’elemento generatore, il minutissimo, concentrato big bang di ogni scultura.

Comincio sempre da lì”, conferma infatti Angela Maria. Quando lei risponde alle mie domande, la vedo che cerca di spiegarselo, più che spiegarmelo, questo suo popolo di piccoletti vocianti. Loro, così  scavati, si sono scavati la loro strada fino alle mani e alla mente di Angela Maria, e da lì, ricevuto, come per un’investitura, il loro meraviglioso colore, sono ripartiti, in fila, a coppie, oppure orgogliosamente solitari, ma sempre come in corteo. Da dove sono venuti questi qui? Da quale fondo e immaginario infantile, mitologico, letterario, psicologico? Da quali leggende – si chiede intelligentemente Angela – che fanno di tutto per diventare, quotidiane, domestiche, ordinarie? Da quale bosco di lucenti muschi e tronchi e cortecce animate da cui imparare, loro, gli gnomi, a mimetizzarsi, a prendere altre sembianze, o da quale grotta  fantasticamente policroma che su ognuno di questi esseri ha lasciato traccia e memoria della sua splendida genesi.

A questo punto ognuno potrà dire la sua, ed evocare ciò che d’istinto gli suggerisce la vista di queste così magiche presenze. A me sembrano scaturite da un mondo liquido, che insomma abbiano a che fare con esso: lava raffreddata (con un grazie ancora per tutto, a Leoncillo e al primo Fontana), piccoli, puntuti scogli, una barriera corallina (è una questione di splendore cromatico, oltreché di questa loro ramificazione biomorfica, che mi ci fanno pensare) composta da elementi fisicamente minuti ma tacitamente alleati gli uni con gli altri, in grado di concatenarsi facilmente voglio dire, frammenti di un (potenzialmente infinito) discorso amorosamente scultoreo… Stilisticamente, nel disdegno di ogni linea dritta e volume regolarmente profilato, e dove il calcolo formale sta praticamente a zero, ecco il trionfo anticlassico e la bella malagrazia dello stropicciato, dell’arricciato, dello sgualcito. Dell’esistenzialmente e irregolarmente modellato.

E’ già un po’ che chiamo piccoli questi personaggi (dei veri attori, garantito, ma poi spiego meglio), che, se intanto ci pensi, hanno un ‘alto’ e un ‘basso’, mettendo in relazione tra loro punti di vista assai diversi, dimensioni complementari: li puoi osservare da dove sei tu, dalla tua altezza, schiacciati al suolo, confidenti soltanto con esso; oppure sollevati, sfrontatamente face to face, ricevendo la sensazione che si stiano rivolgendo proprio a te, un loro simile. Ma non è di questo che volevo parlare, perché le dimensioni di queste ceramiche, di questi giganti mancati come, con ammirazione, li vede Angela, chiamano in causa le riflessioni che di recente Hervé Clerc ha fatto nel suo bel libro, A Dio per la parete nord (Adelphi, 2018). L’esperienza mistica, sostiene l’intellettuale franco-svizzero, insegna che un giorno può essere “immenso come, la Via Lattea, e il giorno dopo minuscolo come una coccinella”.

“Anche l’arte – continua Clerc – può crescere e poi rimpicciolirsi al punto di diventare invisibile o quasi. Un aneddoto al riguardo. Siamo nel 1945. Giacometti, che ha trascorso gli anni della guerra nel suo paese, in Svizzera, si appresta a tornare a Parigi. L’editore Albert Skira gli chiede: ‘Come farà a trasportare tutte le sue sculture?’. Giacometti estrae una scatola di cerini dalla tasca, la apre e ne mostra il contenuto a Skira: tre o quattro statuine della grandezza di uno spillo. Nella sua tasca c’è tutto quello che deve riportare a Parigi.”

Ma che personaggi, e che attori che sono: eccoli qui, mentre ci presentano le loro credenziali: Il Cavaliere Azzurro, lo Sciamano, il Pugile, L’uomo che ride (da Victor Hugo), un Re David risolutamente  antimichelangiolesco, L’inquilino (del terzo piano, di Roman Polanski), e una Pietà; ma abbiamo anche il Contabile, il Giudice, con riflessi da Pirandello ma anche da Le anime morte di Gogol o da una qualche tellurica Spoon River… E quanto si atteggiano e simulano queste maschere, come sono consapevoli della loro teatralità, che pur così essenziale inscena minime narrazioni, mentre alcuni dipinti di Angela fanno esoticamente da quinte.

Lo dico guardando la gambetta pendula e la disinvoltura de L’ospite; o l’Achille che, incredulo, si guarda l’arto mancante. A proposito: non c’è stato bisogno che il tempo, grande, altrattante scultore per Marguerite Yourcenar, passasse con le sue folate distruttrici su queste sculture, né che queste subissero i traumi di guerre e devastazioni, né, ancora, che finissero sepolte in fondo al mare o alla sabbia, per rinunciare a qualche parte di sé, per trarre paradossalmente profitto da quell’omissione, proprio da quell’incompiutezza anatomica. Anzi, il carattere monco delle figure dona loro un alcunché di malinconico, e se ne rende più fragile e incompleto il corpo, ne rafforza per compensazione il carattere, la volontà di farsi guardare e capire da noi. Perciò, ora, non meno fantasticamente di come li avrebbe incitati Alberto Savinio: narrate (piccoli grandi) uomini, la vostra storia.

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