Cade la terra di Carmen Pellegrino. Estetica di un paese che muore.

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Cade la terra, Carmen Pellegrino. Cover

La letteratura, si sa, serve a “dare voce a chi non ce l’ha”, e pian piano ha fatto posto nelle sue righe alle voci delle minoranze, di chi non corrispondeva ai canoni della normalità vigente, del concetto di “vivente”. Le donne, i gay. Gli animali, le piante. Le cose, le case.

Carmen Pellegrino nel suo primo romanzo dà voce a un intero, ipotetico paese della Basilicata. Se Franco Arminio è il “paesologo” per eccellenza, lei è stata definita “abbandonologa” a causa della sua passione per i luoghi progressivamente disertati dall’umanità. Il mitologico Alento, oltre a restare solo con sé stesso (e con le erbe spontanee, gli animali selvatici, gli insetti), scivola sulla terra fangosa: letteralmente, un paese che prende e se ne va.

Inizia con una cena, Cade la terra, anzi, con la preparazione di una cena: sono righe che comunicano affetto, la cura impiegata perché sia tutto perfetto, piccoli doni pronti per gli ospiti, un menù semplice ma gustoso. Sembra davvero un ritratto di paese, di quelli pittoreschi che tanto piacciono agli americani, con quel contorno di case e pietre e focolari che amano postare su instagram o Pinterest. Con tanto di vecchia che ama ricevere i suoi antichi amici. Che però (prima incrinatura) non sembrano molto impazienti di vedere lei. E se guardi più da vicino il focolare, lì (seconda incrinatura) c’è la ruggine, ci sono finestre rotte e i muri, guarda, con fioriture di muffe agli angoli, e poi… Poi arriva Marcello. Che si presenta subito come co-protagonista, e che co-protagonista! Da prenderlo a sberle da mattina a sera. O dalla prima sillaba all’ultima.

Ma il fulcro “umano” del romanzo è la vecchia Estella, sradicata da qualsiasi luogo, essa stessa un’entità che scivola nella vita (lo capiamo tra le righe, la buona scrittura è fatta anche di questo: di quello che c’è nell’interlinea) fino a finire incistata (o invischiata) nel fango del paese che ha già le sue storie, i suoi problemi, una fine imminente, sempre imminente per tutto il corso del romanzo, troppo preso da sé stesso, questo paese, per preoccuparsi di Estella. Il paese si comporta come una creatura che si offende, pensa, agisce (o anche si lascia agire: dai paesani, dal fango, dalla terra che cade).

La logica della foto idilliaca su instagram non regge, il lettore non ha nemmeno il tempo di accomodarcisi, di rievocare altre foto di paesi reali, ma così simili, che il ricordo inevitabilmente abbellisce, migliora, e che magari, dopo così tanti anni, stanno sulla stessa china di abbandono, di fango, o su una costola di montagna che si sta sgretolando. Il paese lucano inventato da Pellegrino resta il vero protagonista della storia, tiene banco fino alla fine, nonostante la sua stessa fine, perché il suo destino è chiaro fin dal titolo. Un finale che non starebbe male in un film di De Oliveira, per la grazia e l’apparente levità con cui Pellegrino descrive un evento comunque tremendo.

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Valentina Graziani è nata a Roma, ha studiato storia del cinema, è
vegetariana e vive in un paese arroccato su un colle col marito e un
sacco di gatti. Passa il tempo libero a leggere, risolvere parole
crociate, imparare a usare la macchina per cucire e far sopravvivere
qualche pianticella sul balcone. E tentare di scrivere. Quando si
ricorda, aggiorna il blog V(ale)ntinamente
(valentinamente.worpress.com).

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