Il volto sinistro dell’arte. Romana Loda e l’arte delle donne in Italia. Contributo

Il volto sinistro dell’arte. Romana Loda e l’arte delle donne in Italia. Contributo

Nell’agosto del 1977 Romana Loda, curatrice bresciana e fondatrice della galleria Multimedia di Erbusco, scrive una lunga lettera a Tomaso Binga, pseudonimo maschile scelto nel 1971 dall’artista e poetessa visiva Bianca Pucciarelli, per invitarla a prendere parte a un nuovo progetto espositivo, a tre anni di distanza dalla prima mostra di artiste da lei curata presso il Palazzo Comunale di Erbusco, Coazione a mostrare (1974), e a soli sei mesi dall’apertura della seconda edizione di Magma al Museo di Castelvecchio di Verona:

«Sono stata invitata»,  scrive Loda, «a organizzare una mostra di donne per l’apertura di una nuova grande galleria a Firenze (penso tu sappia che in questi ultimi mesi ho rifiutato molti inviti a mostre di donne perché non volevo che questa faccenda fosse ancora una volta un mezzo di sfruttamento). Ho anzi preparato uno scritto piuttosto violento sui festival e settimane delle donne che spero di utilizzare in un prossimo dibattito sull’argomento a Torino. Vorrei fare mostre alla pari. Ho accettato di curare questa di Firenze solo perché mi serve a demolire un altro pregiudizio. Infatti ho trovato uno studio sull’asimmetria del viso dal quale risulta che la parte sinistra rivela il lato inconscio, notturno, femminile mentre la parte destra rivela il lato cosciente, positivo, maschile. Ho preparato un testo ironico dal titolo Il Volto sinistro dell’arte e presenterò sei o sette artiste che hanno dato un contributo positivo all’arte»[1].

La mostra a cui si riferisce Loda è per l’appunto Il volto sinistro dell’arte”, che si inaugurerà nell’ottobre del 1977 presso la Galleria De Amicis Arte Moderna di Firenze, con una selezione di artiste più che raddoppiata rispetto a quella inizialmente ipotizzata dalla curatrice.

Da sei o sette le artiste coinvolte passano infatti a sedici, scelte da Loda tra le punte più avanzate della neoavanguardia italiana degli anni Sessanta e Settanta, operanti in campi di ricerca assai diversificati, dall’arte cinetico-programmata, all’area concettuale, dalla poesia verbovisiva alla performance, dalla sperimentazione fotografica, alla Scuola di Piazza del Popolo: Marina Apollonio, Mirella Bentivoglio, Valentina Berardinone, Tomaso Binga, Renata Boero, Dadamaino, Giosetta Fioroni, Lucia Marcucci, Libera Mazzoleni, Verita Monselles, Stephanie Oursler, Lucia Pescador, Sandra Sandri, Suzanne Santoro, Grazia Varisco e Nanda Vigo.

Al cuore della mostra è l’idea di irridere il cliché che riconduce il femminile alla sfera sinistra del corpo – connessa simbolicamente all’intimità, alla passività, al sentimento e al maleficio – e il maschile a quella destra, legata invece all’azione e alla razionalità.

Stereotipo, quest’ultimo, che secondo Loda ha influenzato, anche nel recente passato, l’interpretazione critica del lavoro di molte artiste, contribuendo a decretarne la marginalità entro il sistema dell’arte. In catalogo Loda cita in particolare la lettura di Hans Richter dell’opera di artiste surrealiste come Leonor Fini, Leonora Carrington, Dorothea Tanning e Meret Oppenheim, da lui considerate come semplici seguaci di Max Ernst, affascinate dai lati «donneschi» e «distruttivi» presenti nell’arte di quest’ultimo.

Contro i pregiudizi e la chiusura intellettuale di gran parte del mondo artistico dell’epoca, Loda lotta già da diversi anni con il fine dichiarato di promuovere il lavoro delle artiste che, ben più dei colleghi maschi, faticano a esporre nelle grandi rassegne pubbliche, a imporsi nel panorama del collezionismo, a essere viste come professioniste.

Benché dai numerosi testi di Loda non emerga un bagaglio teorico paragonabile a quello di altre critiche e curatrici italiane che della differenza di genere hanno fatto un nodo centrale della loro pratica e della loro scrittura critica, come Annemarie Sauzeau Boetti o Lea Vergine, le scelte curatoriali di Loda sorprendono oggi per lungimiranza e originalità. Nel breve scorcio di anni che va dal 1974 al 1978 le sue mostre hanno avuto il grande merito di portare all’attenzione del dibattito culturale italiano alcune questioni essenziali sollevate dal pensiero del neofemminismo, relative alla necessità delle donne di riappropriarsi di spazi a loro storicamente preclusi, anche attraverso scelte separatiste.

Nel progettare mostre di sole donne, come le già ricordate “Coazione a mostrare” e “Magma” o la più raccolta “Altra misura” (1976), Loda ha infatti contribuito attivamente a denunciare la presenza esigua delle artiste nel contesto dell’arte italiana e a porre in evidenza come tale emarginazione non fosse un fenomeno naturale, e quindi immutabile, ma fosse invece legata a precise condizioni storiche, sociali, economiche e culturali.

La capacità di stringere relazioni con molte delle più significative artiste del decennio e di proporre opere di autrici fondamentali nello scenario artistisco europeo e americano (a “Magma” figurano, tra le altre, Marina Abramović, Lygia Clark, Hanne Darboven, Gina Pane, Valie Export, Rebecca Horn, Suzy Lake, Annette Messager, Natalia LL, Ulrike Rosenbach, Katharina Sieverding), l’ha resa una figura centrale non soltanto per il territorio bresciano, ma per un’intera generazione di artiste italiane che in lei hanno trovato una sodale, e spesso un’amica, pronta a incoraggiarle e a promuoverne il lavoro.

Sebbene la sua figura sia stata a lungo trascurata dalla storiografia e più in generale dalla critica d’arte italiana, il suo lavoro a fianco delle artiste appare ora, a dieci anni dalla sua scomparsa, un contributo precoce e importante per la diffusione di una rinnovata consapevolezza delle differenze di genere nell’ambito dell’arte.

Del resto l’obiettivo di riaffermare il valore dell’arte delle donne alla base del progetto de “Il volto sinistro dell’arte” è ben espresso dalla stessa Loda nell’introduzione alla mostra, di cui vale la pena riportare alcuni passaggi: «Innanzi tutto, come le altre da me curate, [l’esposizione] presenta artiste serie che hanno fatto della creatività una scelta e una ragione di vita e non certo un hobby del tempo libero. Alcune hanno già precisa collocazione nella storia della ricerca estetica degli ultimi due decenni; altre sono impegnate in sperimentazioni più recenti; ma tutte subiscono la doppia discriminazione dovuta al fatto di essere donne, prima che artiste e per questo sono in qualche modo emarginate (e non tragga in inganno il fatto che alcuni nomi sono ormai famosi fra gli appassionati d’arte; si chieda a queste artiste quali sacrifici comporta vivere e agire in un campo che da sempre è maschile)»[2].

Ma Loda nello scritto si spinge oltre la semplice rivendicazione, ipotizzando l’esistenza – determinata sul piano dell’esperienza di vita e non su quello biologico – di un “lato sinistro” nelle opere delle artiste: «Sinistro è fuga dal simmetrico e rifiuto della consolante ripetitività; è sede dei processi conoscitivi; è il femminile di ogni individuo. Vediamolo dunque questo lato, senza false reticenze e senza veli. Perché ogni opera di donna artista fa affiorare le caratteristiche del disagio di una condizione vissuta e subita in prima persona, sia che venga sublimata, sia che venga apertamente denunciata»[3]. E ciò, secondo Loda, vale sia nel caso di opere che decostruiscono in modo palese gli stereotipi delle rappresentazioni della femminilità (come nei lavori verbo-visivi di Lucia Marcucci e Mirella Bentivoglio, nelle serie LUCA, 2,49 e Il bacio di Libera Mazzoleni, in Bianca Menna e Tomaso Binga. Oggi spose di Tomaso Binga, nei tableaux fotografici di Verita Monselles, nelle opere di Suzanne Santoro e Stephanie Oursler o nei quadri d’argento di Giosetta Fioroni), sia nelle ricerche dove questo elemento “sinistro” è filtrato e sublimato, come nelle diverse esperienze di Marina Apollonio, Valentina Berardinone, Renata Boero, Dadamaino, Lucia Pescador, Sandra Sandri, Grazia Varisco, Nanda Vigo.

Individuare una specificità nell’arte delle donne, come prova a fare qui Loda, può oggi apparire un tentativo ingenuo, ma la sua interpretazione va letta sullo sfondo dello scenario culturale e politico di allora: quello di un’Italia che ha da poco, e a fatica, conquistato la legge sul divorzio (1974), la riforma del diritto di famiglia (1975) e che sta ancora lottando per ottenere la depenalizzazione dell’aborto e una legge per l’interruzione volontaria della gravidanza (1978).

Una fase storica, quella degli anni Settanta, che è segnata dalla nuova consapevolezza emersa con le esperienze dei gruppi femministi radicati in tutto il territorio nazionale, che si impegnano non soltanto per il riconoscimento dei diritti civili, ma per una più profonda consapevolezza del ruolo della donna all’interno delle istituzioni, della famiglia, delle relazioni affettive, non aspirando tanto alla parità e all’emancipazione, quanto a un processo di radicale liberazione della donna dal dominio patriarcale sull’esistenza.

«L’uguaglianza», scrive Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel, «è un principio giuridico: il denominatore comune presente in ogni essere umano a cui va reso giustizia. La differenza è un principio esistenziale che riguarda i modi dell’essere umano, la peculiarità delle sue esperienze, delle sue finalità, delle sue aperture, del suo senso dell’esistenza in una situazione data e nella situazione che vuole darsi. […] L’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti. È quanto si impone loro sul piano della cultura. È il principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non-egemone»[4].

Nel provare a definire una “differenza” che caratterizzi l’arte delle donne, Loda mostra quindi la volontà di affrancarsi dai modelli critici ed espositivi vigenti, declinati al maschile. Un desiderio di autonomia, quello di Loda, che tra il 1974 e il 1978 imprime un segno fortissimo nella sua pratica di curatrice e nella sua attività di gallerista, destinato tuttavia a scontrarsi presto con le difficoltà di ordine economico, con le incompresioni sorte con alcune artiste, con la miopia delle istituzioni.

Già nell’introduzione a “Il volto sinistro dell’arte”, Loda si rammarica per il moltiplicarsi di eventi di scarso spessore artistico dedicati alle donne: «tanto da far sospettare che il fenomeno abbia ormai l’accelerazione tipica del consumo. Dopo l’anno della donna ci sono stati i mesi e le settimane; ora vi sono i giorni, ma c’è da aspettarsi l’ora e il minuto»[5]. Nel frattempo il rapporto con le artiste si complica: «Le più giovani», racconta Loda nel 1982 in un articolo pubblicato da Simona Weller sul periodico fondato nel 1944 dall’Unione donne italiane“Noi donne”, «volevano mostre rivendicative, le più affermate volevano esporre tra gli uomini, le lesbiche mostre separatiste, i collettivi femministi mostre di sole militanti»[6].

A ridosso del 1978 Loda decide di interrompere l’organizzazione di mostre di sole donne, ma il suo impegno nel promuovere le artiste proseguirà nei decenni successivi, soprattutto attraverso l’attività della sua galleria. A una decade dalla prima edizione di “Magma” Loda tornerà a curare la rassegna “Figure dallo sfondo 2. Magma: Dieci anni dopo”, nell’ambito della II Biennale Donna presso il Centro Attività Visive di Ferrara (rassegna arrivata quest’anno alla XVIII edizione), facendosi ancora una volta portavoce e compagna di strada di una nuova generazione di artiste.

 

Questo Contributo è il testo scritto per la mostra Il volto sinistro dell’arte. Romana Loda e l’arte delle donne, a cura di Raffaella Perna, Apalazzo Gallery, Brescia.

Note

1.     Lettera spedita da Romana Loda a Bianca Pucciarelli (Tomaso Binga), datata agosto 1977, conservata nell’archivio privato di Bianca Pucciarelli Menna a Roma, ora in Raffaella Perna, Mostre al femminile: Romana Loda e l’arte delle donne nell’Italia degli anni Settanta, in “Ricerche di S/confine”, vol. VI, n. 1 (2015), pp. 151-152.

2.     Romana Loda, “Il volto sinistro dell’arte”, catalogo della mostra, Galleria De Amicis Arte Moderna, Firenze, 29 ottobre-26 novembre 1977, s.i.p.

3.         Ibid.

4.     Lonzi Carla, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta femminile 1, Roma s.d. (estate 1970), pp. 4-5.

5.     Romana Loda, “Il volto sinistro dell’arte”, op. cit.

6.     Romana Loda cit. in Simona Weller, Professione gallerista, in “Noi donne”, luglio 1982, p. 86.

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Raffaella Perna insegna Storia dell'arte contemporanea all'Università degli Studi di Catania. Tra i suoi libri: Piero Manzoni e Roma (Electa 2017) e Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta (Postmedia Books 2013). Ha curato e co-curato le mostre: Il soggetto imprevisto. 1978 Arte e femminismo in Italia (Frigoriferi Milanesi, 2019); L'altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2018 (Triennale di Milano e Palazzo delle Esposizioni, Roma); Ketty La Rocca 80. Gesture, Speech and Word, PAC di Ferrara (con F. Gallo, 2018). È curatrice della rubrica Arte e femminismi su “Flash Art”.
foto: @Martha Micali

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