Ray Bradbury – Nostalgia, ombre e distopia

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Ray Bradbury

Lungo articolo-omaggio ad un autore che, dotato di una sensibilità non comune, ci ha consegnato, tra l’altro, due grandi capolavori della fantascienza: uno sulla colonizzazione passata e futura, e uno su una distopia che vede la Cultura quasi cancellata col rogo di tutti i libri! Francois Truffaut ne ricavò un eccellente film… 

Ray Bradbury, la nostalgia e… un piccolo canto cyberpunk

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Ray Bradbury

Ray Bradbury è scomparso quasi 7 anni fa, il 6 giugno… Ci ha lasciati affondati in un’epoca che sicuramente non gli era congeniale, per molti aspetti.

A chi non lo conosce che superficialmente sembrerà strana, questa affermazione; si penserà che uno scrittore di fantascienza sia impegnato a fare previsioni in chiave affabulatoria e che perciò sia pronto a tutti i futuri possibili.

E invece Bradbury, con la sua luminosa carriera, aveva una importante vena malinconica, era un nostalgico di un’epoca che già quando scriveva i suoi maggiori capolavori non esisteva più.

Di certo, essendo americano, non si può neanche lontanamente supporre che lui fosse un nostalgico nel senso italiano sbagliato; piuttosto, lo era nel senso che rimpiangeva un’America distesa, tranquilla, forse in certa misura perfino ingenua, a ripensarci oggi, quale quella in cui lui era cresciuto quand’era giovanissimo, a Waukegan nell’Illinois, quella degli anni ’20, severamente segnata, sul finire, dalla Grande Depressione.

Naturalmente, un autore decisamente innovativo per i suoi tempi come Bradbury, anche se dotato di una sensibilità che lo orientava ad una angolazione fantasy della fantascienza, non poteva non mostrare la sua versatilità confrontandosi col tema del non-umano e del post-umano, e quindi in senso lato del cyberpunk.

E perciò tra le sue antologie più note figura, accanto a quella dark Gioco d’Ottobre, un titolo come Io canto il corpo elettrico!, che è piuttosto eloquente. Questa frase evocativa deve la sua allure poetica al fatto che è un verso del sommo vate della poesia USA, Walt Whitman, che lo scrisse nella celeberrima silloge che rappresenta un pilastro della cultura americana, Foglie d’erba. La lirica in questione è proprio Canto il corpo elettrico, in cui si legge, tra l’altro:

“Nel capo il cervello che elude tutto, | in esso e sotto esso la radice degli eroismi”
– Canto il corpo elettrico, 7, p. 124

Dato che nel prosieguo del presente articolo il lettore incontrerà degli spoiler delle due maggiori opere di Bradbury, ritengo qui di non rivelare invece il messaggio del racconto di Bradbury sul “corpo elettrico” limitandomi a raccomandarne la lettura insieme ad un altro importante racconto della raccolta: “Il bambino del futuro”, che mette insieme l’attenzione dell’autore verso i giovanissimi e l’inserimento delle macchine nel delicato rapporto madre-bambino, un aspetto credo inedito nel panorama squisitamente cyberpunk.

Poeticità, idealismo e metafore

Ma tornando alla disposizione di spirito dell’autore, va detto che, anche se poi nelle sue opere ha immaginato un’umanità colonizzatrice o distopie che negano la cultura, e perfino storie inquietanti in cui viene mostrato il lato un po’ crudele dei bambini, al fondo Bradbury è sempre stato mosso da quella nostalgia, da quel languore, che gli faceva tingere di un malcelato idealismo tutte le sue prove narrative, che riuscivano perfette ed emotivamente coinvolgenti proprio per la profonda umanità che caratterizzava l’autore.

In questo rappresentava infatti un unicum nel panorama fantascientifico; aveva un afflato in buona misura poetico, e per lo più un atteggiamento di fiducia verso il futuro, e in particolare verso i viaggi spaziali – si veda la sua antologia Troppo lontani dalle stelle – che considerava come un destino di crescita, e glorioso, a cui l’umanità era chiamata e a cui non avrebbe dovuto sottrarsi, al netto delle proteste di parte dell’opinione pubblica per l’utilizzo delle risorse finanziarie statali per l’impresa aerospaziale invece che per le infrastrutture ed altre necessità della vita civile. In questo era senz’altro un progressista, ma ispirato da una visione romantica.

Fu proprio quella visione romantica che lo spinse una volta, in una autopostfazione ad una sua antologia, Tangerine, a dire che si sentiva grato per aver passato tutta la vita, in pratica senza aver fatto altro, ad elaborare metafore:

“Così, è come se non avessi mai lavorato, nemmeno per un’ora, in tutta la mia vita. Per anni le metafore hanno continuato a bombardarmi, ma io non sapevo cosa fossero, né sapevo bene cosa significasse quella parola. Il riconoscimento delle metafore è arrivato tardi, quando ho capito che il 99% delle mie storie erano pure immagini, tratte dai film, dai fumetti della domenica, dalle poesie, dai saggi, dalle prodezze di Oz, Tarzan, Jules Verne, del faraone Tutankhamon, e dalle relative illustrazioni”.

Anche questo elenco (sicuramente non conclusivo e un po’ scherzoso) di eterogenee fonti di ispirazione ci permette di cogliere come Bradbury, nato nel 1920 e figlio di un operaio elettrico di origine inglese e di una casalinga dal cognome svedese, si fosse nutrito in gioventù, da autodidatta frequentatore delle sale di lettura della biblioteca comunale di Wakegan, di prodotti culturali e figure più o meno di fantasia che avevano un alone leggendario ma anche ai confini della favola, come un ricettivo ragazzino di provincia quale era.

E non suoni, questa, come una diminutio, perché quella curiosità, come si raccomanda ancor oggi ai giovani creativi, lo ha portato a restare un po’ fanciullo e ad avere come scrittore uno sguardo fiducioso che in un lettore adulto inducono una certa tenerezza e un’adesione, più che empatica, addirittura affettuosa, a certe visioni.

E lui stesso, dichiarandosi “fortunato a vivere acchiappando metafore in fuga”, ha trovato in questo la forza per collaborare con riviste specializzate in fantascienza come la celebre

Weird Tales e successivamente passare dalla raccolta di racconti che acquisì compattezza solo nel 1950, di Cronache marziane, opera imprescindibile per ogni lettore eternauta, a fare esperienze di sceneggiatura (memorabile quella per Moby Dick, la balena bianca di John Houston, quando adattò per il grande schermo il capolavoro di Herman Melville) e a scrivere romanzi quasi mainstream come L’estate incantata (si può parlare per questo testo di “realismo magico”, un genere letterario con la sua tradizione, anche italiana), a cui sono legato per motivi personali anche se chiaramente un’opera minore, e che è pervasa proprio di quella nostalgia per gli anni ’20 cui facevo riferimento prima.

Di questa storia, nel contesto di una placida cittadina americana di provincia, mi è rimasto nella memoria l’incontro intergenerazionale tra un garbato giovane col futuro davanti ed una anziana e distinta signora, che scoprono, discorrendo amabilmente, delle affinità elettive all’ombra del portico della casa di lei.

Il dettaglio importante del Dandelion Wine (che è anche il titolo originale), un vino prodotto con petali di dente di leone e altri ingredienti, in genere agrumi, e che, preparato dal nonno del protagonista, dodicenne alter ego dell’autore, assurge a metafora che accorpa tutte le gioie dell’estate in una sola bottiglia, evocandone così chiaramente in modo sinestetico aromi e sapori, amore, senso della natura, desideri passati; infine, ricordo anche, lungo la descrizione dei pomeriggi lunghi in giro per le strade, l’allungarsi di “ombre” in cui si coglie l’inquietudine portata a materializzarsi in altre opere dello scrittore.

Cronache marziane

E per l’appunto è proprio sulle ombre presenti nell’animo degli umani che Cronache marziane si interroga: la grande metafora è che il Pianeta Rosso attende enigmatico e sonnacchioso i suoi colonizzatori, e che quindi siamo noi i veri marziani, ignoti anche a noi stessi.

Poi i marziani si palesano e ne nasce  un confronto-scontro fra due maniere di intendere la vita e l’universo, che ricorda, sia pure in modo estroso e poetico, i nodi del lungo dibattito storico-antropologico sul colonialismo europeo (verso il continente nordamericano) e sulla sottomissione dei popoli (i nativi americani da parte degli yankee).

Bradbury si concede questi accenti critici accanto alla attenta, proprio perché sfuggente, descrizione della magia arcana di una civiltà più raffinata e spirituale, quella marziana, che i terrestri, veri barbari, imbevuti del mito della Nuova Frontiera, sono ansiosi di cancellare trapiantando invece tutta la loro mentalità, usi e costumi, sul pianeta alieno. Nella prima parte dell’articolato romanzo c’è un episodio potentissimo: i primi esploratori si scambiano ipotesi e teorie quando trovano tipche case americane adagiate placidamente sul suolo marziano, e quando scoprono che queste sono popolate dai loro rispettivi parenti scomparsi da tempo!..

Potrebbe essere una seconda opportunità di vivere l’amore per i propri congiunti, oppure una allucinazione pericolosa, indizio di una devastante follia, con l’ambiguità resa magistralmente da Bradbury con sapienti e sconvolgenti tocchi, alternati tra familiarità melliflua e inquietudine indefinita.

Quando tutti si saranno lasciati ingannare dal contesto familiare anni ’20, la trappola, creata telepaticamente ed ipnoticamente dai marziani, si chiude sui primi coloni: la prima missione marziana fallisce così. È però significativo che gli abitatori primigeni del pianeta si difendano usando qualità che hanno a che fare con l’emotività profonda.

In altri passi del libro i marziani, divenuti rari, si aggirano nelle loro vecchie e disabitate e silenti città portando ristoro alle sofferenze interiori di qualche colono, dimostrandosi dunque non perfidi.

Un altro racconto solleva il tema ecologico: quando i terrestri si sono ormai installati sul pianeta, uno di loro con pervicacia insiste a piantare semi sul suolo fino a ottenere vegetazione e perfino una pioggia. Un altro racconto serve ad informarci che sul pianeta-madre, la Terra, scoppiano nuove guerre inducendo alcuni coloni a tornare; come dire che siamo incorreggibili e che non riusciremo mai a risolvere i problemi “a casa nostra”.

Nell’ultimo racconto, viceversa, una famiglia intera compie il percorso coraggioso, ma probabilmente logico, di fuggire dalle guerre sulla Terra per andare clandestinamente su Marte ad occupare gli insediamenti lasciati disabitati dai coloni. Ma il tema familiare ricorrente, caro come già detto, a Bradbury, si tinge di aspetti struggenti: i tre bambini sono dal padre tenuti all’oscuro della destinazione del viaggio e dell’intenzione di non tornare indietro mai più, e quando ciò viene rivelato, il più grande si assume il peso di invitare i fratellini a pensare ad una nuova casa, ma… iconico, a suo modo toccante e anche valido come segno di speranza  è il fotogramma finale, con la famiglia al completo che si guarda riflessa in uno specchio d’acqua, in uno dei canali del pianeta, osservandosi come un quadro d’insieme dei “nuovi marziani”.

Sono loro, dunque, piuttosto che i coloni giunti in missione, l’analogo vero dei “padri pellegrini” che fondarono l’America?

Il libro è dunque ricco di spunti, con momenti di leggerezza, ma – oltre ad essere un romanzo di fantascienza è un oggetto letterario mutante che trasfigura i canoni del genere per divenire un esperimento di libera fantasia capace di porsi globalmente come un’allegoria socio-politica che, dando voce a personaggi di varia umanità, si interroga sul valore dell’utopia – offre riflessioni anche religiose e si manifesta però in fondo amaro nel rilevare la possibilità della guerra di ghermire l’intero pianeta Terra e le sue migliori speranze.

Molto dopo mezzanotte: il gusto per le citazioni e il mistero

Nella antologia Molto dopo mezzanotte, in due volumi, che è una delle prime opere di fantascienza che kessi, da ragazzo, in realtà predomina il genere fantastico, e tra citazioni e omaggi culturali più o meno espliciti – a Dostoejevskji, Hemingway e Truman Capote, George Bernard Show e Thomas Wolfe, è il senso del meraviglioso e di incanto o di perdita a prevalere, e – a proposito dell’attenzione dell’autore verso i bambini – appare fondamentale per un giovane lettore il racconto In trappola (One Timeless Spring), in cui un ragazzo è tanto turbato e spaventato dai cambiamenti dell’adolescenza da viverla come una sordida intromissione aliena nel proprio corpo, custode di una umanità che si presagisce, evidentemente, essere una qualità preziosa che prima o poi sfuggirà di mano o ci sarà portata via.

Ray Bradbury presenta anche altre pagine come queste, di un sottogenere del fantastico che potrebbe essere definito come racconto sovrannaturale di formazione, e che, quando assume sfumatrue neogotiche, si può dire che abbia influenzato anche autori successivi di gran rilievo come Stephen King.

Basti pensare ad un suo altro racconto dal messaggio diametralmente opposto come), Il veldt (La savana dalla raccolta L’uomo illustrato, in cui ragazzini del futuro, persi dietro il fascino della loro stanza-giochi capace di trasformarsi in ambiente africano, congiurano contro i loro genitori con criminale anaffettività.

Anche questa è una metafora, sul cosa diventeranno i nostri figli, viziati da giocattoli tecnologicamente sempre più avanzati. Ma un altro racconto, quello che dà il titolo all’intera antologia Molto dopo mezzanotte, dimostra perfettamente la versatilità dell’autore nel creare storie dall’atmosfera un po’ ai confini della realtà in cui si passa dalla pietas sua caratteristica di base al mistero dalle tinte appunto fantascientifiche o, in questo caso, neo-noir: in questo racconto breve tre addetti ad un’autoambulanza raccolgono una giovane suicida sull’orlo di una scogliera, impiccata ad un albero; il più inesperto tra i tre non riesce a farsi una ragione di quella vita spezzata, probabilmente per una delusione d’amore, mentre gli altri due sono più cinici e rivendicano come necessario questo loro atteggiamento.

Quando il loro collega più giovane riesce a fare un po’ breccia nei loro cuori, la rivelazione: il cadavere che stanno trasportando è di un trans! Dovranno ora essere meno dispiaciuti o di più?

Fahrenheit 451: l’odiosa distopia dei pompieri al contrario – genesi e significato

Ma è il romanzo Fahrenheit 451, mirabilmente trasposto sullo schermo cinematografico da un altro grande come Françoise Truffaut ad ottenere un successo planetario diventando un piccolo classico.

Ma il suo incubo privato, cioè il terrore che la lettura dei libri e quindi la fantasia, venga perseguitata come un reato, lo rappresenta per la prima volta in Usher II, un capitolo di Cronache marziane con un chiaro rimando alla nota opera di Edgar Allan Poe La rovina della casa degli Usher.

Se la casa degli Usher è destinata dall’inizio a cadere in rovina, ma il suo racconto va conservato insieme ad oltre opere di fantasia proprio per il suo carattere ammonitore, questa preoccupazione di Bradbury, se lasciata ancorata alla Terra porta, in Fahrenheit 451, a rappresentare una società retta da forze politiche deviate – eventualità nefasta in qualche modo al centro delle ansie attuali – che si presenta tanto liberticida da proibire i libri e la lettura perché possibili portatori di messaggi nocivi al sistema e in generale incentivi al pensare, mentre è una forma di televisione cloroformizzante ad essere indicata come strumento privilegiato per restare allineati alla comunità (e al regime).

Va ricordato che lo stesso Bradbury ai suoi tempi è stato un autore che si distaccava dalla fantascienza canonica portandola invece, sulle ali della sua immaginazione, verso una dimensione di letterarietà tout court.

E quindi, come se avesse avuto sentore che i sostenitori della hard science fiction gli avrebbero contestato il suo disinteresse per la scienza e il suo essere sognatore – figuriamoci oggi, quando è di gran moda la fantascienza razionale, nutrita di dati e teorie scientifiche – ha confezionato questa preoccupante parabola sulla cultura minacciata dall’oscurantismo, e per giunta delineandola sulla scorta di una fantasia assoluta, che va difesa più ancora della scienza perché più fragile, anche se rappresenta in fondo la prima risorsa da cui ripartire in caso di difficoltà.

Da notare, a proposito, che, contrariamente a quanto pensava l’autore, la carta non brucia alla temperatura di 451 gradi Fahrenheit, ma a 185° oppure 360° Celsius, a seconda che si tratti di carta di giornale o carta da lettera; ma comunque l’autore non ne fa accenno nel libro, dove è solo il casco del pompiere piromane (poi ravvedutosi) Montag a recare in effigie il numero 451 (anche nel film): chiamiamola licenza poetica.

Lo spunto per la storia fu fornito a Bradbury dall’ostinazione isterica con cui, nel dopoguerra, il governo americano perseguì a lungo chi era sospettato di avere idee comuniste.

Quando la Commissione per le attività anti-americane arrivò ad esercitare una inopinata ingerenza nelle scelte artistiche degli sceneggiatori di Hollywood e quando il famigerato senatore McCarthy prese tanto potere da istituire continui interrogatori, lo sdegno dello scrittore giunse al culmine e la sua occasionale conoscenza con uno zelante poliziotto gli ispirò la figura del pompiere Montag, incaricato come tutti i colleghi di corpo di incendiare i libri anziché spegnere incendi, anche se l’orrore di Bradbury nacque quando da ragazzo seppe dei roghi nazisti di libri (e anche delle purghe staliniste verso gli intellettuali dissidenti).

In quegli stessi anni giovanili Ray Bradbury visse l’età d’oro della radio, e il passaggio al periodo di massimo splendore della televisione risale all’incirca a quando cominciò appunto a lavorare sui racconti che sarebbero stati l’abbozzo di Fahrenheit 451.

Bradbury vide questi media come una minaccia alla lettura dei libri, in quanto rappresentano per lo più una distrazione dalle questioni più importanti, opinione per molto tempo diffusa tra certi intellettuali almeno fino a quando gli studi culturologici e sociologici sui mass media non si svilupparono al punto da rivalutare i prodotti televisivi, per non dire del dibattito sull’informazione televisiva, anche se mantenendo l’attenzione critica.

Il romanzo è molto noto, come uno dei maggiori e classici esempi di letteratura distopica e fantascienza sociologica, e quindi molti di voi lettori sapranno già che il pompiere della “milizia del fuoco” Montag inizia a chiedersi cosa abbiano i libri di tanto speciale, perché alcune persone rischino la libertà e la loro casa per difenderli; si ribella ed è costretto a fuggire unendosi a un manipolo di resilienti che in modo commovente hanno imparato a memoria ciascuno un libro per poterlo conservare.

Quado un ordigno nucleare verrà sganciato sulla città, saranno proprio costoro a muoversi dalle campagne per andare a salvare il salvabile e ricostruire a partire dalla loro sensibilità. Senza (autoritarismo e) censura, senza materialismo e senza massificazione.

Perché, come già accennato, nei momenti di difficoltà i sogni possono aiutare a dare forma alla realtà, ed una fantascienza meno scientificamente documentata, ma incline ad esplorare concetti profondi, e suscitare interrogativi e riflessioni etiche, intime e religiose (come anche farà Philip K. Dick dagli anni sessanta in poi), si è conquistata per questo una sua incontestabile nobiltà.

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il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

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