Murales, identità e fenomeno della Sardegna. Uno sguardo

Giovanni Maria Angioy

I murales sono il fenomeno artistico contemporaneo più importante della Sardegna. Almeno dal punto di vista quantitativo. Ogni città o paese mostra al mondo vari esemplari di quest’arte.
Occorre ricordare, però, che il murale è un fenomeno che rischia enormemente di abbandonare il territorio artistico per cadere nell’obsolescenza della moda o del folklore. Nell’isola il problema è molto concreto.
Un rapido excursus sulla genesi muralistica sarda aiuterà a comprendere meglio il fenomeno.
Tutto incomincia negli anni ’60. Due paesi distanti geograficamente: San Sperate, alle porte di Cagliari, e Orgosolo, nel cuore della Barbagia.
Maggio 1968. Sagra delle Pesche. San Sperate. Abbondante raccolto. Un gruppo di giovani decide di celebrare il ricco dono della natura con un dipinto nelle pareti esterne di una casa. L’azione si ripete qualche settimana dopo. In occasione del Corpus Domini, la Via Concordia è completamente reinventata artisticamente. Principale artefice: Pinuccio Sciola.
1969. Orgosolo. Arrivo di Giancarlo Celli e il suo gruppo artistico, di estrazione anarchica, Dioniso, alla ricerca di un rapporto diretto con il popolo per trarre nuove soluzioni all’arte e alla cultura e per far crescere la coscienza politica. Tra i risultati ottenuti un murale. Esso sottolinea il peso americano nelle scelte politiche italiane e la non curanza di quest’ultime riguardo ai destini della Sardegna. “Dioniso” , troppo chiuso nella propria ideologia, non capì a fondo la “catastrofe antropologica” sarda, quella del fallimentare “Piano di Rinascita”, e il suo progetto a lungo termine fallì.
1975. Orgosolo. Francesco del Casino: senese, professore di educazione artistica nelle scuole medie locali. Profondamente influenzato da Picasso e Guttuso. Le famose 150 ore furono adibite alla realizzazione di murales. Inizia la grande stagione muralistica del centro barbaricino.
I due paesi riscuotono l’interesse della comunità artistica internazionale. Numerosi i servizi giornalistici, i documentari. Siqueiros benedì il fenomeno. Sciola e compagni parteciparono alla Biennale veneziana nel ’76. Collaborazioni internazionali imperversarono. Il confronto tra cittadini, artisti e muro diede vita a magnifiche sintesi.
Piano piano i murales diventano un brand, come i nuraghi o il canto a tenore e vengono banalizzati. Si assiste ad una loro classificazione superficiale.
Si dice che in Sardegna esistano due tipi di murales: quelli politici, che a loro volta si dividono in sardisti e di sinistra, e quelli tradizionalisti, votati ad un recupero e valorizzazione dell’identità sarda. La classificazione tematica ignora ad esempio il ricco dibattito sull’astrazione nei muri sardi.
Una liquidazione spicciola che fa capo ad una descrizione che si è voluta dare dell’isola. Il “marchio Sardegna” si dirige verso il selvaggio e il primitivo. Un mondo incantato e arcaico, fuori da tutte le rotte della cultura e del progresso. Un popolo sempre dominato ma con una “costante resistenziale” che lo rende ribelle per eccellenza.
Ovviamente è impossibile pensare così di un’isola al centro del Mediterraneo occidentale. Ma spesso si casca in questo tranello.
La critica cerca di indirizzare i murales verso la valorizzazione dell’identità. Non parla di recupero di Storia e Cultura. L’identità è un feticcio. Viene spesso usato per mantenere lo status quo tra cultura dominante e dominata, relegando quest’ultima ad una subcultura, incapace di produrre qualcosa di rilievo. Se si parlasse di un recupero della storia e della cultura si dovrebbero allora considerare diversi fattori interni, esterni, sincronici, diacronici; si dovrebbe avere il coraggio di azzardare accostamenti nuovi, anche distanti tra di loro, per avere una visione migliore. Tutto questo non si è voluto fare.
Lo stesso vale per i murales politici.

Nei murales sardisti si mette in mezzo tutto quello che celebra le lotte sarde e i personaggi di spicco da Gramsci, a Lussu all’eroe rivoluzionario Angioy. Tutto nello stesso calderone solo per il fatto di avere in comune la Sardegna. Senza le doverose distinzioni, questi murales cadono nel clichè identitario, depotenziando e minimizzando il messaggio dell’evento o del personaggio raffigurato, e ignorano le questioni stilistiche.
Molti paesi, vedendo il successo di questa forma d’arte, hanno fatto la corsa a riempire i muri con raffigurazioni. Spesso non vi è un programma artistico ma solo il desiderio di abbellire il centro abitato. Spesso le rappresentazioni si fermano al folklore con scenari campestri, oggetti tradizionali e uomini e donne con i vestiti di una volta. L’originalità è sparita. È sparito anche il muro come autonomo produttore di senso che dialoga con artisti e spettatori.
Il murale è diventato solo una moda che serve per dare il benvenuto al forestiero. Se la grande conquista muralistica è stata la riqualificazione della strada da zona di transito a luogo di vita dove il cittadino si riappropria del suo spazio tempo, ora si assiste ad una regressione.
Ma non tutto è perduto. L’essenza di questa forma di arte collettiva pubblica impedisce che tutto venga relegato nel ghetto identitario. Nella cittadina di Lanusei, ad esempio, sta nascendo un progetto che vuole fare il punto sullo stato dell’arte. Il dibattito che porterà a confronto varie personalità dell’isola e del “continente” intende proporre ulteriori vie del manifestarsi artistico del muro.

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Nato nel 1987, poco più che maggiorenne attraversa il Tirreno per conseguire laurea triennale e magistrale presso “La Sapienza” in Storia dell’Arte. Interessato, oltre che al mondo dell’arte, all’universo del turismo ha coniugato tutto ciò tramite l’attività nell’associazionismo, organizzando mostre, seminari ed eventi pubblici. Girovaga in un isola a seguito di conferenze e dibattiti ( e sagre) in attesa di capire cosa fare del futuro.

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