Il tempo della messe – Tra struttura e indefinito

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Il tempo della messe – “perché solo l’accolto diviene raccolto”, si legge nel ricco ed elegante catalogo – è una sedimentazione di settecento scatti strutturati in immagini multiple di “soggetti spiati nelle proprie incessanti metamorfosi” che divaricano la forbice Arte-Natura eppure al contempo sono il prodotto delle pratiche di un artista che tra frutti e fatiche si pone come testimone di quel tempo. È una testimonianza di “gesti che nascosti accadono, necessari come noi, mentre noi d’altro si vive”. Ecco, se siete i tipi che vivono d’altro e nelle cine-arene estive cercano spettacolari americanate o frivole leggiadrìe, potete evitare di proseguire a leggere questa recensione, non tanto perché qui si discute di fotografia e non di cinema, ma soprattutto perché ciò che promana dalle opere in mostra ad Interzone dal 10 giugno 2014 al 15 luglio 2014 è il pulsare segreto di una terra che è il cuore dell’Italia e per giunta ciò ci arriva in questo caso in visioni ombrose cariche di un grave e pensoso senso di attesa. In effetti, ciò che da un punto di vista emotivo viene decantato nei lavori di Marco Spaggiari è uno sprofondamento nell’attimo, una scomposizione dello spazio che ricostruisce una modalità percettiva ma che vi aggiunge un plusvalore, e che pertanto senz’altro si distingue radicalmente dall’immagine banalmente realistica che possiamo avere di ciò che ci circonda.

Questa interpretazione del reale sembra derivare da un intimo e viscerale abbraccio ideale nei confronti dell’Emilia Romagna e del suo carattere tanto quanto, più in generale, il superamento della misera finitudine dell’hic et nunc è possibile solo ad un indiviiduo che riesca a vedere e sentire oltre, che riesca a legare l’attimo alle strutture profonde del suo sguardo e del suo pensiero. Già, le strutture; l’autore in effetti non è assolutamente uno spontaneista; al contrario, nato a Correggio in provincia di Reggio Emilia nel 1974, si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna con ben due tesi, discusse la prima – “Un diario ceduo – Un percorso fra convenzionalità e spregiudicatezza della forma da Delacroix a Cèzanne” – nel 2009, e la seconda, dal titolo “L’atto fotografico, coscienza del mondo”, nel 2012, perciò possiede una elevata consapevolezza dei valori formali delle opere d’arte, con riferimento specifico alla pittura, ma anche del portato concettuale della fotografia.

Tutto ciò si riflette in una elevatissima sensibilità di Spaggiari sia nei confronti del mezzo usato e delle sue implicazioni in termini di selezione del mondo a partire da punti di vista e di dati tecnici, sia di aspetti squisitamente estetici come logiche compositive, campiture, piccole trasgressioni funzionali al progetto e potenziale evocativo dei singoli dettagli. Come spiega il critico Luca Farulli nel testo contenuto all’interno del catalogo, restituire centralità all’uomo come unico “luogo” in cui le immagini, comunque prodotte, acquistano un senso, per quanto sfuggente, comporta automaticamente un rilancio della centralità dell’arte come mediazione necessaria per attribuire raltà al materiale della percezione, attraverso la fatica della realizzazione tecnica dell’opera.

In particolare la visione di Spaggiari si articola attraverso la frammentazione, ma una frammentazione metodica che si sustanzia in numerosissimi dettagli, tutti rettangoli delle stesse dimensioni, ricavati da scatti effettuati con una Polaroid, che insieme di volta in volta vanno a comporre un’immagine non calcografica, non trasparente, non realistica (come già dicevamo) di luoghi che si trovano nella sua zona di residenza. La logica è per analogia vicina a quella del “montaggio in macchina”, come si dice nel cinema o nel video, laddove però la “macchina” è la testa dell’uomo, con il dialogo tra gli occhi ed il cervello, che ricompone i dati formandone un’idea coerente. Il risultato di questi assemblaggi sono delle immagini che impregnano il reale di un indefinito che moltiplica la nebbiosità dei luoghi spingendola verso territori di (de)costruzionismo, mentre i singoli dettagli sembrano foto prese durante una fase di sviluppo, ed invece sono dei multi-scatto: sembra che l’immagine si stia formando mentre l’osservatore la guarda mentre invece è il punto d’osservazione che, durante lo scatto multiplo (sullo stesso fotogramma) è stato leggermente variato, creando una poliprospettiva all’interno del singolo scatto.

Questa metodologia cerca di restituire qualcosa di più della visione monocolare, e dà l’impressione di farlo mentre l’osservatore “cammina dentro” l’immagine. In questo modo si creano quelle che l’artista chiama “insorgenze”: zone in cui gli strati di colore sembra che stiano lottando per arrivare ad una forma, stiano approssimandosi ad essa, come nel disegno. Questo tipo di effetto, applicato ai singoli scatti, appare forse con maggiore evidenza nell’installazione in cui singoli scatti sono incorniciati da soli e disposti, appesi, a formare quella che oggi verrebbe da definire una cloud, una nuvola di piccoli quadri, lasciati in penombra, mentre uno di essi è collocato ad una certa distanza ed illuminato da una piccola spotlight.

Il segno a carboncino abbozzato sulla parete tratteggia una circonferenza che inscrive tutti questi piccoli “pezzi” suggerendo che l’acquirente ha facoltà di farli ruotare ponendo secondo il proprio personale arbitrio ogni volta sotto la spotlight un quadro diverso. Di certo tutte queste piccole foto forniscono un abbecedario delle possibilità cromatiche legate al soggetto della pianura emiliana: c’è l’immagine orizzontale per antonomasia, quella nebbiosa, il tentativo di ricreare con le condizioni di luce un’alba, o un tramonto, con l’equivalente di una velatura pittorica, poi c’è l’immagine più plastica, eccetera. E un aspetto che colpisce è l’omogeneità delle immagini, che stanno insieme nonostante la loro diversità: un meccanismo che è presente, secondo la tesi dell’autore, anche al di fuori di quel contesto, è riscontrabile anche nella più ampia “realtà”, anche se non si palesa facilmente. Quando la luce all’interno della galleria è mantenuta bassa, il gruppo delle piccole foto è meno visibile e spinge l’osservatore ad inchinarsi per scrutare meglio i singoli scatti, muove la curiosità del fruitore, stimola una reazione interattiva. La foto isolata, invece, è meglio illuminata e viene così presentata come se fosse un dettaglio rivelatore di chissà quale segreto.

Il tutto non è una trovata concettuale, per la verità, ma piuttosto un adattamento site-specific dell’artista a quella particolare parete della galleria, che, proprio sotto al gruppo delle foto piccole, presenta un gradino e mezzo sporgenti dal muro, i quali, in assenza di una porta, sembrano prestarsi ad essere interpretati come un piccolo altare, o comunque una struttura con cui dialogare.

Le altre opere, realizzate tra il 2012 ed il 2014 su pellicola Fujifilm FP3000b e FP100c con un apparato Polaroid Colorpack III del 1970, mostrano invece, come detto, in una modalità sospesa, anzi ad incastro, tra sensorialità e pensiero, delle vedute a cui concorrono scatti in cui protagonista è la vuotezza di un cielo grigio, altri in cui domina la tumefazione di un buio profondo, ed altri in cui una forma si indovina, o vacilla, o si forma, o assurge talvolta a fulcro decisivo del puzzle, in un dispositivo complessivo che inserisce la problematicità, se non il conflitto latente ma insanabile al fondo delle cose, all’interno di visioni di un territorio, quello reggiano, in cui l’inerte attesa di un’improbabile illuminazione alligna sia nelle tracce e nei solchi sul terreno brullo, sia nello spazio aereo plumbeo, attraversato talvolta, come in una mappa per il nulla, da pali e fili della luce. Spaggiari fa emergere tutti questi dati minimi come insorgenze di un mondo sotteso, che vive in un altrove delle forme che noi, come dicevamo, impegnati in altro, per lo più ignoriamo, perdendoci la possibilità di affondare disperatamente ma con piena emotività nella poeticità della provincia.

Abbiamo parlato di montaggio, ma è evidente come, a parte il fatto che nella scelta del soggetto è già implicita una pratica di montaggio, il prima e il dopo di ogni immagine sono relativi a chi guarda, dato che nell’immagine non succede nulla. Eppure l’esperienza della “durata” che viene sollecitata da queste opere, che sono immagini ferme, fanno riflettere sul concetto di “abitare”: l’artista ha abitato e abita quei luoghi, li ha vissuti e ne ha fatto qui un’esperienza traslata che con tanta analiticità costruisce in un unicum un prima e un dopo, come se volesse attualizzare la “lezione” cubista e trasporla in fotografia, facendone un resoconto che sintetizza momenti e punti di vista diversi. D’altronde Spaggiari, pur sapendo perfettamente che il soggetto in fotografia è predominante, non lo rispecchia e non lo trasfigura, ma bensì lo riflette, non scegliendo soggetti che per la loro piacevolezza si pongano come “artistici”, che siano “commestibili” per lo spettatore medio; no, qui domina, come già accennavamo, il travaglio della realizzazione, in modo che la scelta del mezzo fotografico e la rinuncia all’aura di benjaminiana memoria non comportino la riproducibilità “facile” di una visione prodotta unicamente dall’apparato. Anzi, Spaggiari si sente e opera come un pittore che lavora con le foto. La fantasia quindi non c’entra, ma sicuramente l’immaginazione sì. Ad esempio, nel caso dei dettagli molto scuri, l’artista si è sentito come un incisore, mentre in quelli in cui la gamma tonale è protagonista, si è sentito più pittore, di volta in volta tarando l’esposimetro su una zona bianca o nera o su un grigio medio.

Nel momento in cui però assembla tutti i singoli dettagli per comporre la visione d’insieme, si creano situazioni estetiche in cui interviene con scelte che sono decisive. Ci sono parti di certe opere che non corrispondono ad ortodosse regole estetiche ma rispondono al rigore della metodologia, come le parti in cui il margine dei singoli scatti emerge a formare una cesura che un purista potrebbe percepire come indesiderabile, una serie di tagli, di bordi che sezionano un’area che normalmente richiederebbe omogeneità ed integrità. Ebbene, eliminare questi “difetti” equivarrebbe però ad un tradimento del criterio generale. Viceversa, nell’opera con il grande albero c’è sulla destra, ma al centro rispetto alla dimensione verticale, una striscia bianca che è stata traslata lì ma che apparteneva ad un altro punto della location fisica: era parte del bordo di un marciapiede, ma il dettaglio relativo ad esso è stato collocato a metà quadro per aiutare a cogliere, suggerendola, la curvatura del sentiero, dato che altrimenti il movimento sinusoidale di quest’ultimo si sarebbe perso. In un altro lavoro, in una zona si può cogliere una contrapposizione tra una insorgenza (una forma che emerge più o meno nettamente) ed una “cancellazione”; è quindi quasi un chiasmo, un punto animato da una dialettica delle opposizioni, definito versus indefinito, una vicinanza opposta ad una lontananza, con lo sguardo che sorvola, rimbalza, si interroga. D’altronde, come scrive Michele Corleone nel catalogo, Spaggiari non mima il visto, non lo rappresenta, dal suo generare immagine “emerge un pensiero-cinema nel senso di un piano singolare di presentazione, spostamento e drammatizzazione dei concetti” in cui si esce da quello Spazio che sembra contenerci, per tessere una trama di tagli e compartiture in cui l’esigenza di essere lì si riparametra di continuo, si reinventa dei limiti, ridefinisce zone.

Nella seconda sala sono esposte opere che, pur non vedendo come protagonista una narrazione, hanno comunque un valore affettivo, si potrebbe dire quasi feticistico in senso antropologico. Certo, anche di fronte alle opere presenti nella prima sala qualcuno può chiedersi dove andrà il battello che ha appena lasciato il pontile, o chiedersi come mai non ci sono presenze umane nelle foto, ma ciò che appare più rilevante è l’intervento sul reale, la gestione del materiale. Invece nel secondo ambiente della galleria Interzone i motivi pratico-tecnici vanno ancora più a sostegno di significati profondi, anche se va ribadito che le due dimensioni, il procedimento tecnico e la simbologia affettiva, fanno parte di un processo globale. Di fatto, però, il gatto ritratto accucciato sulla poltrona di vimini ha quindici anni e l’artista ha inteso, incidentalmente nel processo creativo, eternarlo per poterlo avere con sé più a lungo di quanto la Natura gli concederà. Un discorso simile ma diverso può essere fatto a proposito dell’albero di albicocco, che – racconta Spaggiari – nella realtà è più spelacchiato di come appare qui, ma qui risulta ancora più immerso nell’ambiente e nell’atmosfera ed inoltre anch’esso è immortalato. La casa, l’orto, il silenzio, l’ombra e la luce. Ed il tavolo e le poltrone di vimini, un ciuffo di melissa (un’erba da insalata), cassette di plastica, sono tutti elementi che emergono da immagini che non fanno racconto, non si condensano, ma mantengono un legame con la nube di significati labili ma suggestivi che si sprigionano dalla struttura e dalla logica della composizione. L’albicocco, tanto per esemplificare, è presente in diverse piccole immagini, ma in realtà assolve sempre anche ad una funzione nell’ordinamento generale. Si identifica dunque non un prima e un dopo, come già dicevamo, ma un loop tra i due estremi, un durante che modifica l’esperienza percettiva perché induce lo spettatore a pensare quella situazione, ad entrare nell’immagine per immaginare il percorso mentale che l’ha portata ad essere così interpretata, e questo, paradossalmente, anche se l’immagine totale è in definitiva sempre quella, non è come al cinema dove ciascuno è obbligato a ricordare cosa c’era prima per metterlo in relazione con ciò che seguirà. La stessa bombatura dei singoli scatti che compongono le opere è qualcosa di voluto proprio per restituire, pur nella fissità dell’immagine totale, il senso di una visione non “piana”. L’artista infatti avrebbe potuto facilmente risolvere questo “problema” tecnico utilizzando della colla da parati, ma ha pensato invece che questi micro-scatti multi-prospettici dovevano “giocare” con la luce, suggerire ed invogliare ad un rapporto tra fruitore ed opera che sia ravvicinato. L’osservatore può certamente apprezzare il lavoro da lontano, ma magari può notare un riflesso che lo spinge ad avvicinarsi fin quasi ad avere un rapporto tattile con l’opera, dato che peraltro Spaggiari non ha utilizzato il vetro per proteggere i suoi lavori. Anche per questo c’è una spiegazione che, date le premesse, può risultare persino ovvia: il vetro richiama l’idea della teca, del museo, e quindi di oggetti morti, dimensione cristallizzata da cui l’autore legittimamente rifugge. Anche l’intelaiatura è concepita in modo da evitare l’invadenza di ombre indesiderate e quindi l’intromissione di elementi che impediscano l’immersività dell’esperienza di fruizione.

Integra la mostra una seconda installazione in cui una piccola foto è montata su una L capovolta, forse un angolo di una cornice di legno grezzo, sul cui bordo è disposta la miniatura di una panchina con un omino seduto sopra, a pochi centimetri dal “precipizio” rappresentato secondo tale rappresentazione, dallo spigolo ortogonale della cornice di legno. La stessa foto, in questo caso, ritrae non una veduta della campagna emiliana ma un angolo di un interno domestico in cui si rinviene la stessa figura geometrica rappresentata dalla L capovolta. L’intenzione è quella di creare un gioco di rimandi formali e al contempo suggerire la scala di grandezza possibile di una foto, far pensare a quanto potrebbero essere grandi queste fotografie.

Inoltre, appena dopo l’ingresso della seconda sala è predisposta una postazione atta ad ospitare chi vuole seguire un video, intitolato “Altri raccolti”, in cui l’artista legge delle parti della sua tesi di laurea in cui si discute delle possibilità applicative/dimostrative della teoria sulla pratica poetica e asserisce che i nessi nascosti non hanno solo a che vedere con la struttura ma con tutto l’insieme. Le due categorizzazioni della fotografia (sulle cinque teorizzate da Spaggiari) vengono, attraverso la lettura, decontestualizzate e utilizzate come traccia sonora su riprese girate dal gallerista Michele Corleone, di Interzone, a casa dell’artista, e si osservano le labbra e il mento barbuti di Spaggiari che leggono passi relativi a “…occhi che abitano, che rimandano ad altre morfologie…”, mentre impulsi e diversi tipi di noise sonori sono montati sull’immagine emblematica, poliprospettica e spettrale (una di quelle piccole, in mostra) degli alberi di un pioppeto stranamente chiaro, che sembra muoversi…

IL TEMPO DELLA MESSE, istantanee di Marco Spaggiari a cura di Michele Corleone
Per informazioni: +39 347 5446148
La mostra è realizzata in collaborazione con CameraOscura di Roma.

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il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

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