Beni Culturali Ministeri e Ministri marmellate e altri racconti

La Luna (1979) di Bernardo Bertolucci - frame dal film

Incontro Luigi Covatta a “Mondo Operaio”, la storica rivista che egli oggi dirige e che fu fondata da Pietro Nenni nel 1948. Parliamo dei molti fallimenti collezionati nei quarant’anni della sua vita dal Ministero dei Beni Culturali (1975-2015), di cui lui è stato Sottosegretario in un paio di Governi. Ne trattiamo ancora credendo che il Mibac sia un ministero strategico per l’Italia e ancora credendo che ci siano le condizioni per poterlo far funzionare. A patto che qualcuno si renda finalmente conto che la tutela è un problema organizzativo vastamente politecnico in senso territoriale, tecnico-scientifico, giuridico, tassonomico, urbanistico, economico, con ciò impossibile da affrontare senza una nuova politica di tutela sostenuta da una nuova legge di tutela che ponga al proprio centro il tema della conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente. Una politica di tutela messa in opera attraverso un lavoro comune di Stato, Regioni, Comuni e privati proprietari, quindi Chiesa, Fai, Dimore storiche e quant’altri ci stia, per la cui attuazione necessitano figure di soprintendenti molto diverse da quelle attuali, in molti ancora intente a ragionare sulla base della legge di tutela 1089 del 1939, cioè nell’Italia del re e del duce.

Caro Luigi, una trentina d’anni fa, quando eri Sottosegretario al ministero dei beni culturali, ti avevo fatto una lunga intervista che qualche spiraglio lasciava per il futuro dei nostri beni culturali. Te l’aspettavi che le cose sarebbero andate a finire così? Con Dario Franceschini (attuale Ministro dei Beni Culturali) lasciato a affrontare – come sta facendo con molta determinazione, ma con le mani legate da sindacati, corte dei conti, alta burocrazia ministeriale e corporazione di soprintendenti e professori universitari – la difficilissima sfida di rimettere in piedi un ministero in via di liquefazione?

Direi di sì, perché già allora mi resi conto delle infinite aporie di quel ministero in cui ero fortemente voluto andare considerandolo strategico per il Paese. Le aporie che in nulla sono riusciti a redimere chi mi ha seguito. Non due segretari di partito come Veltroni e Rutelli, né intellettuali quali Ronchey, Fisichella o Giuliano Urbani.

Un fallimento spesso spiegato col tormentone dei tagli e dell’insufficienza dei finanziamenti.

Una giustificazione che però non regge, come abbiamo dimostrato nel volume pubblicato dalla Fondazione Astrid. Infatti, se a fianco dei tagli si fa l’elenco dei residui passivi accumulati nel corso degli anni, si vede che questi sono circa la metà dei fondi a disposizione.

Il peccato originale è nell’aver Spadolini fondato nel 1975 quel ministero solo per favorire la propria carriera?

Certamente c’è anche questo. Ma l’equivoco viene più da lontano. Da quando, nel 1966, la commissione parlamentare Franceschini (Francesco, non Dario, l’attuale ministro) introdusse nel comune parlare la nozione di “bene culturale”. Una nozione tipica del linguaggio economico che definisce la parte, diciamo così, meno dinamica di un tessuto produttivo, come “i beni al sole” lasciati incolti dei latifondisti. Cosa di cui sarebbe forse il caso prendessero atto tutti quelli che arricciano il naso quando si parla del “petrolio”, perché fra “bene” e “petrolio” siamo lì. Senza poi dire che perché un bene sia “culturale” bisogna che qualcuno lo riconosca tale, come scrisse Umberto Eco trent’anni fa in un saggio troppo presto archiviato; aggiungendo che questo qualcuno lo legge oggi con le sue categorie, diverse da quelle di qualche secolo fa. Mentre sempre in quegli anni, Giovanni Urbani profetizzò che unificando la magica paroletta bene nella chiave di “culturale”, quindi bene “demo-etno-pluto” eccetera, si sarebbe fatto del patrimonio artistico una demagogica marmellata informe di cose le più disparate, rendendolo perciò stesso inconservabile.

Quel che è puntualmente accaduto. Infatti, qualsiasi lavoro scientifico che voglia avere un destino deve per prima cosa definire con ogni possibile precisione l’ambito dell’universo che vuole esplorare. Altrimenti si fa della metafisica.

La metafisica alla base del dibattito tanto ideologico quanto demagogico che occupa oggi i quotidiani. Dove proprio questa indeterminazione di cui diceva Urbani ha generato l’equivoco politico-istituzionale alla base di tutto: il conferimento del “portafoglio” a un ministero giustamente nato “senza portafoglio”, cioè come organo tecnico-scientifico d’indirizzo e coordinamento. Fino a quando  Spadolini per motivi di rango pretese il portafoglio, che gli fu concesso con un decreto legge tanto urgente da portare la data 23 dicembre 1974, antivigilia di Natale (poi convertito in legge nel ’75).

Da qui un ministero nato per amputazione di altre amministrazioni e per giustapposizione dei loro tronconi.

Infatti. Si amputa il ministero della pubblica istruzione della competenza sulle antichità e belle arti, la presidenza del consiglio di quella sulle biblioteche, il ministero dell’interno di quella sugli archivi; mentre, anche se il ministero si chiama “ministero per i beni culturali e ambientali”, non si amputa il ministero dell’ambiente per il semplice motivo che non esisteva ancora, per cui non c’era una struttura amministrativa da trapiantare. Per di più il ministero nasce mettendo insieme amministrazioni che bene o male erano collegate a realtà vitali, e senza dargli una missione diversa da quella precedente…

…realizzando così Spadolini quel ministero profeticamente definito da Sabino Cassese “una scatola vuota: il provvedimento [della sua costituzione] non indica una politica nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela; consiste in un mero trasferimento di uffici da una struttura all’altra e non si vede perché uffici che non funzionano dovrebbero funzionare riuniti in un unico ministero”.

Parole tanto tombali quanto sante. Il che ha determinato un altro fenomeno curioso: nel senso che, contrariamente a quanto dicono le leggi dell’evoluzione, per le quali è la funzione che crea l’organo, qui è stato l’organo a creare la funzione. Funzione che da allora è sempre e solo quella di tenere separato l’universo dei beni culturali dal resto del mondo, creando una struttura autoreferenziale che evita qualsiasi comunicazione e contaminazione con l’esterno.

Le quali realtà esterne erano?

L’università e i centri di ricerca dell’industria, cioè la parte culturalmente più vitale della società. Poi la scuola, i privati proprietari, il Fai, la Chiesa (che, come ben si sa, detiene una parte enorme del patrimonio storico, artistico e monumentale del paese), i professionisti del turismo e così via. Infine i comuni cittadini, la cui sempre più dilatata domanda di consumi culturali ancora oggi non riesce a avere risposta.

Ma, secondo te, perché continua a mancare un qualsiasi disegno di politica dei beni culturali?

Perché, invece di creare una politica, si è creata un’amministrazione, la quale fra l’altro si giustappone ad altre amministrazioni, ciascuna con le sue competenze e con le sue risorse.

Non c’è anche un problema culturale dietro questi fallimenti?

Il problema è certamente culturale, ma prima ancora politico. Quello d’un ministero che non ha mai definito il rapporto tra tutela e società, permettendosi quindi il lusso di andare avanti – in un moderno Stato decentrato e democratico e in una società affluente – a far tutela sulla base di una legge pensata nel 1939 per uno Stato centralistico e autoritario e per una società povera e in gran parte agricola. Mentre  la grande questione che si sarebbe dovuta porre a cavallo dei due secoli era di come collocare le leggi di tutela nel nuovo contesto sociale, economico e urbanistico nel frattempo assunto dal paese.

E il nuovo Codice del 2004?

Il nuovo codice è un malriuscito tentativo d’aggiornamento della legge Bottai del 1939.

Perché?

Perché il Codice non è partito dalla realtà nel frattempo montata – l’alterazione gravissima del rapporto tra patrimonio artistico e ambiente, l’avvento dell’informatica, la cultura di massa e quant’altro ­ – per poi costruire la legge e regolarne le dinamiche. E’ invece rimasto fermo sul dogma storicistico delle leggi del 1939 per imporlo alla realtà: dogma che porta a una musealizzazione del territorio, quindi a una sua intangibilità, perciò a un suo impoverimento. Ma le leggi non possono mettere le brache alla storia. Pensa all’assurda polemica di questi giorni sull’uso del Colosseo, dove Franceschini, Carandini e Manacorda hanno ragione al 200% contro chi vuol tenerlo intatto nel suo attuale stato d’inutile dente cariato. Una polemica, questa, anch’essa frutto del non esserci mai stata una sede di progettazione inter-istituzionale che governasse lo sviluppo del territorio senza pretendere di tagliare tutto con l’accetta del vincolo, quindi continuando nei fatti a operare secondo la ratio della legge del 1939.

Non entro nel problema-Colosseo, peraltro di decisiva importanza strategica perché tocca quel fondamentale tema del riuso del nostro patrimonio monumentale che prima o poi qualcuno dovrà comunque affrontare. Dico però che bellissima è la ripresa di Un ballo in maschera fatta a Caracalla da Bertolucci nella scena finale del suo film La luna.

Ma tornando a noi, scure del vincolo more 1939 cui va aggiunta un’Università che continua a insegnare ai futuri soprintendenti che la tutela coincide con il restauro come definito settant’anni fa nella teoria estetica di Brandi, testo del tutto inservibile quando si tratti d’intervenire nel rapporto tra patrimonio artistico e ambiente.  Un ritardo culturale i cui effetti più gravi sono gli irreversibili danni provocati dai restauri estetici sempre e solo delle solite opere d’arte, in genere capolavori, e ancor più i disastri ambientali e culturali provocati dalla speculazione edilizia, fiorentissima in barba ai vincoli a riprova della loro sostanziale inutilità così come oggi sono concepiti. Di questi giorni le catastrofi della Calabria e di San Vito di Cadore e il demente ampliamento dell’albergo Santa Chiara, a Venezia, realizzato con il permesso del soprintendente Codello; uno sfregio alla storia d’una città meravigliosa che in un paese normale avrebbe condotto all’immediato licenziamento di un funzionario pubblico tanto manifestamente inadeguato, ed è per questo che il decreto Madìa ha le sue ragioni.

Forse dimentichi che il primo centro sinistra, quello Moro-Nenni, cadde sulla legge urbanistica. Né da allora è sorto un coordinamento tra i poteri che gestiscono la politica del territorio. Io non sono più in Parlamento dal 1994, ma ricordo che alla fine del ’93 il gruppo dei Verdi (primo firmatario la senatrice Rocchi) presentò un emendamento alla legge finanziaria che prevedeva l’istituzione di un unico ministero del territorio accorpando le competenze del ministero dei beni culturali, dei lavori pubblici, dei trasporti, dell’ambiente, della marina mercantile (allora c’era ancora) e dell’agricoltura Un testo molto interessante, che mi impegnai a trasformare in un disegno di legge. Ma qualche mese dopo fu sciolto il Parlamento, fu sciolta la Repubblica, fu sciolto tutto, e il “nuovo che avanzava” di queste cose non s’è mai più occupato.

Ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario del ministero senza che sostanzialmente nulla sia cambiato dal 1975, se non un’accelerazione burocratico-clientelare. Anche la riforma Franceschini, in fondo, è solo organizzativa.

Sono vent’anni almeno che il ministero è sottoposto a riforme di questo genere. Una volta c’è il direttore regionale e la volta dopo no, una volta c’è l’accorpamento degli uffici centrali e la volta dopo no, una volta c’è il segretario generale e la volta dopo no. Per carità, qui ci sono idee anche buone. Ma con chi le applichi poi? Faccio il caso dell’autonomia dei musei, un mio vecchio pallino. Qualche anno fa la Scuola Normale di Pisa fece un seminario sul tema a cui ero presente. L’impressione fu  che quei sistemi, laddove erano stati realizzati, si configuravano come altrettante Asl, dove contava di più il comitato di gestione che il coordinamento culturale.

Un paese immodificabile?

No, lo si può modificare, ma bisogna avere delle idee per modificarlo. Quelle che non si vedono da nessuna parte. Non certamente nelle chiacchiere sulla Costituzione e i suoi diritti esigibili su cui si esercitano oggi in tanti. Pensa a Stefano Rodotà e al disastro dell’acqua pubblica gestita dalle municipalizzate.

Io, nel mio piccolo, un’idea ce l’ho. Dar corso al grande progetto di Giovanni Urbani per la conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente. Un progetto degli anni ’70, ma perché definito in dettaglio sul piano operativo dallo stesso Urbani è attuabile già domattina. Non però attuabile dai nostri soprintendenti  che, figli della 1089 del 1939 e del metafisico restauro estetico, sono del tutto impreparati a affrontare un tema così duramente concreto e così vastamente politecnico. Ed è un’altra difficoltà cui si troverebbe davanti Franceschini qualora volesse davvero dar corso a questo così importante e innovativo progetto di tutela.

Infatti non è un caso che chi aveva formulato questo progetto, appunto Urbani, aveva anche identificato nell’istituzione del ministero dei beni culturali la principale causa di tutti i nostri mali.

Quindi tu pensi addirittura a un’abolizione del ministero dei beni culturali?

Io penso che nel disegno di legge sulla riforma della struttura di governo fatto da Franco Bassanini ministro della Funzione pubblica c’era una cosa più giusta delle altre. Togliere il portafoglio al ministro dei beni culturali. Ma disgraziatamente il vicepresidente di quel governo era anche il ministro dei beni culturali, quindi figuriamoci.

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Bruno Zanardi (1948), si è formato nell’Istituto centrale del restauro diretto da Giovanni Urbani. Abilitato a professore Ordinario di Teoria e tecnica del restauro è oggi Professore associato all’Università di Urbino “Carlo Bo” dove nel 2001 ha fondato il primo corso di laurea in Italia, per la formazione dei restauratori. Nel tempo della sua carriera è intervenuto su alcuni tra i monumenti e le opere più importanti della civiltà figurativa dell’Occidente. La Colonna Traiana, l’Ara Pacis, i mosaici paleocristiani e di Jacopo Torriti e gli affreschi già attribuiti a Giotto nella Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma, i rilievi di Benedetto Antelami nel Battistero di Parma, gli affreschi e i mosaici del Sancta Sanctorum, in Laterano, gli affreschi della Basilica di Assisi o i rilievi della facciata del Duomo di Orvieto. Tra le sue pubblicazioni, Il cantiere di Giotto (1996, intr. di F. Zeri, ntt. iconog. di C. Frugoni), la voce «Restauro» della «Enciclopedia Treccani del Novecento» (2004), Il restauro. Giovanni Urbani e Cesare Brandi due teorie a confronto (2009, intr. di S. Settis), Un patrimonio artistico senza (2013). E’ l’unico studioso italiano chiamato a scrivere nel Companion to Giotto della Cambdrige University (2004). Dal 2015 è vicepresidente dell’Associazione «Rete del Ritorno all’Italia in Abbandono».

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