Un radioso RetroPhuture davanti a noi forse

Retrophuture (a destra) feat. MARG8 at Festival Estate50Hertz

Come sarebbe a dire: “cos’è Retrophuture Frequenzen”? Retrophuture Frequenzen rocks! Guardate i 6 minuti e 39 di Chanson de l’Autoroute (Farewell my love) del 2013 e vedrete un immaginario autodromico lussureggiante, in cui concezioni di un futuro a quattro ruote vengono illustrate da un design oggi visto come falsamente ingenuo e fatale: ci guida in una sarabanda di rutilanti scorci di città colti in flusso energetico, mentre prototipi vintage e modelli dalle velleità aerospaziali o pop, cullati dall’afflato spirituale di tastiere stellari o distorti da ottiche avantguard, scivolano lungo piani alternati o splitted. Alludono alla compresenza di diversi piani di una realtà che plasma illusioni, ordina set di aspettative e tesse trame di sviluppo che in altre dimensioni hanno saputo convogliarci in trionfi telepatici e liberatorie autostrade dell’ESP.

I mixed media congiurano nel farci ondeggiare, all’interno di questo video, in modulazioni dello Spazio e del Tempo in cui l’autostrada ed i vettori che vi circolano sono motori e piste della nostra memoria, uno scenario intracranico – che rimanda in qualche modo il Ballard di La mostrra delle atrocità – in cui le promesse di felicità e le realizzazioni di utopie governabili con manopole ergonomiche hanno creato solchi euforici su cui la disillusione scava inni sublimi alla nostalgia dell’irrealizzato come la puntina di un giradischi cosmico.

Magnifico anche The Airport, del 2012 (04:30). Qui i barbagli visionari di un’interpretazione anticipatoria della tecnologia che fu ci circonfondono animando la tradizionale rappresentazione del non-luogo. Sottili linee di forza e legami incerti ma insinuanti tra diversi momenti di un Novecento ultramodernista tracciano aure di forza attorno a velivoli la cui inquietante prossimità con gli umani minaccia di trasformare quest’ultimi in umanoidi pacificati, perfettamente adattati all’evoluzione sociopolitica imposta!

In un mondo che si attarda sull’ideologia del postmoderno, proponendoci assaggi e spigolature ma spesso perdendo il senso complessivo di una progettualità che ci porti fuori dalle secche, e prendere contatto con le visioni di RetroPhuture, alias Fabrizio Passarella, significa offrirsi un’immersione in una progettualità magari solo artistica, ammettiamolo, ma che del post-moderno si pone diremmo come summa spingendo anche per un suo superamento, sull’onda di quel digitale che forse i giovani a volte utilizzano con poca consapevolezza storica.

Mi scriveva l’artista, andando oltre il suo tipico grande dispiegamento di simboli retrofuturibili per riflettere anche sull’attualità:

“D’altronde – è tutto un gran minuetto esangue, gli ultimi giri di una società cadente più che decadente. Anche per questo uso provocatoriamente le grafiche socialiste, eccetera. Peraltro mi sembra che siamo già entrati nella terza guerra mondiale. Il mio rapporto col mondo arabo è sempre stato di fascinazione-repulsione, perché contiene elementi strutturali e tradizionali di luminosissima civiltà ed elementi invece di barbarie assoluta, che in quanto occidentale figlio (se pur alla lontana) dell’Illuminismo mi ripugnano profondamente. La distruzione di Palmira per me è una ferita aperta. Era uno dei posti più magici che avessi mai visto. Comunque, i burattinai sono tutti in occidente e nei loro alleati in Turchia, Arabia Saudita, Qatar, ecc”.

Il video Sturm und drang (https://www.youtube.com/watch?v=xW0HrGjB4ZA), a rivederlo oggi (è stato pubblicato nel luglio 2015), appare ancora più terribile e profetico, nell’accostare barbarie vecchie e nuove, nel mostrare le rovine di qualche città mediorientale alternate a quelle mostrate nel film Germania, Anno Zero di Rossellini, ma di certo una buona dose di spirito autocritico, da parte di noi occidentali, sarà ancora necessaria per affrontare a 360% la nuova situazione e risolverla con determinazione cogliendo però l’occasione per rimuovere anche le ambiguità che infestano la nostra società. Un atto d’amore verso l’Europa appare invece Last train from occupied Europe (Barricades mystérieuses), del 2014, che si dipana attraverso immagini d’archivio di luoghi, monumenti e simboli del Vecchio Continente percorsi da spie in incoginto, donne che lanciano addii e sconosciuti che sembrano stringere i denti, con il treno che infine sembra simboleggiare la Storia che avanza e che relega la sofferenza nel passato. Il canale di Passarella su Youtube, dove si possono trovare un buon numero di suoi lavori, è RETROPHUTUBE (crasi perfetta e geniale che innesta il riferimento all’attualità tecno-mediale di oggi nel corpo stesso della parola-brand ideata dall’artista, che già è un ibrido ossimorico):  https://www.youtube.com/user/ RETROPHUTUBE.

Conobbi Passarella nel 2012, quando, in una mostra personale romana, si presentò nella veste triplice di artista visuale ma anche di compositore musicale e poeta affrontando cioè in una prospettiva di scambio intermediale le tre forme di espressione artistica che più lo hanno da sempre interessato, ma di sicuro entrando nella galleria The Gallery Apart non si poteva non venire risucchiati da una di quelle immagini 80 x 80 cm, realizzate in stampa fotografica su alluminio, che l’artista ci presentava al posto delle sue elaborate immagini squisitamente pittoriche.

In Art, del 2012, sembra che il salone raffigurato nel famoso collage dell’artista proto-pop inglese Richard Hamilton “Cos’è che rende le case d’oggi così diverse, così attraenti?” (1956) si fosse ibridato con il collage di Raoul Hausmann Tatlin in casa (1920); ciò come per produrre un ambiente casalingo votato alla sperimentazione del rapporto uomo/donna-macchina in cui le concezioni futurologiche disseminate lungo il Novecento si puntellano l’una con l’altra in una euforica compresenza funzionale: delle donne – una anni ’40 con la testa robotica dai tratti antropomorfi stilizzati afro-picassiani, l’altra anni ’50 seduta su una sorta di lavatrice e reggente in grembo un modellino di aereo bimotore grande come lei – si godono un relax ultramodernista ascoltando musica da un magnetofono collegato a cuffie speciali; una terza figura femminile, in abito nero da parata futurista, è circondata da un gioco di molle concentriche che forse è un campo di forza circolare. Frattanto, uomini o col cappotto nero di pelle da spia nazista o in tuta da operaio sovietico ripreso da Dziga Vertov, sono concentrati nella messa a punto di dispositivi colossali atti alla regolazione delle fantasie di dominio dell’uomo sul suo destino, o meglio, alla loro sintonizzazione fine sulle possibilità tecnologiche disponibili in un presente immanente e tronfio di fiducia illimitata nella scienza, alludendo perfino all’uso artistico dei tubi al neon, così come viene proposto da ipotetiche pubblicità anni ’50, pop-concettual-retrofuturibili.

Come si intuisce da questa avventurosa descrizione, Passarella si poneva già nella sua ricca e ben documentata produzione pittorica come uno specialista dei campionamenti, capace di attingere anche da repertori derivati dall’Oriente, con cui ha avuto, nell’arco della sua carriera, diversi momenti di contatto, ma ci pare di poter dire che le sue radici occidentali non sono minimamente in discussione. Infatti, negli ambiziosi lavori quantomai multimediali di questi ultimi anni, messi da parte i pennelli, si è dedicato ad una densa reinterpretazione di una miriade di immagini del futuribile che fu; sono state accompagnate da irresistibili riferimenti alla cultura musicale del nostro tempo, ed in particolar modo allo sperimentalismo di Terry Riley, La Monte Young e Steve Reich, più un tocco di Prog Rock, la decadente trilogia berlinese di Bowie realizzata in collaborazione con Brian Eno e Robert Fripp, i suoni ambient dello stesso Eno solista, il primo pop meccanico di Gary Numan, il Krautrock dei Kraftwerk e dei Tangerine Dream (tra gli altri) e le loro ricadute massificate degli anni ’80, compromesse con il pop e la dance – e parliamo del Techno Pop – e certi strati del New Romantic occupati da bands come Joy Division e Ultravox, fino alla deriva sfarinata degli effimeri gruppi Synthpop scovati su Internet.

L’output musicale del progetto che ebbi modo di apprezzare tre anni fa, caratterizzato, malgrado la “maldestra verginità tecnica” – confessa l’autore – da una certa complessità, è stato elaborato in casa, una casa – come dicevamo prima – divenuta un laboratorio di alchimìe estetiche: in questo caso, studio di registrazione oltre che atelier. Tutto ciò, va detto, con un approccio tecnologico-artigianale fondato su conoscenze autosviluppate; un approccio non condizionato, molto liberatorio proprio per l’indipendenza, l’autodeterminazione creativa che un non-musicista come Passarella (e come lo  stesso Brian Eno si definiva) può avere e godere: pensando di essere semplicemente un artista che usa i nuovi software per la manipolazione dei suoni come un ulteriore tavolozza su cui realizzare composizioni scaturite “come in una scrittura automatica surrealista”. D’altronde, che ognuno sarebbe stato in grado di fabbricare la propria musica era uno sviluppo che Passarella già presentiva all’inizio degli anni ’80 (“Ci sono voluti trent’anni, ma eccoci qua!”).

Il prodotto globale, invece, della miscellanea esposta nel 2012, satura di immagini, testi e suoni impregnati di modernismo eroico, esaltazione retorica della macchina e del superuomo, o di post-modernismo post-industriale fantascientifico, è un kit portatile, un condensato trasportabile e trapiantabile in qualunque contesto. Infatti, è rappresentato da un box, un “multiplo d’artista”, esemplificazione tarda ma ideale dell’”opera d’arte nell’età della sua riproducibilità tecnica” di benjaminiana memoria, consistente in un insieme di oggetti che racchiudono l’intero spettro creativo presente in quella mostra e non solo, vale a dire il CD con 24 brani musicali composti dall’artista, un libretto di 24 poesie, e le 24 immagini corrispondenti ai brani. Completava il box, col suo spessore riassuntivo, un DVD con un video. In quest’ultimo, sintesi riassuntiva rispetto a tutte le immagini statiche delle stampe su alluminio, e che si poteva presagire che fosse l’inizio di una nuova fase produttiva consacrata all’audiovisivo, ritrovai elementi già presenti nelle grandi stampe fotografiche su alluminio, ma animati grazie ad applicazioni video al computer e inseriti in “spezzoni storici scaricati dalla rete e filtrati: tra i tanti, documentari sulle Guardie Rosse maoiste, sui Pimpf hitleriani, cori e danze dell’Armata Rossa, Carmen Miranda, Rodolfo Valentino, ballerini di tango, un raro video sul “Monumento alla Terza Internazionale” di Tatlin, la Lichtskhatedrale dal Triumph des Willens di Leni Riefenstahl, sulle utopie urbanistiche della Russia stalinista e sul modellino della nuova Berlino di Speer” (citiamo dalla nutrita e gustosissima fanzine creata e distribuita gratuitamente dall’artista a beneficio dei visitatori).

La donna fotografata da Rodcenko grida graficamente un Elektronik!, e Musik! le risponde un pilota alle sue spalle, e infatti appaiono anche i padri della musica elettronica, del minimalismo, tra cui Robert Moog, Gary Numan, Clara Rockmore (la più grande virtuosa del theremin), tutti ampiamente citati nella parte musicale, ma anche Juri Gagarin, l’Orson Welles de Il terzo uomo con una Schneekugel al posto della pistola… Per non parlare delle dive del cinema Rita Heyworth e Ava Gardner e le loro colleghe tedesche ed europee catturate insieme ad altri in una danza suprematista, costruttivista, intorno alle epifanie geometriche dei vari monumenti e palazzi stalinisti e hitleriani e americani misti a manifesti di propaganda e illustrazioni di riviste vintage. Il tutto in un montaggio non da videoarte, o almeno non quello lentissimo, mirato all’analisi del rapporto tra tempo reale e filmico, di un Bill Viola, ma quello tipico dei veloci videoclip synthpop, perfetto per una coreografia a base di movimenti a scatto, espressione della poetica robotica degli anni ’80 (con la radice, Metropolis, non a caso attualizzata nell’’84 da Giorgio Moroder in versione rock). Un testo, significativamente recita: “L’arte è un vecchio giocattolo/ ingombrante spazzatura da museo/ Noi costruiamo in solitudine/ il battito della moltitudine/ Noi costruiamo sculture di suono/ pitture immateriali/ minimalismi monumentali/ concettualismi portatili/ Visionari disintossicanti artistici/ che si possono portare ovunque/ in un piccolo involucro musicale/ per stimolare il cervello/ Noi siamo Ingegneri (di musica) elettronici/ Costruttivisti romantici/ Noi siamo designer (di musica) elettronici/ Ossimorici Retrofuturisti”.

Va osservato che lo spirito dell’operazione, malgrado l’ampio uso di materiale iconografico e di propaganda della Germania e della Russia degli anni ’30, non rivela alcun intento ideologico, dal momento che l’artista riflette con evidente ironia sulle coincidenze estetiche che accomunano tutti i regimi totalitari, il gigantismo magniloquente armato di classicismo imperioso come nei monumenti dello Stadio dei Marmi, o dei Kolkosiani, o delle raffinatissime pellicole della regista di regime Leni Riefenstahl, simboli di una spinta reazionaria e modernista insieme, verso un futuro che si supponeva splendente. Lo stesso Passarella, da sempre affascinato dagli ossimori culturali, mostra questi linguaggi nel loro intrecciarsi con l’eredità romantica europea, con il decadentismo che poi promana dalla “musica delle macchine”, che unisce nostalgia, sirene di guerra, ritmi industriali, effetti misteriosi e melodie magari elementari ma toccanti; esaltazione di un eroismo post-umano brillantemente sintetizzato da David Bowie nel brano che “è stato l’inno della fin de siecle scorsa”, uniti alle ansie per la crisi dell’industrialismo piuttosto che per le catastrofi tipo Chernobyl. Anche il fascino delle rovine è, infatti, presente: sia nel senso di desolati paesaggi post-bellici, sia nel senso ultimativo del trapasso della stessa era postmoderna, un declino forse ciclico ma la cui manifestazione non solo economica è sotto gli occhi di tutti. Fascinazione e repulsione verso la scienza, “monumentalismo minimale”, “bricolage tecnologico”: ancora ossimori affascinanti ricavati dalla rivisitazione di un vastissimo repertorio di immagini raccolto in anni di paziente e fervente collezionismo e dalla riflessione sociologico-poetica espressa in testi dalla metrica stringatissima ma visionari almeno quanto i modelli derivati dal rock elettronico.

Il senso ultimo di tutto questo gioco di rimandi non è nella ricerca dell’effetto nostàlghia o nella strizzata d’occhio all’archeologia tecnologica, ma nella riflessione sul tramonto/crollo/decadenza/fine – in una parola, Untergang – di una fase storica caratterizzata appunto dallo stretto connubio tra gli elementi macro-culturali sopra elencati. Il progetto di Passarella mantiene la potenza di questa commistione ma si accresce nella lucida e spietata evidenza con cui fa risaltare lo stallo ideologico che ha portato alla presente deriva econo-micista; devono svilupparsi nuove categorie del pensiero, a partire dalla Storia degli uomini e delle idee a cui ci si deve ispirare ma criticamente per poter tratteggiare un futuro possibilmente migliore.

Nella stampa fotografica Electronic Music Engineering una distinta figura maschile, che dovrebbe essere Michael Rennie, attore in The day the Earth stood still (Ultimatum alla Terra), del 1951, considerato da Passarella l’epitome dello “spirito retrofuturistico dello scienziato manipolatore di energia”, si trova al centro di una stanza divisa in quadranti virtuali, forse apribile a comando su spazi esterni carichi di misteriose implicazioni mesmeriche. In questo spazio composito sono addensati, come sulla plancia di comando di un’astronave o di una centralina di controllo, tutti i dispositivi di una strumentazione tecnotronica imperscrutabile, con sovrapposizioni fluttuanti di simboli di carichi elettrofisici, e la visualizzazione ologrammatica di un cervello stilizzato. Questo è apparso in virtù dei comandi azionati dall’uomo pigiando, con sguardo carico di pietas o semplice perplessità, un bottone di un pannello accanto al quale compaiono diversi tipi e modelli di tastiere con altri pannelli per la rimodulazione dei pittogrammi, che a loro volta scorrono in fila sullo schermo, mentre umori trasparenti in forma di raggi simili a quelli dei Tesla coils serpeggiano come umori ectoplasmatici, suscitati elettronicamente anche da microfoni anni ’40.

L’artista, in virtù della sua recente dedizione all’audiovisivo, ha dichiarato recentemente, nonostante la sua solida formazione all’Accademia e la sua attività trentennale, di sentirsi spesso:

“più gratificato a fare performace nelle discoteche, in spazi non ufficiali, persino nei cimiteri, che non nel circuito ufficiale”.

Questa presa di posizione si ricongiunge, in perfetta coerenza, con gli strali polemici che l’autore indirizzava, nella sua fanzine (distribuita ai visitatori della mostra 2012, nella galleria privata sopra menzionata), contro l’obsoleto corto-circuito tra l’arte come snobistico status symbol con cui la ricca borghesia si diverte a scandalizzare il proletariato, rovesciando i ruoli fissati dall’avanguardia, e “il tritacarne di anime e cervelli di questo tardo capitalismo putrefatto”. Passarella auspica che un nuovo romanticismo disperato, dalla stessa carica eversiva e cinica del punk, intervenga a riscattare i giovani artisti dall’apatia, dalla volgarità allucinante di certi ingranaggi del sistema simili a talent-show, negando valore all’estenuata ondata neo-dadaista e alla vague (post)warholiana, che da tempo mostrano la corda. Provocazione estrema rivolta sia contro i vecchi regimi, sia contro provocazioni precedenti, interpretate impietosamente come la traccia maleodorante di una maniera messa a nudo nella sua ipocrisia espressiva. Parole scritte per spingere a voltar pagina e mettersi davanti un radioso RetroPhuture!

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il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

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