La Fotografia di Claudia Marini. Ritratto di mio padre

Come a voler spostare il cursore sull’asse global-local verso la seconda polarità con un atto di pietas, c’è qualcuno che ha dato un’interpretazione assai più limitata nello spazio, ma profondissima quanto ad intimità, dell’espressione “libro di facce”, traduzione di Facebook, uno dei più noti social network. Questo qualcuno, che su Facebook peraltro ha deciso fieramente di non comparire, è la fotografa Claudia Marini.

Trentina di origine – ma abita a Bologna da quasi vent’anni – si occupa di fotografia dal 1993, seguendo ogni passaggio della creazione di un’immagine fotografica, dalla fase della ripresa, allo sviluppo e poi alla stampa. Nel 2001 comincia a specializzarsi in fotografia di architettura e di interni, utilizzando il medio e il grande formato e attrezzature pesanti a banco ottico. Ha collaborato con diverse riviste ed editori e con diversi enti pubblici e privati per progetti editoriali. La sua ricerca artistica, costantemente su base progettuale, è narrativa e comprende sempre una serie di immagini. Il nesso che unisce fra di loro le fotografie ha sempre a che fare in maniera drammaturgica con il progetto di cui sono parte. Da sempre indaga il ritratto, come racconto di vita, come identità biografica, ma anche nella sua stretta relazione con i luoghi.

Claudia Marini è in mostra – ancora in questi giorni, precisamente sino al 16 ottobre 2014 – a Interzone Galleria Studio di Fotografia, di Michele Corleone, con un potentissimo progetto.
Si diceva, poco sopra, che questa mostra può essere connessa al tema del local, di un luogo specifico, sciolto da ogni dialettica con la dimensione globale o globalizzata, perché il lavoro è generato dall’urgenza di recuperare, compiendo un salvataggio dall’oblio, la memoria di una persona attraverso i suoi legami col paese di provincia in cui viveva. La persona in questione è il padre dell’artista, scomparso non molto tempo fa, e quindi la spinta emotiva è stata molto forte, e per di più moltiplicata dalla precisa volontà di conservare non solo il ricordo del familiare, ma di farlo collegando questa figura a tutti i volti contadini o montanari a cui l’uomo era connesso nel suo paese, Pejo. Il risultato è una intensissima galleria di ritratti fotografici in bianco e nero, di formato 30×40 cm, tutti collocati vicini e di seguito senz’altra soluzione di continuità che non siano gli angoli delle pareti della galleria. Il Ritratto di mio padre, dunque, si compone di un condensato di visi scavati dal tempo – la maggior parte dei soggetti sono anziani – che evoca una serie di sensazioni risalenti all’infanzia dell’artista:

“i suoni in lontananza, l’odore del sole e del fieno, la resina degli alberi sulle dita, la polvere del bosco, i colori forti del muschio umido, lo scricchiolio dei larici al vento, un certo tipo di luce che abbaglia, tutto ciò che mi ricostruisce sentimentalmente ciò che è stato per me mio padre ed il suo mondo”.

Quel territorio risulta per l’artista, come scolpito in quei volti quasi carsici, in molti casi, ed emana il senso del misterioso quanto caro legame che la unisce ad esso, attraverso gli occhi dei soggetti, vero fulcro espressivo dell’esposizione, che evoca quell’appartenenza che Claudia Marini non vuole far attenuare. Di fatto lei sin da piccola è vissuta con una certa ansia di trattenere il tempo, come se, ancora bambina, già ne cogliesse l’indifferente e tragico avanzamento incurante del carico d’affezione che permane abbarbicato ai resti.
Ad ogni modo, in questa serrata serie di ritratti attraverso cui si compone quello complessivo di un luogo e di una persona assente, il padre della Marini, si esplica in maniera esemplare il tipico modus operandi dell’artista trentina, che anziché soffermarsi come sarebbe stato più ovvio aspettarsi, su strumenti di lavoro tradizionali della gente di Pejo o sui punti di riferimento geografico/cultural/turistici, ha connotato ancora una volta, come è solita, la sua arte come un’arte di relazione, cogliendo “il sentimento che lega le persone fra di loro, quel qualcosa che le accomuna al di là delle singole identità”, un procedimento il cui afflato è tanto ampio da attingere infine anche a quella dimensione globale di cui si diceva all’inizio, ricomponendo questo dualismo così cruciale per l’arte e la comunicazione in era postmoderna. I visi ritratti, che Claudia ricorda uno per uno ricollegando anche le parentele che li legano (“Qui poi c’è anche suo figlio”, dice, dopo avermi indicato un volto pensoso effigiato in una delle foto), acquistano infatti anche un valore archetipico, antropologico, ponendosi come “emblemi dell’essere umani”. (Ri-)specchiandosi in queste presenze, si ritrova la tensione ideale, una muta intesa, che ci collega proprio a queste persone le cui occupazioni sono spesso così legate alla terra, ricordandoci la nostra comune matrice di esseri radicati con tutta la nostra polpa a quegli elementi primari che consentono la sopravvivenza su questo pianeta. E la circostanza che vede questi volti emergere dal buio del nero di sfondo e pronti a risprofondare in quello che può essere un doloroso oblio, suscita al contempo una sensazione un minimo inquietante. Il progetto è, infatti, anche un po’ haunting, come dicono i britannici, perché Pejo è piccola, come cittadina, e molti dei suoi abitanti stanno lentamente scomparendo, conferendo un surplus di valore evocativo proprio ai ritratti della Marini, che girano intorno sulle pareti bianche della galleria Interzone come una frattura dark, una faglia della percezione da cui si affacciano, come in un terremoto emotivo, presenze che sembrano come sul punto di raccontarci ognuno la sua storia oppure di scrutarci con burbero sospetto.
In effetti, racconta l’artista, un po’ come i pellerossa degli Stati Uniti credono che una fotografia possa imprigionare l’anima del soggetto ritratto, anche questi uomini del Nord Italia hanno avuto reazioni scosse e turbate osservando i “provini” che la fotografa gli mostrava. È stato solo durante la mostra allestita per la prima volta in una scuola di Pejo (in mancanza di una sede più adeguata) che anche i protagonisti degli scatti si sono riconosciuti nelle stampe singolarmente, ma anche, e con soddisfazione, nel blocco delle stesse come parte di un disegno complessivo che ha un significato profondamente sociale.
E così il tema della perdita è qui affrontato non erigendo un altarino al padre scomparso, ma al contrario evocandolo proprio in absentia, come un ponte invisibile gettato verso quel piccolo mondo a cui in fondo appartiene anche l’artista stessa. In Claudia Marini c’è sempre stata quest’urgenza un po’ ansiosa di trattenere qualcosa, per gestire al meglio il dolore dato dal tempo che passa, basti pensare alla sua antica abitudine di mettere da parte in un apposito cassetto penne, figurine (tutto acquistato in doppioni, proprio per questo motivo) e persino piccole ciocche di capelli e un pacchettino di origami giapponesi portato in dono da una signora, tenuto nel cassetto per 30 anni e poi passato per errore ad una figlia di sua cugina… In questo paese si usa ancora distribuire le memorie degli scomparsi tra i loro cari, e anche in occasione di questo evento, questa mostra che ha richiesto la partecipazione collettiva degli abitanti c’è stato uno scambio: quasi per ricambiare questo atto di protezione che è stato il fotografarli, si sono concessi offrendo tutto un carico di timidezze e tenere goffaggini, facendosi “sentire” in un modo finora sconosciuto, portando anche, in cambio, della legna da ardere (e si può facilmente immaginare come a 1584 metri di altitudine lo scaldarsi sia una necessità primaria). In effetti prima della scomparsa del padre la Marini sarebbe stata portata ad abbinare il volto del suo genitore ad i suoi amici di città, Trento, perché Pejo era solo il paese d’origine, in cui andare a passare le vacanze, in cui c’era la casa della nonna. Quando Claudia tornava su, però, sistematicamente tornava ad essere una di loro, e a parlare in dialetto stretto. Durante l’adolescenza le era successo spesso, ed era sempre vista, filtrata attraverso la figura del padre, come la figlia di Michele, anzi, la Michela. Solo dopo che il padre è passato a miglior vita le si è manifestata questa urgenza, di cui dicevamo, di eternare così la sua memoria e quella del suo mondo, ed ora per lei è un’esperienza totalmente diversa tornare in paese, ha un altro significato.

Claudia Marini ha lavorato tutte le foto al banco ottico, allestendo un piccolo set fotografico nella cantina della sua casa di Pejo (d’inverno, a 5 gradi centigradi, e accanto ai mobili e agli oggetti che suo padre usava per fare i suoi lavori di riparazione/di bricolage), per non costringere gli anziani che dovevano posare a salre le scale. Un paio di luci, una tenda verde scuro ed una sedia sono bastate, oltre all’indicazione, ai soggetti, di guardare in macchina; una richiesta, questa, che sembrò a lei stessa un po’ strana da rivolgere ai compaesani di suo padre, perché si rendeva conto di chiedere loro di guardare in un buco nero, una cosa un po’ spersonalizzante. La stessa indicazione invece le era parsa assai più naturale quando la diede, assieme ad altre, a degli attori di teatro, in occasione di un altro lavoro. Ed ebbe anche un po’ di timore nel mostrare ad alcuni dei suoi compaesani i provini – così cupi, in b/n, non a colori come si usa ai matrimoni – dopo che diversi di loro, durante la messa in posa erano rimasti interdetti per il fatto che lei utilizzasse “una macchina fotografica così vecchia” e si coprisse col cappuccio al momento dello scatto. Fu però ripagata dalla reazione molto positiva, commossa, di molti di loro di fronte alla resa in grande formato delle foto nella mostra finanziata dallo stesso Comune di Pejo e da altri enti. Ancora a proposito delle note tecniche, va precisato che il ricorso alla messa a fuoco selettiva (e l’impasto fotografico che ne deriva, nelle stampe) risponde alla volontà di tentare di rendere ancora più fantasmatiche le apparizioni di questi volti, che sembrano, secondo un’attrice che vide la mostra a Pejo, in procinto di risprofondare nell’ombra da cui provengono. Di certo molti tra i soggetti non si riconobbero e/o non riconobbero i loro parenti. Questo ha a che fare col rapporto misterioso che noi tutti intratteniamo con la nostra immagine, a partire dalla celebre “fase dello specchio” teorizzata da Lacan nel 1936: il bambino, tra i 6 e i 18 mesi per la prima volta fa la conoscenza, davanti ad uno specchio, con la propria immagine, ma questo incontro di norma avviene grazie alla mediazione della madre. È con lei e con il suo sguardo rivolto verso il suo piccolo, che il bambino si raffronta, inizialmente; e affermando questo, Lacan postula un io non centrale, come sintesi della personalità, ma alienato in modo primordiale, minacciato in qualche misura proprio da quello stesso Altro senza il quale non esisterebbe. Il nucleo più profondo dell’io sarebbe paranoico. In base a ciò, la tendenza comune a tanti artisti, di intrattenersi con alterazioni più o meno marcate della propria immagine può essere considerata, pensiamo, come un surrogato ludico-esorcizzante della terapia psicanalitica, un escamotage più o meno cosciente, a volte programmato, mirante a rafforzare l’io dimostrandone la sua plasmabilità. In questo senso può anche essere letta la presenza, nella serie, di un autoritratto di Claudia Marini stessa: la dimostrazione che il suo io è stato capace, con la maturità, di includere tra le sue tante sfaccettature, anche quel volto in versione paesana, riconducibile agli altri in virtù di “quel qualcosa negli occhi, nel mento, nella fronte…”.

La scelta di far rientrare il suo volto nella raccolta è maturata dinanzi ai primi provini, perché la fotografa è molto attenta ad evitare il protagonismo, è restia a comparire nei suoi lavori, tuttavia quando ha avuto tra le mani i primi provini ha realizzato che una sua inclusione sarebbe stata una soluzione naturale.

Questo lavoro è stato anche tutto stampato in camera oscura, paasso essenziale, questo, per la fotografa, insieme alla preliminare verifica dei provini, per capire dove poteva/voleva “andare a parare”; in un’operazione come questa più che mai, infatti, non ci si può solo limitare a progettare a tavolino, ma si deve anche “comprendere e andare sino in fondo”. In questo senso è stato determinante il dialogo instaurato con i soggetti anche durante la posa: se infatti la Marini è solita nel suo modus operandi, allestire mosaici emotivi, mostrando, come in questo caso, tante facce di un’unica immagine complessiva distanziandole pochissimo nell’allestimento sulle pareti, anzi scegliendo infine di non distanziarle affatto, facendo prevalere l’idea di un continuum, nel momento della posa e dello scatto, viceversa, lei ha scoperto la sua abilità nel guidare dolcemente, con lo sguardo, guardando o fissando o sorridendo ai soggetti, le loro espressioni, sapendo che la gente tende a rispecchiare col proprio l’atteggiamento altrui. Ed è davvero toccante immaginare, per lo spettatore, quei momenti in cui, al banco ottico (dove una volta che si è inserita la pellicola, non si può più osservare l’immagine) per evitare che muovendosi anche solo di un centimetro il volto del soggetto andasse fuori fuoco, “la Michela” li sollecitava con minime variazioni dell’espressione a mantenere o trovare quel certo tipo di sguardo che più li avrebbe artisticamente valorizzati. Queste persone, sia pur all’inizio timorose, o quasi ghiacciate dall’imbarazzo (e dal freddo) si sono affidate a lei durante quelli che son dovuti essere molto intensi ed intimi. Tutto ciò rimanda anche alle prime pagine della storia della Fotografia, quando, come scrive Walter Benjamin, l’aura dell’immagine era legata ai lunghi tempi di posa e al risultato degli scatti, che ancora appariva in relazione con la ritrattistica borghese. Ma in questo caso Claudia lavorò molto sulla relazione con tutti i futuri protagonisti della mostra, andando fin nelle stalle aiutando qualcuno a portare il fieno, e in generale fermandosi a parlare con tutti, lì in paese, facendo appunto come fanno loro, gli abitanti.
Essendo quasi tutte persone molto anziane, molti di loro stanno scomparendo, ma, come lo spirito del padre dell’artista resterà in questa fantastica galleria di volti, loro stessi ed il loro spirito di certo andranno ad amplificare la voce del richiamo delle montagne circostanti, a cui Claudia Marini ha dedicato due foto particolari, a margine delle altre, diverse, inserite in tondi perfetti su sfondo bianco, due scatti ad obiettivo puntato su quei monti “che per loro sono tutto”, un ambiente naturale mozzafiato, striato da impalpabili ed evocative nebbie, che avvolge tutto quel piccolo mondo in un’aura che pare appartenere a qualcosa di superiore, quel mistero che pervade tutto ma che in certe circostanze e in determinati luoghi si respira più a fondo.

Un inciso: il 28 settembre si è tenuto, sempre presso la galleria Interzone, il reading (con successivo brunch) del racconto L’astemio dello scrittore Mario Giorgi (autore con diverse intriganti pubblicazioni al suo attivo); si è trattato di una lettura collaterale in occasione della mostra della Marini; le voci sono state quelle di Mario Giorgi e della stessa fotografa. La storia, narrata in prima persona dal protagonista undicenne, esprime con grande attenzione al particolare e superiore sensibilità, le prime esperienze in una mescita di un giovaniissimo, con sullo sfondo le preoccupazioni ansiose della madre per il marito allontanatosi da casa e le profferte di matrimonio (al ragazzino!) di una cameriera del locale. Il ragazzo complice l’atmosfera particolare e l’effluvio di liquori assortiti, si trova due-tre volte sul punbto di iniziare il suo rapporto con le bottiglie, ma infine… resterà astemio e racconterà ad una donna (le cui parti sono state interpretate nel reading da Claudia Marini), da adulto, quel periodo e tutte le sensazioni ad esso legate.

Immaginiamo che sarà stato quasi fatale, per gli spettatori del reading, identificare gli avventori della mescita di cui si parla nel racconto, con gli abitantio di Pejo ritratti nelle fotografie del profondo progetto di Claudia Marini. Non ci si venga a dire, infatti, che nei paesi montani non ci sia una vineria/bottiglieria ben fornita…!
Info

  • RITRATTO DI MIO PADRE, fotografie di Claudia Marini a cura di Michele Corleone
  • in mostra dal 18 settembre 2014 al 16 ottobre 2014
  • martedì – venerdì, ore 15 – 20,30 sabato, ore 11 – 20 lunedì e domenica, chiuso per informazioni: +39 347 5446148 info@interzonegalleria.it
  • La mostra è realizzata in collaborazione con CameraOscura di Roma.
  • Catalogo Editrice Quinlan, 2013 – pp. 88 – € 30
  • Cofanetto fotografico in tiratura limitata con lo stesso titolo della mostra; in 5 differenti esemplari in tiratura di 3 copie, contenente ognuno una serie di 5 fotografie stampate su carta Hahnemühle FineArt formato: 9,2 x 13,2 cm -prezzo: €140
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il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

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