Lo sciamano cosmopolita. Jorge Eduardo Eielson

Altro esempio di Paisaje infinito de la costa del Perù, 1977, assemblaggio e acrilico su tela, Collezione Fernando de Szyszlo, Lima

Considerato dalla critica un artista totale. Culturalmente un nomade. Avrebbe voluto coniugare arte e vita per crearne un capolavoro. Tale missione, a sua detta, non era riuscita ancora a soddisfarla e l’unico modo ormai era attraverso la morte.
Ha vissuto a Lima, Parigi, Roma, New York, Milano. Elesse un pezzo di Sardegna, l’Ogliastra, come residenza estiva fin dagli anni ’70.
Stiamo parlando di Jorge Eduardo Eielson (1924-2006). Artista peruviano multicentrico e multietnico che ha espresso il suo messaggio in varie forme: scultura, pittura, installazioni, performances, poesia, romanzi.
La sua missione? Il linguaggio universale.

Si potrebbe pensare ad un significato universale del linguaggio e dell’arte nel senso romantico del termine. Niente di più sbagliato. Tutti gli elementi, con la propria soggettività, dovevano partecipare insieme ad un caos armonico ma senza cadere nell’errore di convogliare in una sintesi. Il rischio? Precipitare nello spettacolo di massa.

Usare diversi linguaggi può portare ad una totale dispersione o ad una difficile coerenza. Occorre non usare i codici in maniera indiscriminata. Il sogno di Goethe e di Wagner dell’opera d’arte totale non ha dato grandi risultati perché l’ibridazione dei vecchi linguaggi si dirige, nella contemporaneità, verso lo show business. Eielson propone una diversa operazione. In una visione ciclica del mondo non può esserci spazio per un soggetto fisso e definitivo. Si accosta all’immagine dello sciamano che in sé incarna la figura del medico, del filosofo, del sacerdote, del poeta. Evoca, sì, una cultura arcaica ma non equivale sostenere un nostalgico ritorno verso tutto ciò che è primitivo, una strada impraticabile nella società odierna.

Lo sciamano è un invito. È un invito a pensare alla creatività umana come concetto globale. Eielson non mira ad amalgamare tutti i linguaggi in una sola opera totale. L’interesse si volge verso la trasgressione dei limiti convenzionali dei codici comunicativi, altrimenti impoveriti. Solo allora potremo essere davanti a qualcosa di inedito, un felice incontro che rispetta l’essenza di ogni componente. Ciclicità del tempo e creazione impongono che nessun elemento primeggi. Ecco la necessità di una poetica totale che si possa manifestare con differenti linguaggi messi in contrasto, in combinazione o separati.

Il nodo è la cifra più caratteristica della sua arte. Denominato anche quipu come i nodi usati dalla civiltà incaica con attribuzioni mnemotecniche e forse di scrittura. Il nodo è la metafora dell’esistenza. Basta guardare le catene spiraloidi che costituiscono il DNA o le reti di nervi e neuroni che hanno permesso l’evoluzione del cervello umano. La vita è la storia di una struttura che deve continuamente inventarsi una rete di informazioni e rapporti interattivi che allarghino gli orizzonti per sopravvivere . In tutte le culture è presente la figura del nodo. Il neo-darwinismo insegna ad Eielson che l’evoluzione non procede linearmente ma si manifesta a salti, avanti e indietro, sopra e sotto, seguendo l’azzardata e complessa realtà naturale. Niente di più in contrasto con il mondo contemporaneo che tende all’omologazione e al conformismo.
Il nodo apre le porte alla ciclicità, al mito, alla religione, alla musica, alla scienza e alla matematica. Apre le porte al linguaggio universale.
Il corpo, le costellazioni e la liberazione della parola dal suo “ghetto letterario” contribuiscono al raggiungimento dello scopo che come l’evoluzione non si può guardare in maniera lineare e cronologica.

Analizzare Eielson significa essere disposti a fare dei salti, a tornare indietro nella sua vita e nelle sue opere per andare avanti e viceversa. Opere affini distanti tra di loro per fattori di età e di mezzo usato ma che alla fine si ricongiungono perfettamente nella totalità della sua poetica.

Sosteneva che aveva fatto ricorso alla poesia scritta, che circonda strettamente il silenzio del dire, e alle immagini astratte, che esplicitamente non comunicavano nulla ma qualcosa più in là di ogni linguaggio. Ed è per questo che nelle performance e installazioni chiese aiuto ai suoni, tutti giocati al limite del silenzio. La sua vera natura lo fece avvicinare allo zen e alla filosofia della scienza. La sua vera natura fu paragonabile ad un crocevia di culture che, parallelamente a quella storica e biologica delle sue origini, fornisse una visione più completa e armonica della realtà. Nella sua vera natura, la bellezza nasce da tutto questo.

Una bellezza che coniuga i canoni occidentali con la cosmovisione delle popolazioni andine precolombiane. Il contrasto tra uno spazio cartesiano e desacralizzato e una visione utilitaristica e unitaria dello spazio deificato in cui finito e infinito si sposano, dove ogni elemento ha una sua funzione. Compresa l’arte. Niente immagini celebrative, niente monumenti. A quello ci pensarono gli spagnoli. Ogni individualismo era bandito. Complementarietà, reciprocità ed equilibrio regnavano. Non avevano il bisogno di organizzare uno spazio pittorico secondo una rappresentazione naturalistica. L’astrazione era la loro maniera di esprimere il mondo, di mantenere e gestire i fattori di complessità della Natura sacralizzata. L’arte aveva una funzione rituale in una concezione armonica tra cielo e terra.
Un po’ come lo sciamano di Eielson.
Un po’ come la sua arte e la sua vita.

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Nato nel 1987, poco più che maggiorenne attraversa il Tirreno per conseguire laurea triennale e magistrale presso “La Sapienza” in Storia dell’Arte. Interessato, oltre che al mondo dell’arte, all’universo del turismo ha coniugato tutto ciò tramite l’attività nell’associazionismo, organizzando mostre, seminari ed eventi pubblici. Girovaga in un isola a seguito di conferenze e dibattiti ( e sagre) in attesa di capire cosa fare del futuro.

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