Luca Zarattini’s Tapis  Lapis: Strati di disegno fatti materia

Alcuni si chiedono: Perché mai si dovrebbe desiderare conoscere un artista personalmente quando poi, in definitiva, le sue opere, se è un artista visivo, valgono ciascuna più di mille parole? La risposta, in definitiva è semplice: anche quando si dispone della sensibilità necessaria a capire, si può desiderare di sentire come si sono generati quegli oggetti così prominenti ed irripetibili quali sono certe opere; e si può voler meglio capire, sempre sentendo l’artista, quanto profonda è la vocazione dell’autore, da quale sorprendente piega della soggettività hanno preso vita, se l’autore vuole poi raccontare una storia dietro questa genesi, o se invece crede fermamente che solo il suo lavoro debba essere protagonista. Nel caso del giovane Luca Zavattini, del quale è in corso la mostra personale Tapis Lapis alla galleria Interzone di Roma, per la cura di Michele Corleone e Lara Limongelli, ci si rende subito conto che la mobilità della sua ricerca ha tutta la saldezza di una ottma preparazione ed una grande concentrazione sia sulla concretezza dell’operare artistico sia verso le tradizioni con cui si confronta e lo specifico concettuale, spesso imperniato su dualità, che mette in gioco. È quindi con grande generosità manuale e intellettuale che ci consegna i suoi pezzi fuori dal tempo, portatori di una grande energia ed evocatrici di presenze sempre scolpite nello spazio, di spettacolare corposità, ottenuta, lungo l’arco della sua produzione, lavorando, oltre che col disegno, con ruggini, scolature, intonaci lavorati con la sinopia, lamiere, e, neille opere in mostra ad Interzone, con zone rarefatte e marginali e incompiute in cui anche l’astrazione diventa sfatta pur senza perdere una certa grazia selvatica. Il talento del giovanotto di Comacchio è talmente evidente da lasciar però cogliere chiaramente come, al di là della sicurezza con cui affronta il senso del rischio nelle molteplici declinazioni del suo stile, lui ami anche divertirsi a confondere le piste, tra inputs neoclassici e modi contemporanei. Per cogliere in pieno, quindi, le dimensioni di questo suo fare demiurgico e maturo, ben oltre la sua età, ma forse segretamente scanzonato nel suo polimorfismo così vitale, gli abbiamo rivolto alcune domande.

Sappiamo che all’Accademia hai compiuto studi sulla ceramica; già da allora ti dividevi tra la passione per la materia e quella per il disegno? Oppure è sempre stata centrale la “preoccupazione” di trovare un senso concettuale per le tue scelte sincretiche?

“All’Accademia ho frequentato il corso di Pittura. Precedentemente, durante gli anni trascorsi all’Istituto d’Arte, frequentai il corso di decorazione plastica (ceramica). I miei primi passi nella conoscenza artistica derivano proprio dalla passione per la materia intesa in senso plastico. Sono convinto che il fare artistico necessiti di un perenne confronto-scontro tra i vari media espressivi disponibili, e che sia da questo confronto-scontro che in qualche modo l’immagine acquista la sua validità.”

Vorrei chiederti, esplicitando un vecchio luogo comune che emerge sempre al cospetto di opere materiche, se c’è un rapporto davvero così stretto tra la necessità dell’artista di entrare in un corpo a corpo con l’opera e la sua intima sofferenza esistenziale. C’è ancora una cognizione del dolore (Gadda) alla base di certe espressioni corpose o è solo una vecchia idea romantica?

“Ogni qualvolta mi ritrovo di fronte ad una superficie bianca penso sempre a come sarà il duello che sta per iniziare. Si respira tensione. Un corpo a corpo veemente e brutale increspa la quiete del principio. Il pennello o la matita diventano strumenti di aggressione della tavola, il tentativo è di uscirne illeso nonostante la consapevolezza che spesso non sarà così. Le immagini con più forza escono proprio da questo conflitto. Dall’urto con le mie debolezze. Ma è solo all’interno di questo percorso che mi sento libero di agire senza remore, costruendo sui miei errori.”

In questa mostra ad Interzone vediamo più che mai il contrasto proficuo tra l’inclinazione a modellare col disegno, perfino a carboncino, cioè neoclassicamente, il corpo umano, e l’esigenza moderna, decostruttiva, di scomporre, agire per sottrazione e stratificazione e deformare la visione (è lampante – e particolarmente appagante – il tuo ricorso all’anamorfosi di ascendenza secentesca). Dovendo scegliere, privilegeresti più il legame col patrimonio culturale italiano o quello con le avanguardie del Novecento? Oppure è semplicemente corretto ciò che scrive Lara Limongelli nel testo introduttivo, cioè che l’immagine è scomposta perché è la visualizzazione di un desiderio duale in una relazione a distanza nell’era dei new media? Il montaggio delle parti è un gioco formale postmoderno o un’allegoria della seduzione tra differenze?

Tapis Lapis è un progetto nato per lo spazio di Interzone, una galleria che si dedica prevalentemente alla fotografia, per cui il mio problema iniziale era di realizzare una mostra che avesse a che fare con il tema della post-produzione ed il montaggio fotografico. Cerco sempre di imparare, di far mio, ciò che più mi interessa sia dei maestri della tradizione che dei contemporanei. Roma è una città con un patrimonio culturale altissimo e non nego che, tutte le volte che vi rimetto piede, uno dei primi piaceri è quello di far visita al Caravaggio, a San Luigi dei Francesi o a Michelangelo di San Pietro in Vincoli, senza nulla togliere alle avanguardie del Novecento. La deformazione anamorfica e la decisione di lavorare su fogli singoli, montati, ricomposti in un secondo momento, è nata appunto dalla necessità di creare un’immagine che avesse a che fare con la dualità. Dualità intesa come dialettica degli opposti. Vicinanza e distanza, geometria e morfologia, forma e informe, definizione e indefinito, sporco e pulito, forma e linea, positivo e negativo. Pittura, disegno, scultura, video, tutte le arti visive dovrebbero a mio parere avere una capacità seduttiva, un’abilità capace di risvegliare i sensi attraverso la plasticità. Mi sembra, per la mia esperienza, che un forte senso della plasticità possa fondare un’immagine valida, in grado di operare sul fruitore investendolo e coinvolgendolo nella propria “costellazione” di sensazioni e significati.”

Una domanda collegata alla precedente: la pittura oggi può sopravvivere solo se ibridata, spuria, impegnata in un dialogo intenso e sensuale con i supporto, tormentata nelle superfici e contaminata da altri linguaggi oppure c’è ancora attenzione, spazio e rispetto verso chi ha – come si diceva una volta – una bella mano?

“Credo e soprattutto spero che si presti attenzione a chi ha una buona mano ma, ancor più importante, a quelle persone che hanno un buon e onesto sentire, e tuttavia lontane dal voler arrivare in cima al mondo, come diceva Luigi Tenco, con piccoli trucchi superficiali da saltimbanchi.”

In questi lavori si coglie anche la mirevole saldatura tra l’accuratezza disinvolta del disegno e la maniacalità vigorosa del lavoro a collage, o forse dovrei dire a patchwork, nelle campiture in cui è suddivisa l’immagine. In definitiva, senti che il tuo lavoro procede più a veloci strappi (non solo metaforici, ma anche concreti, e anche nella rapidità degli schizzi) o in modo lento e metodico (come suggeriscono anche le quadrettature e le linee di costruzione geometrica di alcuni elementi del quadro)?

“Tendo a non pensare al mio modo di operare secondo schemi prestabiliti: sicuramente l’immagine finale risulta venir fuori da una combinazione di meticolosa lentezza artigiana con momenti più legati al gesto istantaneo e istintivo. Uno schema del genere è possibile applicarlo solo a posteriori, come riflessione successiva al lavoro, eventualmente. Questo perché all’interno di quella combinazione da cui l’immagine viene fuori,  c’è spesso un altro aspetto che agisce, il caso – quel momento sconosciuto (l’errore, la difficoltà, la reazione del materiale, il ripensamento, la scoperta) – che s’inserisce senza essere stato previsto e che poi viene successivamente gestito. Le quadrettature, che un tempo venivano utilizzate per fare gli ingrandimenti di piccoli disegni e successivamente coperte dalla pittura, nel mio caso vogliono essere un elemento di ordine geometrico contrastante con lo spaesamento prodotto in primo piano dalle figure.”

Come vivi dunque il rapporto con la quotidianità contemporanea, che sembra volerci preparare attraverso i new media all’immateriale e alla velocità più che alla tattilità e alla riflessione? E dunque nella dicotomia finzione-realtà, vero e falso, che figura a volte come tema nelle tue opere, è più importante per decidere la “verità” lo spazio della rappresentazione o il tempo di realizzazione a rapporto con I tempi che stiamo vivendo?

“Sicuramente il periodo storico in cui viviamo è molto particolare: il consumismo, l’omologazione di massa, la comunicazione illimitata, gli spostamenti super veloci, internet, i social network sono diventati una lingua comune, a cui ci siamo abituati, tanto nuova da doverne imparare limiti e possibilità. Indubbiamente è una nuova comunicazione, da un lato è un potenziamento ma dall’altro anche una distorsione del nostro modo di comunicare nel senso che il rischio è perdere il piacere della condivisione lenta, l’esperienza reale vissuta. Di questo piacere si nutre la singolare poesia dell’arte. Quella poesia che per esempio vedo nel segno di Alberto Giacometti, in una delle sue “teste” che vibrano di un suono universale, universalmente umano. Ecco, nella dicotomia di cui tu parli, presente nelle mie opere, cerco piuttosto di trovare la fonte di questa poesia “umana”, non mi occupo di decidere nessuna verità con la maiuscola.”

Abbiamo saputo della tua parallela attività in campo musicale in un gruppo post-punk di cui fa parte anche il tuo fratello gemello. Quale dei due ambiti risulta più adatto ad accogliere i tuoi presumibili afflati libertari o magari ribellistici nei confronti di una società che spesso tarda a riconoscere il lavoro artistico ma che per altro verso non garantisce un lavoro ordinario per tutti?

“La musica è da sempre una costante presenza nel mio quotidiano. Ho questa grandissima passione fin da piccolo. Luca, Marco e Marco, insieme Modotti. Un Marco è mio fratello gemello l’altro no, ma quasi. Spesso mi è capitato di presentarci così durante qualche concerto. Modotti appunto, in onore alla grande fotografa Tina. Gli elementi si intrecciano e si fondono. Con la pittura il metodo di lavoro è decisamente differente soprattutto perché il pensiero e i suoi sviluppi nascono prevalentemente in solitudine. L’attitudine e gli intenti sono gli stessi. La musica ha per me un fortissimo senso di unione di natura fisica, emotiva e creativa. Tre entità distinte che decidono di convogliare le proprie energie in un’unica direzione per poi farle esplodere durante un live. Sono due esperienze di vita distinte ma assolutamente necessarie, due esigenze vitali. In fondo è la vita a interessarmi.”

C’è un artista o più di uno, o magari una corrente, che ha indirizzato il tuo lavoro verso questo tipo di risultati (mi viene in mente Bacon)? E preferisci chi si misura solo con l’immagine, la composizione ed i colori, oppure chi si confronta con supporti insoliti inclinandosi all’occorrenza verso le installazioni o il concettuale? Quanto è importante, per te, che si veda nettamente il lavoro manuale dell’artista piuttosto che una progettazione “a tavolino”?

“Diciamo che sono molti i riferimenti ai quali ho prestato molta attenzione e studio. Sono sempre stato attratto dal linguaggio grafico fin dai primi segni usati come annotazioni per la caccia all’interno delle grotte paleolitiche per poi arrivare alle pitture di Pompei, guardando a Jacopo Carrucci (Pontormo) per poi ammirare Cézanne e Giacometti. Bacon è stato per me un caso anomalo. Per molti anni non riuscivo proprio a capirlo. Non è da molto che lo apprezzo. Mi ha parecchio infastidito. Poi ad un certo punto le cose cambiano ed insieme a loro anche la nostra percezione che abbiamo di esse. Ora riesco a vederlo con altri occhi e il suo fascino è diventato quasi inevitabile per quanto il suo lavoro sia carico di intensità.

Tendenzialmente stimo chi lavora con grande senso critico, onestà e amore. Amo moltissimo chi, poco importa se con la pittura, il video o l’installazione, fa del lavoro che porta all’opera la parte più significativa dell’opera stessa, per esempio apprezzo molto il lavoro di Paolo Rosa e Studio Azzurro con le loro installazioni interattive o quello di Giuseppe Penone. Come non citare poi David Hockney per la sua versatilità o artisti del calibro di Cremonini, Vespignani e Pirandello, per  rimanere in Italia?”

Per concludere: come si inscrive il lavoro compiuto per questa mostra nella tua parabola di ricerca, che già si è confrontata con la ritrattistica, la natura morta, il problema della luce e lo spirito ed i materiali della tua terra, Comacchio, e quale sarà la prossima tappa, se ce lo puoi anticipare?

“Questa mostra si inscrive nel mio percorso di ricerca come un momento di riflessione su un possibile dialogo tra diversi media, ma anche come un tentativo di post-produzione con il disegno. Parlo di ricerca, tentativo, percorso, perché mentre lavoravo al disegno, il disegno stesso pian piano cambiava il mio atteggiamento verso la sua stessa realizzazione: da questo ho capito molto. La prossima tappa mi vedrà presente con una mostra personale che si svolgerà verso metà luglio presso la Pinacoteca, Museo della Città del Comune di Rimini, chi è più curioso può venire a trovarmi lì.”

Tapis Lapis | Luca Zavattini

  • A cura di Michele Corleone e Lara Limongelli
  • fino al 4 aprile 2015
  • INTERZONE Galleria Studio di Fotografia
  • Via Avellino 5 – Roma
  • orari: martedì – venerdì, ore 15 – 20,30 sabato, ore 11 – 20 lunedì e domenica chiuso
  • per informazioni: cell. +39 347 5446148
  • www.interzonegalleria.it
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il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

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