Otherside di Pina Della Rossa. Ulteriorità dell’immaginabile

Foto Pina Della Rossa

Sulla mostra di Pina Della Rossa, Otherside, presso la Sala delle Esposizioni Fornace Falcone, ad Eboli (SA), per la rassegna MATERIE 9, a cura di Valerio Falcone, Fornace Falcone per la Cultura.

Se il senso dell’opera si stravolge in una tensione di oltrepassanti possibilità delle immagini compiute, la pratica artistica nel suo stesso farsi accede al desiderio di alterità, alla ricerca di una germinante catastrofe della propria stabilità.

Un’opera concepente il suo moltiplicarsi in ulteriori declinazioni: stare in bilico sulla sua immagine tradendone la determinatezza e decostruendone il senso in imprevedibili costruenti, caleidoscopici movimenti.

La potenza del pensiero immaginativo si espande in una mobile, desituante psicografia, in una anatopica dissezione che in tagli anagrammatici rivela costellazioni riflessive del vedere e del ‘sentire’. Iniziali vortici di ‘regioni’ dell’opera che si estendono come un pensiero di nuovo creante universo.

Emerge una mappa che, dallo schema del Tangram, si declina in incastri e incorporazioni testurali di nude vegetazioni con intermittenti figure vuote e numerazioni diagrammatiche, cosmologica esposizione del non-umano ‘commentata’ da fissioni della consunzione dei corpi (volti, pelle).

Spostando nell’aperto il confine, l’opera di Pina Della Rossa, pur radicata in un gesto originario dello sguardo, risuona di un inimmaginabile che la interroga e ne attiva rifrazioni spaziate articolate nel componimento istallativo come su di un invisibile pentagramma.

È una soglia d’immanenza trascendente, dove nell’intrico immaginativo della phisis può “splendere la pura luce”, soglia inesistente sulla quale nelle fenditure dell’opera si sogna l’infinito. Snodi immaginali in fuga nel vuoto, nel tensivo declinarsi di congiungimenti e frangimenti delle immagini come  ibridi  attraentesi membra di una denaturata natura.

L’opera tende a sommuoversi in una rete della memoria obliante della sensibilità, dove il più indimenticabile è il dimenticato, in una formazione che traluce d’incombente mancanza.

Così, l’opera di Della Rossa è spazio di un dolore vuoto di memoria, in cui si sovrappongono, incrociano e alternano i segni trasmutanti della natura e del corpo, sospesi in uno spazio de-ciso in partizioni di silenzio, articolato in diagrammatica topologia delle superfici, dove la tenebra e la luce si penetrano e confliggono, distratte nel loro dialogo da irrompenti cunei rossi, segni d’una rammemorante arteria di un corpo assente.

L’opera nella sua deriva, tra vuoti e pieni, tra presenza e assenze, si fa visibile canto dell’inesistenza dell’altrove, dell’eccedenza sospettabile, desiderata e terrorizzante insieme, di ciò che si vede. Othersize.

Nelle istallazioni fotografiche di Pina Della Rossa il comporsi e lo scomporsi degli elementi è una performazione dell’opera che riflette il suo enigma iniziale.

Il deporsi e lo slegarsi delle immagini in reticoli mutanti fa sprofondare lo sguardo in una inquietante oscillazione del visibile, tra imago della cosa e spettro immaginale. Pur anche l’opera è attraversata da una originale nerità (fondo della verità?), dove la luce s’inabissa nella sua radice oscura.

In questa tonalità ipocromatica del profondo, le immagini ‘si spezzano’ in frammenti d’irregolari figure geometriche, come un esplodere della continuità d’una storia che cerca un altro strato di senso, un ulteriore, inimmaginabile destino.

Lo sguardo è attratto nella rete di schegge ricomposte o alla deriva, sguardo destinato a un naufragio dell’unità della visione, chiamato da un’altra parte (otherside!) del pensante gesto creativo, dove si intravedono le tensioni imprevedibili di una operante ‘incompiutezza’.

Pina Della Rossa è iconografa di una nuova mappa dell’anima – di rilevazione anche segretamente autobiografica – che non si fermi alle sole “terre emerse e ai fluttuanti oceani” del senso, ma una cartografia che segnali profondità imperscrutabili.

Segnali, evocazioni, non svelamenti.

Nessuna quieta chiarità ma filamenti di luce nera, radici dell’aurorale luce iniziale, la mappa dell’anima segnata da Della Rossa è custodia di un mistero irraggiungibile, neanche immaginabile, solo eco silenzioso in un ascolto sensibile.

L’opera confessa la sua impossibilità a farsi immagine assoluta, essa è sempre invocata nella sua impermanenza, destinata persistentemente a decidersi, a generare la sua stessa deflagrante risorgenza, il suo sempre possibile nei labirintici movimenti dello sguardo.

L’opera di Della Rossa è un atlante di ombre cosificate, umbratili ramificazioni che fissano l’immagine in un mistero che ne custodisce l’irrangiungibilità concettuale.

Nel componimento dell’istallazione sembra leggere le pagine di un “libro delle interrogazioni”, la scansione di una historia dalla narrazione indecifrabile. Quadri del continuum di un paesaggio che si decompone costruendo il suo trasformarsi. Il disegno dell’esposizione snoda traiettorie sghembe, che senza linearità concettuale, si aprono a indefinite alterazioni di senso.

Opera-scrittura di performazione segnica, theatrum di quinte e sipari lacerati. Tra il dirsi e il disdirsi delle immagini, sono segmenti che ritmano partizioni rivolte una verso l’altra, in una aberrata specularità.

È una costellazione di segmenti sospesa nell’atopia nella quale iscrive la sua figura. Uno schema acentrico, che riflette l’espandersi dell’opera in orbite fuggevoli.

I frammenti di metamorfici volti, in un visivo commento  laterale, sono un ex voto al tempo morente, e anche un segnale ammonitore della umanizzazione ‘creativa’ dell’opera, una confessione segreta di un memento mori dell’immagine stessa.

Orme del corpo e reticoli di rami come arterie ossificate, nella non-simbolica, riflessa corrispondenza con la consunzione modificantesi della materia del tempo. L’immagine che l’artista vede nel fotografare è un eco corporeo di un disagio dell’anima che si iscrive in una  mutabile, architettonica visione di un anelito di trascendenza.

Nella gelida tonalità dei rami che s’inerpicano verso un non-dove del mondo, l’opera dell’artista invita ad addentrarsi nelle sconnesioni delle rassicurazioni identitarie delle rappresentazioni.

Dentro la fotografia si attraversa una soglia più che una compiuta immagine dell’opera, con sguardo che penetra nei riflessi delle cose, in un’esperienza del visibile che sprofonda nei sottosuoli della coscienza, accedendo ad abissi di silenzio della ragione, che non ha più parola ma solo tremito dell’indicibile.

Un’esperienza conoscitiva dell’in-visibile nella quale si percepisce aleggiare l’irrappresentabile.  Le immagini incarnano i paradossi del vedere; intravisioni che incrociano il possibile e l’impossibile, la presenza e l’assenza, come pensiero sospeso nel corpo dell’opera, destabilizzandone il senso.

Questo eccedersi del vedere è eccedere il vedere medesimo, rifrange la tensione interrogante nel non-tempo che sospende le immagini.

Nelle materie sulle quali lo sguardo sosta col tremore della memoria, immergendosi nell’intrico nelle decomposizioni della natura de-naturans, nelle oscurità delle sue ramificazioni, traluce l’emergenza di un oltrepassamento, di un ricordo dell’irricordabile.

La visione si fa varco di una lontananza, in essa attraversandone la consunzione è il possibile generarsi di uno sguardo che veda il non-visibile, capace anche di sospendersi nel vuoto e nell’assenza di ogni immagine.

Il suo percorso è un sofferente accadimento immaginale, ha l’articolazione di scrittura di una passione innominabile. La fotografia dà scacco a se stessa, lacerando l’unità della ripresa fotografica con tagli nelle dislocazioni prismatiche, dove l’unità dell’immagine volge in fratture e spaginazioni.

L’opera dell’arte, per l’artista, è ri-velazione della memoria di un sacrificale evento – sottotraccia, in tensioni tra ego ed es – in sezioni di frammenti di inariditi luoghi di paesaggio urbano, scompone e ricompone le immagini, come per rintracciare la verità occultata.

Nel far vedere l’origine aionica, nel deviare la visione negli annullamenti degli spazi neri che centrano la percezione e insieme ne spostano gli echi e i riflessi sui margini della composizione.

L’altrove delle cose ha nido imperscrutabile nelle intricate formazioni di nudi rami, cartografie delle ferite del corpo in spazi immaginativi nei quali l’umano e la natura s’incrociano sui percorsi impervi del sentimento del tempo.

Si può oltrepassarsi non separandosi ma sprofondando nella corporeità dell’anima. Nei frammenti del presente gli echi della memoria personale si amplificano in risonanze di senso della vita sociale. La fotografia è non solo strumento d’indagine, è il contatto sensibile che l’artista ‘vive’ attraversando i luoghi della caduta e dell’abbandono, uno scavo tra le spine di corone, nel martirio del senso.

L’opera di Pina Della Rossa è una sublimata liturgia del corpo, nella quale l’essere e il divenire confliggono nel loro co-incidersi nell’immagine. Liturgia del dolore e della perdita che traluce dell’annuncio di un nuovo sguardo di ascensione alla trascendentale metamorfosi della caduta e della salvezza, nella vitalità controversa dell’esserci.

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Franco Cipriano, artista, teorico e critico d’arte, è attivo nella scena artistica dagli anni Settanta, con attività espositive e di scrittura teorico-critica. La sua pratica artistica interagisce e dialoga con il pensiero filosofico e con i linguaggi poetici. È autore di testi di critica, storia, poetica e teoria dell’arte contemporanea, pubblicando in riviste, cataloghi e volumi. È intervenuto in diversi convegni e iniziative sui temi del rapporto tra arte e società, arte e linguaggi, arte e filosofia.

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