Loredana De Pace. Sono un cielo nuvoloso

In costante ed irrisolta emergenza, la memoria, specie quella delle persone problematiche, non si sa come vada trattata: se funziona apporta dolore o almeno tuffi al cuore; se la si fa tacere si ha invece l’impressione più che tangibile di perdere un patrimonio.

Loredana De Pace, fotografa valente e con già diverse esperienze espositive al suo attivo, ha a tal proposito sciolto il riserbo e senza paura ha lasciato che parte della sua produzione ci comunicasse un suo sguardo privato, il volto più autobiografico della sua ricerca, trasmettendo uno stato d’animo in modo palpabile, dando fiato ad una minuta e corposa serie di memorie della sua esistenza.

Le fotografie sembrano strutturate all’insegna di quella frase “È bello salvare qualcosa”, che risuona a volte, in frangenti simili, nelle orecchie di chi scrive questo  approfondimento. In effetti – e questo fa compiutamente parte delle intenzioni programmatiche dell’artista -, le migliori e più profonde indagini sul ricordo suscitano anche negli altri analoghe evocazioni; si tratta di operazioni che hanno una portata universale. Nel caso della De Pace, il vissuto ha, per sua stessa ammissione, il sentore disteso di flashes inteneriti su un’infanzia e adolescenza sereni, di cui sentiva l’urgenza di fissare i resti frammentati nel modo più agile e immediato – attraverso cioè la fotocamera incorporata nello smartphone e l’applicazione Hipstamatic, che incrementa negli scatti l’aura malinconica.  Non solo: la sua collezione-installazione, che è stata esposta e ammirata recentemente alla galleria Interzone, che ha da pochissimo chiuso la personale, è stata pensata e disposta in maniera particolare e molto avvolgente: si articola prima in una nebulosa (è il caso di dirlo) di frammenti esistenziali umorali e soffusi e tuttavia coloratissimi, poi in una coda in cui la massa di ricordi si assottiglia per poi coagularsi in modo forse più meditato in immagini singole di formato più grande o in più contenuti raggruppamenti.

Chi scrive non intende sottrarsi all’elicitazione di memorie e sensazioni e quindi, sull’onda lunga di immagini della De Pace come la tavola da stiro con il piano bruciacchiato, una spina di pesce rimasta sul piatto, e un guanto di gomma lasciato ad asciugare sullo stendipanni, il sottoscritto confessa di aver ripensato all’atmosfera nuvolosa e ovattata della seconda casa – nella sonnolenta provincia romana – di una sua importante ex; un appartamento lasciato disabitato per la maggior parte dell’anno e che fungeva all’occorrenza da nido d’amore, pieno di tanti piccoli oggetti, reperti di decenni ormai lontani, sempre in penombra e con la grande finestra del salone (schermata da una tenda ingrigita) che si apriva, già in autunno, sulle nebbie del verdeggiante e un po’ selvaggio vallone sottostante. La chiusura romanzesca e burrascosa della storia circonda oggi per noi di un alone di rimpianto quasi visionario le rimanenti scaglie di memoria di quel mondo, dissoltosi in modo doloroso per entrambi i protagonisti. Ma è proprio per non abbandonare me stesso al flusso di sensazioni quanto mai soggettive e fare così il protagonista, che ho preferito rivolgere alla giovane fotografa De Pace qualche domanda per lasciare che illustrasse in modo compiuto il senso di questo progetto così intensamente suggestivo, che dà voce a “Quello che c’era e che oggi non c’è più, o esiste in altro modo, in altro senso, con altro peso”.

Con la prima domanda vorrei entrare subito in medias res: il progetto Sono un cielo nuvoloso presenta numerosissime immagini, molte delle quali dettagli, di un passato e un luogo che tu conosci bene. In che misura pensi che la sua riproposizione in questa forma alteri in senso un po’ visionario quella realtà restituendone una lettura vagamente enigmatica e spettrale?

“Credo (spero) che non ci sia questo rischio. Le intenzioni che mi hanno mosso verso questo tipo di esposizione sono radicate nella realtà, quindi una visione spettrale non si addice al mio modo di concepire le fotografie esposte. L’enigma, invece, potrebbe trapelare, anzi è quasi certo, considerata la materia stessa della vita. In ogni caso il dono più sorprendente che è concesso a un autore è  ascoltare i feedback dei visitatori. Ciascuno, nella mia mostra appena chiusa a Roma, ha sovrapposto i propri ricordi, le esperienze personali alle mie fotografie, ricavandone visioni multiple che possono comprendere finanche quelle indicate nella tua domanda.”

Ora vorrei invece, al di là della mia prima domanda, che probabilmente è una provocatoria forzatura, che tu spiegassi invece, con l’aggiunta di qualche retroscena, qual è il patrimonio di affetti che tu dischiudi all’esterno con questa collezione, qual è il motivo – se si può dire – per cui provi un tuffo al cuore osservando l’insieme delle tue foto della serie (che io ho visto esposte in galleria http://www.interzonegalleria.it/store/shop/sono-un-cielo-nuvoloso-loredana-de-pace/ ).

“Si tratta degli affetti della mia vita che, nei miei cieli nuvolosi, hanno trovato una nuova forma. Le immagini sono state prodotte dal 2011 a pochi mesi prima dell’esposizione, e dentro ci sono la mia famiglia, la mia storia e quella dei miei cari. Ma anche quella di tutti: si nasce, si vive e la materia poi si trasforma in altro. Con la fotografia cioè mi illudo di poter gestire un poco la forma e la persistenza nel tempo di quell’altro, che nella vita invece resta ingestibile.
Chi, guardando il film della propria esistenza, non si emozionerebbe? Ecco spiegata la ragione del “tuffo al cuore” che provo ogni volta. Nelle mie fotografie della serie Sono un cielo nuvoloso – erano in mostra – ci sono cose vissute da me, nello specifico, da tutti in assoluto.”

Questo tuo lavoro (e la mostra lo ha ribadito) conferma che il portato emozionale, e in particolare nostalgico, di certa fotografia può emergere anche attraverso l’uso di una strumentazione digitale, senza la necessità di affidarsi romanticamente alla pellicola e a macchine analogiche col loro fascino un po’ vintage. Questa è una lezione che tu hai inteso trasmettere consapevolmente?

“Nessuna lezione, per carità. Ho scattato queste fotografie con uno smartphone anziché con una fotocamera reflex – a pellicola o digitale che sia – perché quando ho scattato avevo bisogno di farlo, non per una mostra, non per quello che sto scrivendo. Avevo solo la necessità di servirmi di uno mezzo veloce e leggero che mi permettesse di fermare quell’urgenza espressiva. E il cellulare è uno strumento più immediato che porto sempre con me. Inoltre, mi sono servita dell’applicazione Hipstamatic che mi ha permesso di restituire comunque alle immagini il gusto retrò che cercavo.”

Nella tua formazione – che poi è triplice: da fotografa, giornalista e curatrice – cos’è che più ha pesato? Le nozioni accademiche o le intuizioni sviluppate magari sin dalla tua infanzia o adolescenza?

“Più di ogni altra formazione o propensione, sono l’esperienza e la sinergia con le persone che lavorano in campo fotografico la mia continua ispirazione. L’essere, come dire, multitasking poi, mi ha certamente abituata nel tempo a una certa elasticità mentale, utilissima per trovare soluzioni e formule adeguate in tutti gli ambiti nei quali mi trovo a lavorare. La mia fortunata infanzia – ho avuto genitori e nonni davvero speciali – è stata preziosissima per accumulare da una parte nozioni visive, dall’altra per stimolare continuamente la mia curiosità.”

C’è stata una mostra o un autore o un libro o un’esperienza personale che ti hanno felicemente condizionato a inoltrarti sulla strada dell’Arte?

“Tante, tantissime mostre, visitate e recensite, un infinito numero di scatti dei grandi autori e le interviste che ho rivolto loro, i libri e le esperienze personali in ambito fotografico e non. Quando sono al tavolo delle letture portfolio per guardare le immagini degli altri autori dico spesso che per pensare e realizzare una buona fotografia è importante visitare una mostra, certo, ma anche fare una bella chiacchierata, gustare del buon cibo, passeggiare in campagna, leggere un romanzo, studiare molto e sapersi confrontare con gli altri. Sono operazioni indispensabili perché tutto è strettamente connesso.”

La serie di fotografie Sono un cielo nuvoloso fa dedurre che tu sia convinta che questa tua coloritura atmosferica interiore, tendente alla malinconia, sia propagabile intersoggettivamente anche al vero esterno, che sono gli altri. Tu pensi che sia possibile farlo anche puntando su composizioni un po’ minimali che tendono all’astrazione oppure bisogna sempre porre la maggior attenzione all’aspetto umano?

“L’anthropos è indispensabile, sempre. Almeno per me. Sebbene negli scatti di Sono un cielo nuvoloso il corpo umano diventi un frammentato del tutto – come il ricordo nella memoria – il rapporto con la sua presenza (e assenza) è costante, deve esserlo. Così come lo è quello con gli altri elementi che dal mondo reale sembra vogliano sfuggire, per la loro caducità o semplicemente perché il loro percorso giunge a compimento.

“Dopo aver dato un’occhiata alla tua produzione precedente, da OSP a Ecuador: il piccolo gigante, mi sembra di poter dire che il tuo sguardo esibisce una certa versatilità. Qual è il tratto che attualmente pensi che ti definisca meglio? L’attenzione al dettaglio, il mood intimista, la voglia di colore o la rigorosa compostezza di molte inquadrature?

“Essere rigorosa nella scelta delle inquadrature mi aiuta a fare ordine; il dettaglio mi serve a entrare nelle situazioni che fotografo. Sono propensa alla ricerca personale così come a quella sociale, e non credo di poter scindere quello che sono; il mio modo di fotografare dipende da ciò che ho bisogno di dire. Quindi, il rigore compositivo e la ricerca del dettaglio, dell’anthropos restano delle costanti. L’argomento in analisi può cambiare, liberamente…”

Mi sembra che tu interpreti la fotografia anche come un mezzo di relazione, con le persone e con gli oggetti. In questa mostra hai pensato anche a coinvolgere lo spettatore con quell’allestimento così particolare, composto da un grosso raggruppamento, quasi una cloud, di foto che a destra prosegue con una serie disposta invece lungo una linea orizzontale e con degli scatti di formato più grande invece in posizioni più distaccate? C’è una strategia particolare dietro questa dislocazione?

“L’allestimento, pensato insieme al curatore della mostra, che è Michele Corleone gallerista dell’Interzone di Roma, è assolutamente voluto: si tratta di un dialogo che comincia in modo convulso, una sorta di brusio nel quale si accavallano varie voci e che obbliga lo spettatore a mettersi in ascolto a orecchio teso. Guardando lo stesso muro c’è un’altra operazione da compiere: la zoommata fisica, chiamiamola così. Infatti, chi guarda è coinvolto a più livelli: prima subisce l’impatto forte di questa massa brulicante di piccole foto, tasselli quadrati di vita che si succedono velocemente; poi l’interesse dello spettatore si diversifica e, quindi, si avvicina – zoomma – su questa o su quell’altra foto. Per tale ragione chi guarda la mostra si accosta, a volte anche molto, alle immagini, per poi indietreggiare nuovamente e scoprire i cieli nuvolosi nel loro insieme.

Alla fine del muro, dov’erano esposte le foto in mostra, il discorso rallenta con alcune immagini singole che fungono da puntini di sospensione che sbucano dal blocco principale e proseguono da un muro all’altro, fino a raggiungere un momento di pausa: una sezione della parete che restava appositamente bianca e fungeva da pagina vuota, come quelle alla fine di un capitolo. La mostra proseguiva cambiando ritmo nella seconda sala. Lo stesso era anticipato e introdotto da una foto singola, ma stavolta di dimensioni diverse (da 10x10cm al 50x50cm). Si lasciava riprendere fiato al visitatore, insomma, per poi proseguire con un ritmo più lento, riflessivo. In ultimo, nella terza saletta c’èra un blocco quadrato di immagini 10x10cm nel quale giochi di incastri visivi compongonevano passato e presente, in una sorta di puzzle dove la dimensione spazio-temporale è finalmente governabile.

Ultima domanda: nel tuo percorso professionale, quand’è che hai cominciato a pensare di te stessa: “Ecco, sono davvero una fotografa”?

“Davvero…:  è un avverbio troppo definitivo, assoluto. Sinceramente non ho mai pensato questa frase così come è indicata nella tua domanda. Invece, sono certa di essere davvero una persona che non può fare a meno di osservare, fotografare, condividere.
Questo sì, lo penso spesso e la cosa mi rende felice.”

 Sicuramente questo renderà felice anche il topino in peluche che Loredana ha fotografato e ha portato, come oggetto, anch’esso in galleria; quasi testimone silenzioso e simpatico di tanti tra i frames della memoria che ha voluto condividere, e simbolo materiale, non solo iconico (l’unico, in questo senso) del valore anche immane che possono avere le piccole cose (anche per noi che un po’ trasognati al proposito scriviamo) e che non deve mai essere tradito ma solo conservato gelosamente. Ed infatti questo oggetto così tenero è uno dei pochi, tra quelli fotografati, ad essere rimasto inalterato, fedele a se stesso. Una fedeltà, come si vede, non solo ricambiata ma amplificata dalla fama di cui è stato ora investito!

Per avere un’idea della mostra, e per chi non ha potuto visitarla, o per rinverdirne la memoria, riportiamo qui il link ad un incantato video su di essa (per la regia di Marcello De Pace), presente su YouTube:

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il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

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