Lo straniero. E se Pollock si mettesse a cantare?

Image property of the Albright-Knox Art Gallery, Buffalo, NY.

Con questo articolo ufficializziamo la Rubrica lo straniero che, accogliendo alcuni approfondimenti pubblicati su questo webmagazine in precedenza, confermano il punto di vista talvolta provocatorio, spesso scomodo dell’autore, o, semplicemente, personale, indipendente e sghembo…

Tempo fa, il musicista e saggista newyorchese Alex Ross si interrogava sulle ragioni del disamore per la musica colta d’oggi. Perché, si chiedeva all’incirca il dottor Ross, un dipinto astratto come il N. 5/1948 di Jackson Pollock viene universalmente apprezzato, tanto che in una recente asta è stato battuto a 140 milioni di dollari? Perché i tycoon e gli emiri si contendono gli architetti ultramoderni? E perché, all’opposto, l’omologa musica d’avanguardia ha invece scarsissimo seguito di pubblico? Tanto che, durante l’esecuzione di Panic di Harrison Birtwistle – un ditirambo a Dioniso per sassofono alto, un batterista jazz, ottoni, pedale da grancassa, bongos, tom tom per automobile ecc., – i presenti, al posto di inebriarsi tutti inneggiando al dio greco, sono fuggiti dal concerto? E perché lo stesso di frequente accade anche durante l’esecuzione d’un qualunque altro ditirambo, intermezzo o sonatina d’un musicista colto d’oggi?

Per gli architetti ultramoderni (ma anche quelli semplicemente moderni), si può chiudere subito la partita dicendo che dottor Ross parla forse perché non ha mai visto le opere prodotte negli ultimi decenni degli architetti d’avanguardia in Italia. I vari Crescent, Merville, Corviale, Vele, Nuvole, Verde vericale e tutte le torri che ovunque si cercano di costruire, purtroppo spesso costruendole. Come quella che per un pelo, o meglio, per adesso, Boris Podrecca doveva innalzare a Padova, di fianco alla Cappella degli Scrovegni, una pubblica dichiarazione d’irresponsabilità civile e ignoranza della storia, tratto peraltro comune a molti tra i nostri politici, architetti e urbanisti. Né, evidentemente, il dottor Ross mai si è trovato a passare o a vivere in una qualsiasi delle nuove periferie italiane, dove le appena dette irresponsabilità civile e ignoranza della storia di politici, architetti e urbanisti trovano la loro massima celebrazione. Tutte le periferie italiane. In verticale, da Aosta a Ragusa, orizzontalmente, da Ventimiglia a Rimini, diagonalmente da Trieste a Pantelleria o da Aosta a Trani. Quindi, per l’architettura, il dottor Ross non sa bene di cosa sta parlando. Almeno nel caso dell’Italia.

Restiamo invece a Pollock e Birtwistle. Quel che è sfuggito al dottor Ross è che – come del resto già in moltissimi hanno detto – l’arte contemporanea non è arte, ma critica d’arte. Lo è perché trova la propria azione nel parassitare gli aspetti formali dell’arte del passato, per restituirli in manufatti che stanno tra estetismo ornamentale e trovata sorprendente, tra decorazione stucchevole e gioco irresponsabile. Ciò con l’avallo dei testi confusi, quando non direttamente farneticanti, con cui la critica (cioè, il mercato) ci spiega perché soggettivi, casuali, inutili e insulsi prodotti visivi privi d’un qualsiasi valore veritativo, o più semplicemente storico, non sono tali, bensì vere opere d’arte colme di significati dei più vari; dalla libertà, alla democrazia, alla fatica di vivere, all’incomunicabilità e via regredendo, critica e pubblico, al vestito nuovo dell’imperatore.

Esempi? Infiniti. Si può andare dai ghirigori decorativi tracciati – a caso – su una tela, ai mucchietti di sassi posti – a caso – contro una parete, agli armadi lasciati, a caso, con mezza porta aperta, ai coniglietti modellati – a caso – con merda e paglia, alle tele bianche dipinte – a caso – di bianco, ai poveri pescicane collocati in vista – a caso – dentro un frizer, fino ai bambolotti di plastica tagliuzzati – a caso – e sporcati di rosso sangue. Ed è lo stesso di Pollock e Birtwistle, lasciando, il primo, cadere a caso, quindi a suo personalissimo gusto e sentimento, gocce di vari colori sulla tela, il secondo, lasciando invece cadere, sempre a caso, cioè a suo personalissimo gusto e sentimento, delle note sul pentagramma, quindi note che si collocano di fuori di ogni ‘armonia’ perché lasciate libere di comporsi in suoni ottenuti nei modi più vari, fino a piegare a strumento musicale qualsiasi cosa faccia rumore; in Panic, oltre ai già detti sassofono alto, batterista jazz, tom tom, eccetera, il vento, percussioni tra blocchi di legno e simili.

Con due differenze tra musica e manufatti pretesi artistici.

Una, che i ghirigori su una tela, i mucchietti di sassi, la serigrafia di Marilyn, gli armadi mezzi aperti e quant’altro casuale prodotto d’arredamento promosso a opera d’arte da critica e mercato, perciò divenuti à la mode, occupano uno spazio fisico, quindi li puoi appendere a una parete o appoggiare in una stanza d’un museo come d’un appartamento di condominio per uomini da lavoro come ha scritto tempo fa non a caso un grande etologo: Konrad Lorenz. Inoltre, se non soprattutto, quei prodotti decorativi hanno un ben preciso valore monetario anche ingentissimo (oggi; ma domani? quanto varrà tra un secolo un coniglietto di merda e paglia?). Perciò sono manufatti pienamente inseriti in un vitale ciclo economico, produttivo, commerciale e consumistico, inoltre facilitati, nell’indubbio successo, dal consentire a tutti d’esprimere alla loro vista soggettivi giudizi estetici usa-e-getta del tipo mi piace-non mi piace, ossia, peggio, mi diverte-non mi diverte. Il soggettivismo estetico popolare (pop) di massa (blog), che rende, nei fatti, il giudizio su Pollock, il coniglietto di merda o la tela bianca, l’equivalente di come si giudica un qualsiasi altro oggetto decorativo: dal mobile Ikea alla caffettiera Alessi, passando per l’abito firmato, le scarpe alla moda e così via.

L’altra differenza? Che per la musica, arte sommamente immateriale, infatti costituita da arie, tutto questo non funziona. Infatti, a differenza dell’arte figurativa, essa non ha un valore venale suo proprio, cioè direttamente collegato a un ben concreto prodotto. Lo ha invece in via indiretta. Cioè dai proventi terzi originati dai diritti d’autore sui biglietti dei concerti, ossia, soprattutto, dalle percentuali sulla vendita di dischi o cd; percentuali che se sono oggi modestissime per la musica classica storica, divengono quasi nulle sull’invendutissima musica d’avanguardia. Perché? Perché, a differenza di quanto accade per l’arte contemporanea, per darne un giudizio non basta lo sguardo estetico d’un attimo, ovvero il sorriso complice alla provocazione dell’artista-joker di turno, sentendosi così uomini o donne colte e di gusto. Per dare un giudizio su un concerto, dal vero o riprodotto che sia, bisogna invece fare un vero atto di presenza. Ad esempio, stare fermi e seduti per tutta la durata, ascoltando. Nel caso della musica colta contemporanea, ascoltando inermi e immobili per un’ora e più la destrutturazione della musica colta storica, cioè la musica classica, compiuta in piena metafisica del soggetto dal Birtwistle del caso. Con effetti, per i timpani, certamente sperimentali, certamente d’avanguardia e certamente colmi di significati simbolici e non, ma alla lunga insostenibili anche per le orecchie del più motivato degli estetisti (o ikeisti) di massa. Fino a fargli usare un sorgivo e vero esercizio critico sull’arte musicale d’oggi. La fuga dalla sala da concerto.

Che è quanto accadrebbe nei musei se un quadro di Pollock o un mucchietto di sassi messo in un’angolo d’una stanza all’improvviso si mettessero a cantare. Con buona pace dei 140 milioni di dollari pagati per il N. 5/1948 dell’artista statunitense. Opera il cui titolo dà i numeri, perché senza senso. Come senza senso è la musica di Birtwistle. Tutto ciò, non certo per colpa di Pollock o del musicista inglese, ma dei difficili tempi in cui, a loro, a noi, è stato dato di vivere. I tempi del dissidio tra Kultur e Zivilation.

+ ARTICOLI

Bruno Zanardi (1948), si è formato nell’Istituto centrale del restauro diretto da Giovanni Urbani. Abilitato a professore Ordinario di Teoria e tecnica del restauro è oggi Professore associato all’Università di Urbino “Carlo Bo” dove nel 2001 ha fondato il primo corso di laurea in Italia, per la formazione dei restauratori. Nel tempo della sua carriera è intervenuto su alcuni tra i monumenti e le opere più importanti della civiltà figurativa dell’Occidente. La Colonna Traiana, l’Ara Pacis, i mosaici paleocristiani e di Jacopo Torriti e gli affreschi già attribuiti a Giotto nella Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma, i rilievi di Benedetto Antelami nel Battistero di Parma, gli affreschi e i mosaici del Sancta Sanctorum, in Laterano, gli affreschi della Basilica di Assisi o i rilievi della facciata del Duomo di Orvieto. Tra le sue pubblicazioni, Il cantiere di Giotto (1996, intr. di F. Zeri, ntt. iconog. di C. Frugoni), la voce «Restauro» della «Enciclopedia Treccani del Novecento» (2004), Il restauro. Giovanni Urbani e Cesare Brandi due teorie a confronto (2009, intr. di S. Settis), Un patrimonio artistico senza (2013). E’ l’unico studioso italiano chiamato a scrivere nel Companion to Giotto della Cambdrige University (2004). Dal 2015 è vicepresidente dell’Associazione «Rete del Ritorno all’Italia in Abbandono».

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.