“Cagliosa” e il determinismo geografico: intervista a Giuseppe Franza

“Cagliosa” è il primo romanzo di Giuseppe Franza, una bella storia di sopravvivenza suburbana tra i campetti di terza categoria napoletani, che racconta l’arrabattarsi di un personaggio che fin dal nome, Giovanni detto Vangò come Van Gogh, tradisce la sua duplice natura di calciatore/mariuolo che si vorrebbe elevare una migliore condizione. O forse no, che è solo costretto a farlo. Ne abbiamo parlato con l’autore. 

Innanzitutto: Cagliosa è un progetto dalla lunga gestazione o è uscito fuori “quasi” da solo?

A un certo punto devo essere inciampato nel vago proposito di scrivere una storia ambientata nei posti in cui sono cresciuto, e senza accorgermene ci devo essere poi caduto dentro. Per successivi sprofondamenti sono arrivato a immaginare un campionato di calcio dilettantistico, l’ultimo girone della più bassa serie tra le categorie minori, e così è uscito fuori Cagliosa. Quasi da solo, dunque. Il pensiero del torneo calcistico mi ha imposto una struttura e un tono: un capitolo per ogni giornata del campionato; un resoconto di occasioni perse, scorrettezze e colpi di fortuna dentro e fuori dal campo.

Ho avuto l’impressione, forse sbagliata perché non sono un appassionato di calcio, che la faccenda del calcio sia solo metaforica, per poter far scorrazzare durante le partite personaggi che nel loro modo di giocare incarnano approcci diversi al vivere. Il calcio dunque come un piccolo microcosmo più facile da indagare del mondo… ho preso un abbaglio?

È proprio così. L’idea era quella di raccontare una ridotta e corrotta società umana, come un esercito di disperati calati in una guerra contemporanea. E in quest’ottica il calcio minore mi è sembrato il contesto più adatto e verosimile, dato il valore culturale e simbolico che il pallone riesce a rappresentare per una larga fetta della popolazione. La squadra è un insieme bruto, che mette in relazione alterne individualità e le dispone di fronte a un medesimo fine, in una dimensione che dovrebbe essere ludica o semplicemente sportiva e che invece si rivela moralmente intricata, scorretta e spropositatamente violenta. Il calcio funziona così bene come metafora della vita perché fa parte della nostra cultura profonda. Nostro malgrado, siamo tutti portati a interpretare il mondo attraverso le categorie di gioco, sfida, gol fatti e subiti. Qui, per esempio, mi si potrebbe accusare di star facendo melina, e quindi mi stoppo.

Giuseppe Franza

Sì perché comunque non mi posso distaccare dal sapere che tu hai studiato filosofia e che hai chiamato il protagonista Croce (come Benedetto), così come hai disseminato qua e là citazioni (Damiana che spiega Cartesio) e forse anche il pensiero di alcuni personaggi (il nonno, un po’ marxista) sono stati contaminati da pensieri “alti” di qualche altro filosofo: “Cagliosa” è stato anche il tuo modo di “uccidere” la filosofia, metterla in tasca e proseguire oltre?

Volevo che i personaggi di Cagliosa si presentassero come individui orgogliosamente e puramente ignoranti. Gente mai sfiorata dalla cultura definita alta e a stento contaminata da quella scolastica. Ciononostante, ognuno di loro ha legame con qualche figura importante della cultura napoletana. I cognomi dei calciatori della Incis, per esempio, sono gli stessi di grandi filosofi, architetti, letterati, pittori e matematici. L’ho fatto per gioco, o forse per sfottere il luogo comune che descrive Napoli come una felice commistione fra spirito intellettuale e popolare… La saggezza popolare e la cultura di strada ignorarono e disprezzano la conoscenza accademica, perché intendono la cultura come una forma di debolezza, uno scudo indossato da chi non vuole affrontare la vita reale. E una parte di me dà loro ragione: è così.

E ora veniamo alla qualità più evidente del tuo libro: l’avere utilizzato un “italiano napoletanizzato” perfettamente coerente con l’ambientazione ma che contiene un approccio colto sottostante. Avevi letto che Andrea Camilleri ha dichiarato che, dopo aver scritto tanto, si è sentito veramente libero solo dopo aver cominciato a scrivere nell’ “italiano sicilianizzato” di Montalbano? Insomma volevi far tesoro di questo insegnamento e della constatazione di “dialettalità” intrinseca dell’italiano che constatava Pirandello o era solo congeniale alla storia?

Spesso, cioè quasi sempre, penso e parlo in dialetto. E continuo a farlo, pur non abitando più a Napoli da molti anni. Solo quando scrivo mi sforzo per adeguare i miei pensieri alle regole dell’italiano… Per raccontare Cagliosa ho sentito però, subito, l’esigenza di lavorare con parole, espressioni e toni del napoletano contemporaneo, che è una lingua diversa dal napoletano classico, perché quelle erano le forme e le note più adatte al contesto. Fottere, arrubbare, scassare, fuire, azzeccare, alluccare, pariare, scommare… Non sono un fan di Camilleri, e non sono partito da lì. Forse ho ripensato a Verga e all’artificio della regressione usato in Rosso Malpelo e nei Malavoglia. E perciò ho provato a mischiare la mia voce con quella dei personaggi.

In realtà, da emiliano, ho trovato la dialettalità napoletana di Cagliosa un po’ ostica benché gustosissima, e questo è perché ne utilizzi molta, insomma l’ho trovata forse un po’ sovrautilizzata per le mie orecchie da non-napoletano: è un rischio che avevi messo in conto?

Sì, l’ho messo in conto. Accussì m’è esciuto ’o libbro.

Personalmente poi quello che preferisco è il tuo stile di scrittura sempre pronto a sbattere in faccia al lettore la dura realtà (un esempio su tutti: “andò a fumarsi una sigaretta dove c’era il belvedere da cui ipoteticamente si sarebbe dovuto vedere il mare. Ma era tutto scuro; si vedevano solo delle lucine lontane. E, chissà, forse non era manco il Golfo, quello, ma Poggioreale, dove stava il carcere”). Come se la poesia della vita, che tu vedi e riconosci, poi si trasformi sempre e inequivocabilmente in una farsa o in una merda… ti riconosci oppure no?

Dici che suona un po’ troppo pessimistico? Non lo so, davvero. La poesia è una sovrastruttura, è qualcosa che aggiungiamo noi alla realtà esterna o al mondo interiore, cogliendo o immaginando consonanze, significati profondi, tropi e metalogismi dove ci sono soltanto fatti liberi, né belli né brutti. Ci lasciamo condizionare mentre condizioniamo questi fatti e proviamo a dare loro un valore. Quindi c’è chi trova soddisfazione estetica nell’associare tra loro soltanto fatti piacevoli e pacificanti e chi, forse più perverso o decadente, si diverte a inclinare un po’ lo sguardo di lato per scorgere il marcio che c’è dietro. Sono tutte e due forme di distrazione, secondo me, tentativi legittimi di vivacizzare l’esistenza con un po’ di sana astrazione. Insomma, non so dirti se preferisco la soddisfazione dello svelamento all’illusione di bellezza. Ma, in ogni caso, è un bene che la realtà sia dura, no? Almeno uno si regge e trova un po’ di solidità per orientarsi. È peggio avere a che fare con il vuoto.

immagine per Giuseppe FranzaSe devo dirti la sensazione che mi ha lasciato addosso Cagliosa è quella che tutti cercano di evolvere ma ci si riesce solo a metà, c’è sempre l’ambiente che ti ributta giù, come il Mozart che è nato a Ponticelli e al massimo può suonare da neomelodico ai matrimoni: la ritieni una considerazione valevole sempre o lo vedevi più relegata al tuo territorio?

Sì, questo è il punto fondamentale del romanzo. È il determinismo geografico. Che, di base, è un pensiero davvero pericoloso, dato che può essere facilmente manipolato o frainteso per giustificare posizioni razziste e oscurantiste. Per mia esperienza, l’ambiente in cui cresci è una parte del tuo destino. Se lo rifiuti, questo destino, ti mancherà sempre qualcosa. Se lo accetti, finirai per esserne succube e annullerai la tua individualità in una forma di gretta appartenenza a un fondamento annichilente. Credo che questo limite sia più accentuato nei contesti maggiormente disagiati, dove le possibilità di esistenza libera e soddisfacente sono ridotte ai minimi termini. Il Mozart nato a Ponticelli non saprà mai di essere Mozart, e molto probabilmente abbandonerà quanto prima la sua passione per il pianoforte, perché non gli servirà a niente se non a mettere in luce un’inadeguatezza che gli altri non dovrebbero mai venire a scoprire.

Domanda finale d’obbligo, visto che siamo entrambi appassionati musicali: ma un libro in cui c’entri di più la musica per il futuro… no?

In Cagliosa c’è parecchia musica. E forse molti riferimenti sono anche forzati e fuori tema, dato che per essere più attinente al contesto mi sarei dovuto concentrare di più sul mercato neomelodico e sulla trap da classifica… Ora sto scrivendo un romanzo ambientato nel XIII secolo, e al massimo può risuonare qualche nota di canto gregoriano. Tempo fa avevo cominciato a scrivere una storia su un gruppo punk tibetano. Non mi è mai convinto l’acritico supporto di cui gode il clero tibetano in occidente. Voglio dire, la popolazione vive sotto il giogo di una teocrazia di stampo medievale, e non deve essere bello… quindi mi divertiva l’idea di far scoprire a tre giovani pastori tibetani la musica dei Sex Pistols e dei Clash. Tipo, Rock in the gompa.

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Paolo Bardelli è nato nel 1973 a Reggio Emilia; dal 2004 scrive su Kalporz (www.kalporz.com) e dal 2010 ne è caporedattore. Prima, da bambino, riempiva quadernoni con la storia dei Police e annotava le classifiche di vendita dei dischi che trasmettevano alla radio. Gli piacerebbe che il suo prossimo libro, se ci sarà, sia una raccolta di favole per bimbi.

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