Sotto il vulcano nasce, morendo, l’uomo moderno.

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Il viaggio dolce – cover

Un’operazione rara quella di Marina Plasmati nel suo Il viaggio dolce (Edizioni La Lepre, Roma 2015): narrare i mesi che precedettero la morte di Giacomo Leopardi, la coda della primavera e gli esordi dell’estate del 1836 durante i quali il poeta, sempre accompagnato – e sostenuto – dall’amico napoletano Antonio Ranieri, fu ospite nella tenuta del cognato di quest’ultimo a Villa Ferrigni, a Torre del Greco.
«L’ospite di riguardo»: così la scrittrice sceglie di riferirsi al suo protagonista, senza mai nominarlo apertamente, in consonanza con la discrezione schiva, garbatissima del recanatese – con quel suo trascorrere umilissimo tra il quotidiano, tra gli altri personaggi, il suo «non dare fastidio». Ma non è solo uno dei tratti distintivi dell’indole leopardiana: è già l’accenno – o forse, meglio, l’anticipazione – dell’invisibilità finale, del Grande Nulla che attende ogni creatura.

Fragilissimo è il poeta, e tuttavia non perché «tanto malato», con la sua «andatura da moribondo» e il «busto contorto» (Plasmati insegna che non è questa la vera inadeguatezza: non vi dedica che scarsi accenni). Fragile e inerme è il poeta, e l’uomo – ogni uomo, quale che sia la sua sorte. Lo scenario – ma si potrebbe dire l’altro protagonista – de Il viaggio dolce non cessa di rimarcarlo. Villa Ferrigni sorge alle pendici del Vesuvio, là dove arrivano «i forestieri che facevano la vacanza per ricostituire l’organismo con l’aria salutifera del vulcano». È per l’appunto in vista de «… l’arida schiena / del formidabil monte / sterminator Vesevo» che s’instaura la dialettica conclusiva, estrema, dell’esistenza stessa di Leopardi. Quella che culminerà nella creazione de La ginestra (posta in appendice al romanzo e di cui citiamo i versi). Uno scontro fra giganti: la montagna di terra e di fuoco, capace di inimmaginabile violenza, e il poeta che la scruta, la “sente” – le rivolge il suo J’accuse disingannato e disperato. Perché non c’è più alcuna speranza, né per se stessi né per nessun altro. Perché la natura che il Vesuvio incarna (a tratti quasi in chiave antropomorfica: «Se il fuoco non si sfoga, il vulcano si arrabbia e si ferisce, disse all’improvviso il ragazzo… Questa è come una ferita, da qui prima o poi sputerà nuova lava») è «la dura nutrice», il grembo originario senza amore né misericordia. Un massiccio d’assenza desertica, crudele, che incenerisce e travolge ogni vita e ogni splendore. «Non ha natura al seme / dell’uom più stima o cura / ch’alla formica…». Inutile, e soprattutto priva di significato qualsiasi reazione umana, le sciocche vanaglorie della «mortal prole infelice»: «Passan genti e linguaggi: ella nol vede: / e l’uom d’eternità s’arroga il vanto».

Ecco: Leopardi è l’altro “gigante”: a poche settimane dall’«obblio», coerente a un esistere che giorno dopo giorno s’è afferrato alla parola, al verso, guarda definitivamente in volto «… quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna».

Decifrazione gigantesca del vero. Presa di coscienza ultima da parte di un «intellettuale malpensante, come si definiva», che ha luogo esattamente sotto il vulcano: «… al cospetto del Vesuvio, padre e padrone di quel paradisiaco deserto. Lassù tutto ricordava di essere mortale… Sentiva che non era comprendere o ingannarsi il dramma, ma semplicemente vivere, come fa il fiore, la lucciola, la rondinella, vivere per poi svanire, come fa ogni creatura, una ad una». Semplicemente vivere. Perché, continua Plasmati (nel passaggio forse più “alto”, e “leopardiano”, del romanzo), «… in ogni sua creatura, una ad una, la natura continua a trasudare delitto e tralucere grazia, fino alla fine dei tempi».

Sotto il vulcano, coi versi liberi de La ginestra, nasce la poesia moderna. Non soltanto. Nasce l’uomo moderno. Il viaggio dolce non si limita a mostrare come la visione del poeta modifica il mondo («… non era uno sguardo qualunque, era come se avesse il mondo dentro al cuore, non davanti agli occhi, come se le cose, anche le più piccole, le più insignificanti, prendessero posto dentro di lui e ci rimanessero»). Il viaggio dolce è la narrazione e la testimonianza di come Leopardi avesse cominciato, in anticipo di almeno un secolo, a smontare sistematicamente ogni fiducia nel futuro, ogni fede – e, a posteriori, ogni “evoluzionismo” – riposta nel progresso. Nella possibilità, per l’uomo, di un mondo migliore («… dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive»).

Era una voce fuori dal coro, quella di Leopardi. Egli stesso ne era consapevole, e non senza compiacimento. Per Piero Bevilacqua lo si potrebbe accostare all’altro grande – e forse unico – contestatore della letteratura e della società italiana: Pier Paolo Pasolini (Pasolini. L’insensata modernità, Jaca Book, 2014).

Di sicuro, e per fortuna, stiamo vivendo un periodo di recupero e rivalutazione di Giacomo Leopardi. Il recente film di Martone, Il giovane favoloso, condivide per esempio lo stesso scrupolo filologico che anima il romanzo di Plasmati. Ma quest’ultimo tenta di offrire più punti di vista, non s’incentra sull’occhio del poeta ma prova a penetrarvi anche attraverso gli altri personaggi della permanenza a Villa Ferrigni: il fattore Giuseppe, sua moglie Angiola, suo figlio Cosimo – il giovane che lo accompagna sulla cima del Vesuvio, e poi nella visita alle rovine di Pompei –, la servetta che diverrà moglie di questo (una seconda Silvia, scegliendo un nome che desta echi ulteriori nell’animo dell’«ospite di riguardo»). Figure, tutte, nate «sotto la cenere», figli del vulcano. Alle quali s’affiancano, assai più rapidamente, quelle del «signor cognato» (l’amico Ranieri) e di sua sorella Paolina, o di Ferrigni stesso – che dà modo all’Autrice di inscenare un dialogo sull’umanità, «l’incivilimento» e i suoi destini.

Solo le prime – i famigli della villa – arrivano a intuire, spesso con fascinazione, l’«abitudine al dolore» del poeta, la sua nostalgia della fanciullezza. Persino il suo riformulare la realtà, renderla «qualcosa che quello sguardo vedeva e gli altri no». Se vi riescono, è per la semplicità che li accomuna al vivere senza maschere o apparenze, alla nudità del vero. E non a caso è uno di loro, il fattore, a introdurre l’immagine che dà il titolo al libro: il viaggio dolce – quello in cielo, della morte: per Leopardi «la sola salute concessagli».

Però, in chiusura, non leggeremo della fine del poeta. Sapremo, sì, che l’«ospite di riguardo» si è spento «senza un gemito… in silenzio» – e non sarebbe potuto essere altrimenti. Con un salto temporale di due mesi assisteremo invece al parto doloroso, tanto simile alla sofferenza del vulcano, del bambino della villanella, Silvia. Non vi è pausa, né sollievo, nel ciclo della natura.

Tutto è evocazione, suggestione lieve, nella prosa di Plasmati; scrittura che sembra aver assimilato la nitidezza a un tempo densissima, eppure leggera, della stessa lirica leopardiana, del dipanarsi del pensiero dell’«ospite di riguardo». A dispetto del vulcano, di una presenza così tanto “ingombrante”, non è l’elemento ctonio a dominare: nelle pagine è spesso l’aria a prevalere, nelle impressioni dei mattini o delle umidità notturne – o negli echi delle profondità spaziali in cui si perde il sentire del protagonista. Oltre la finestra della sua stanza a Villa Ferrigni – l’ennesima – che ha posto a diaframma tra sé e la scabrosità del vero, la narrazione restituisce lo smarrimento del poeta che guardava all’infinito, all’unica eternità possibile. Negata all’uomo.

In ultimo un auspicio: che il sussurro del pensiero dell’«ospite di riguardo», il suo essere così in margine del mondo, e il suo lucido grido di accusa contro il «secol superbo e sciocco», possano entrare come lettura anche nei nostri licei. La letteratura italiana è – ancora – in grado di suggestionare le coscienze, di fornire strumenti critici per la formazione, sia in chiave personale che sociale. In questo senso è doppiamente felice la scelta editoriale d’aver inserito, in appendice a Il viaggio dolce, due testi leopardiani: La ginestra più volte citata, che il poeta compose proprio a Villa Ferrigni, e il Discorso sullo stato presente dei costumi degl’italiani, straordinariamente attuale.

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Glottologo e lusitanista, studioso delle lingue e letterature ibero-romanze e blogger, Stefano Valente è anche illustratore e comic artist/writer. Scrivere è però la sua "fatica" irrinunciabile. Tradotto anche all'estero, nei suoi romanzi ama incrociare i più diversi generi letterari con una narrazione colta, attenta ai vari livelli di linguaggio - per «addomesticare un animale indomabile: la Meraviglia». 
Il suo titolo più recente è il thriller esoterico La Serpe e il Mirto (1978), appena uscito in nuova edizione. 
Nel poco tempo "libero" si dedica alla diffusione della narrativa breve e della microficción iberica e latino-americana curandone la traduzione nel blog Il Sogno del Minotauro (http://sognodelminotauro.blogspot.com)



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