Il ritratto e il corpo acefalo dell’arte.

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Cristofano Allori, Giuditta con la testa di Oloferne, 1612 circa, Galleria Palatina, Firenze

Il ritratto si è ritratto da se stesso e dal proprio corpo, lasciando un corpo senza testa: acefalo. Così anche l’autoritratto. Il ritratto ha sostituito l’apparire allo sparire.

Il ritratto di cui mi occuperò in questo testo è il ritratto autonomo, cioè il solo volto, il viso, la faccia, ovvero, la testa del corpo umano, dipinto, scolpito o fotografato, e non del ritratto a mezzo busto o figura intera.

Il ritratto è un’opera che si organizza e si modula intorno ad una mancanza, ad una assenza. Si sviluppa intorno ad un indietreggiamento rispetto alla mancanza dell’originale.

Così come la maschera mortuaria, ritratto dell’estinto, diviene la presenza di un’assenza. Anzi, diventa proprio la testimonianza di una vita interrotta dalla morte ma che continua a ” vivere”, paradossalmente, nella morte: la vita esperita a partire dalla morte, produrre un ritratto attraverso l’esecuzione di un calco sul volto della persona appena morta.

Il ritratto cosa ritrae? L’oggetto di indagine e interrogazione del ritratto è il volto dell’uomo. Di un animale non si parla di ritratto ma di raffigurazione – si dice è raffigurata o è rappresentata la testa, seguita dal nome dell’ordine o della specie di appartenenza – la stessa regola vale per il genere del paesaggio e della natura morta.

Non ho mai sentito né letto: questo è il ritratto di una mela! Ce lo esplicita René Magritte quando nell’opera “Ceci n’est pas une pomme” ci avverte che l’oggetto raffigurato non è il ritratto di una mela né tantomeno una mela reale. Magritte con la scritta che dà il titolo all’opera – questa non è una mela – riportata all’interno del quadro, ci sottolinea, attirando la nostra attenzione come osservatori e testimoni che quello che stiamo guardando non è una mela ma la sua raffigurazione. In questo caso la scritta (la parola) ci dichiara e afferma il vero rispetto all’immagine.

Non è nemmeno corretto quando si afferma che “in un certo senso, ogni immagine artistica è una forma del volto[1], perché il volto umano è l’unico possibile oggetto di indagine del ritratto ed appartiene esclusivamente al corpo umano, vivo o morto.

Quale immagine può avere il ritratto se si ritrae? Non è possibile parlare di immagine, né di somiglianza ma piuttosto di alterità del ritratto – “il ritrarsi non è una negazione della presenza, né la sua pura latenza […] È alterità”[2] – è l’altro ritratto, quello che noi non siamo in grado di vedere ma che percepiamo, è quello che ritraendosi nelle retrovie della visione si rende in-visibile, visibile dentro, non ai nostri occhi ma ai nostri sensi.

Quindi l’alterità è una possibile immagine: l’immagine dell’altro, dell’altro che manca, di quella presenza che mancando ne sancisce l’assenza. Come nell’opera di Magritte, quella frase ci dice che quella immagine di mela che vediamo è la presenza di una assenza di cui essa ne è la prova: dove c’è immagine c’è presenza di un’assenza intorno alla quale si organizza il ritratto.

Produrre un ritratto”, questa affermazione, queste parole, recano al proprio interno una contraddizione non tanto di termini ma di fatto. Pro-durre, indica un condurre avanti, porre avanti, portare in primo piano.

Ritratto, invece è qualcosa che ritratta una sua posizione iniziale, qualcosa che si sposta da una dimensione all’altra: che più si porta in primo piano e più si allontana, più si ri-trae. Indietreggiando, o meglio, esplicitandolo con un ossimoro, avanzando all’indietro, si ritira fino a scomparire alla nostra visione. Il ritratto scompare alla visione nell’attimo in cui realizza la sua più lucida presenza, cioè quando viene ad identificarsi con lo stato più profondo e reale della trasparenza.

Il ritrarsi o l’autoritrarsi è una condizione di abbandono. L’abbandono della prima linea, è un arretrare rispetto al primo piano, alla frontalità, alla frontalità dello sguardo, al vis a vis.

Passare di piano in piano, spostarsi nelle retrovie, fino all’infinito sospendendosi alla visibilità. Arretrare sottraendosi al proprio sguardo e a quello dell’osservatore. Si costituisce come corpo trasparente ma non si istituisce come immagine, incuneandosi nel proprio stato di trasparenza e propria non-visibilità.

Il ritratto assorbito nella propria trasparenza, e quindi nella non-visibilità, per antonomasia, è quello di Dio, nec videre potest ( I Tim. 6,16). Al ritratto di Dio si può risalire in una distanza ideale dal ritratto dell’uomo, il volto di Dio è al di là di ogni volto ed è dentro ad ogni ri-tratto.

L’uomo che come testimoniano le sacre scritture, Dio, lo “ creò a sua immagine”. Il volto di Dio è ciò che possiamo definire il ritratto assoluto – universale –  o l’assoluto invisibile. Come scrive J. L. Nancy, “l’immagine di Dio è l’immagine dell’invisibilità del quale è escluso si faccia immagine”[3].

Dunque ritratto dell’invisibilità ma non dell’in-vocalità. Il ritratto di Dio non è immagine ma voce, è parola non fisionomia: è verba che si traduce in scripta. Ed è proprio per fugare la volatilità della parola, di quella parola divina, che la parola pronunciata si cristallizza in scrittura e in carne con la creazione dell’uomo[4].

Un altro esempio della forza creatrice della parola divina è legato al tema dell’Annunciazione, quando l’angelo, messaggero della parola di Dio annuncia a Maria che partorirà un bambino, figlio di Dio. La parola qui diventa inseminatrice, è portatrice del seme che procreerà il figlio di Dio.

La figura di Maria, madre di Gesù, la si può paragonare ad una macchina, coniugata (con Giuseppe) nella realtà ma celibe nell’altra sua funzione, e cioè quella di traduttrice, trasformatrice, commutatrice e matrice del verbo che si fece carne[5]. Con la nascita di Gesù prende corpo ancor più vividamente che la parola di Dio si è tradotta in carne, in uomo. Anche in questo caso, cioè che dalla parola divina che si è trasformata in seme nel ventre di Maria, che ha portato alla luce il figlio di Dio[6], si può intravedere una possibile immagine del ritratto di Dio, ma resta ancora preminente l’idea di un’immagine non visiva ma vocale.

Acefalità *

Il ritratto è ritirato da tutto quello che non è la sua propria immagine, staccato dal corpo e dalla realtà che lo circonda, autonomo rispetto al proprio corpo.

Il filosofo francese J. L. Nancy nel suo libro “Il ritratto e il suo sguardo” scrive: “l’oggetto del ritratto è in senso stretto il soggetto assoluto: del tutto staccato da ciò che non è lui stesso, del tutto ritirato dall’esteriorità”[7].

Ogni ritratto diviene così l’acuta testimonianza di un corpo acefalo. Il corpo che non è visibile, che con la rappresentazione, o meglio, la presentazione del ritratto, è sottratto alla nostra visione ma contemporaneamente non è sottratto alla propria assente presenza acefala.

Considerando così il ritratto ci troviamo di fronte, nell’arco di tutta la storia dell’arte, a numerosissimi corpi senza testa e che possiamo considerare i corpi acefali dell’arte. Corpi che non hanno e non avranno mai la possibilità di assurgere al mondo del visibile. Noi, con il nostro corpo, il nostro essere osservatori, siamo presenti al ritratto ma assenti nei confronti del corpo e quindi testimoni di questa acefalia dell’arte.

Ritorniamo alle Sacre Scritture, Dio legittimò con il perdono di Giuditta, l’autonomia del ritratto e la subalterna acefalia del corpo.

Ricordiamo l’episodio biblico di Giuditta[8]. Costei, ritrasse la testa dal corpo di Oloferne (generale dell’esercito assiro che in quel momento teneva sotto assedio la città di Giuditta), staccandola con due colpi di scimitarra, lasciando un corpo senza testa, caldo, ancora pulsante, palpitante e stillante di sangue.

Giuditta con questo gesto e con il susseguente gesto del mostrare al suo popolo la sola testa di Oloferne confinò il ritratto nel suo limite e nel suo perenne ritrarsi nelle retrovie, allontanandosi dal corpo e dalla visione in primo piano rispetto all’osservatore.

Il ritratto è concentrato su se stesso, è confinato nei suoi stessi limiti, attira l’attenzione sul proprio volto. Il corpo acefalo, invece, è nello spazio, è esso stesso luogo di quello spazio che è il mondo: i suoi limiti partecipano in un continuo scambio osmotico con il mondo.

Il corpo acefalo non è autoreferenziale come il ritratto ma è legato al mondo, ha relazione con tutto ciò che lo circonda, vive la sua condizione di acefalia nel mondo e si relaziona con esso. Il ritratto non partecipa alle cose del mondo, non è più partecipe dell’energia cosmica. Come opportunamente scrive Nancy “il ritratto ha rapporto solo con se stesso”[9], il corpo, invece, si rapporta ed ha rapporti con il mondo e con gli altri corpi. Il corpo sta al mondo come il ritratto sta alla propria assenza.

Il volto ritratto, nel trascendere, dichiara “la sua assenza dal mondo”. Per avviarsi verso la propria ritrattazione, lascia all’istante, nell’immanenza dell’ atto violento “lo sradicamento da un essere”[10], dando luogo alla sua condizione di straniero nei confronti di un corpo lasciato acefalo. Questo atto violento costringe il corpo acefalo, per sopravvivere, per permanere, in questa nuova condizione a rifugiarsi e ad abitare il corpo dell’opera – corpo e non immagine – dove acquisisce, come corpo dell’opera, la visione nel confronto con l’osservatore, nello scambio chiasmico fra gli sguardi. Ricordiamo che è il corpo dell’opera che vede con tutto il suo corpo e non il corpo acefalo a trasformarsi nella sua totalità in volto che vede.

In questo nuovo aspetto, il corpo acefalo, attraverso il corpo dell’opera, diventa vedente con tutto il corpo, dove anche quando è un frammento conserva la capacità del tutto che gli permette di vivere autonomamente. Rainer Maria Rilke descrive questo concetto nella celebre poesia “Torso arcaico di Apollo”, dove il poeta, in una visita al Louvre, davanti al corpo mutilato di arti e testa, frammento di una statua rinvenuto a Mileto (torso di Mileto), così si esprime:

Non conoscemmo il suo capo inaudito
e le iridi che vi maturavano. Ma il torso 
tuttavia arde come un candelabro 
dove il suo sguardo, solo indietro volto,
resta e splende. Altrimenti non potrebbe abbagliarti
la curva del suo petto e lungo il rivolgere
lieve dei lombi scorrere un sorriso
 fino a quel centro dove l’uomo genera.

E questa pietra sfigurata e tozza
vedresti sotto il diafano architrave delle spalle,
e non scintillerebbe come pelle di belva,

e non eromperebbe da ogni orlo come un astro:
perché là non c’è punto che non veda
te, la tua vita. Tu devi mutarla.

Rilke sostiene in questo componimento che questa statua nonostante sia solo un torso è un corpo vivo e vegeto, che sprizza energia e vitalità da ogni punto del proprio corpo tale da farla risultare viva e vedente da ogni poro della propria pelle.

Il ritratto può rappresentare una donna o un uomo ma non ha sesso. Ha più orifizi di quanti ne ha il corpo ma nessuno di questi ha l’abilità di pro-durre, di pro-creare.

Il volto ha orifizi per sentire, per guardare, per fiutare e per respirare, ma non ha, come il corpo, ne l’ano ne il sesso. Il corpo sessuato è capace di riprodursi; di procreare altri corpi acefali ma non altri ritratti. Il corpo acefalo ha la possibilità di accoppiarsi e ri-creare altri corpi; al ritratto, è stata eliminata questa possibilità.

Il ritratto non è fertile e non ha capacità di riprodursi: è sterile. Diventa sterile per il suo continuo infinitamente  ritrarsi, nell’atto di ritirarsi nella propria trasparenza, nella propria intimità fino a scomparire dal mondo del visibile davanti ai nostri occhi.

La relazione fra il ritratto e il proprio corpo è di estraneità. Il corpo diventa estraneo al proprio volto ritratto: diventa straniero. Per Levinas “non si è mai così lontani da se stessi come quando ci si immagina somiglianti al proprio ritratto[11]. Si produce così una trasformazione di quanto afferma il filosofo francese Nancy, che ha scritto, il ritratto è “me e non mio”[12] in il ritratto è me e non io. Costringendo il ritratto a “rivendicare una tragica condizione di inappartenenza, l’abbandono di ogni identità”[13], come ha scritto Maurice Blanchot.

Il ri_tratto nel suo ritrarsi procura una frattura, uno scontro, un’elisione d’identità fra – prima di tutto – il modello e il ritratto, fra l’oggetto e il soggetto. Il ritratto (l’immagine ritratta) che sfugge nel suo ritrarsi rispetto al modello, quale identità può conservare come oggetto rispetto al soggetto ritratto? Da qui una prima separazione con accenti di violenza. Si realizza un taglio tra il modello-oggetto e il soggetto-ritratto.

Questo scollamento di separazione si perpetua con la stessa forza e decisione tra il corpo e il volto che si ritrae. La separazione tra ritratto e corpo diventa un vero atto di violenza, di decapitazione, che lascia un corpo acefalo da una parte e una testa senza corpo dall’altra.

In questo senso l’immagine ritratta è l’immagine dell’alterità, l’altro dal modello, è l’altro che si rispecchia nel ritrarsi del ritratto: è l’alterità del mondo. Quando, invece, l’immagine del ritratto si discosta, si oppone all’immagine del mondo e da sinonimo di alterità diventa velatura e rivelatura  di un faccia a faccia, di un vis a vis vuoto e superficiale generando immagini di negazione, di mancanza di autonomia e ritrazione.

In questo panorama l’alterità non può imporre le tante immagini d’altri ma la propria; tale da affermare che il ritratto non ha una propria immagine se non quella ultima del suo ritrarsi, l’unica possibile: quella della morte.

Il corpo acefalo è un corpo senza testa, senza cervello, sede della ragione e del pensiero, sede cognitiva dell’intero corpo, così, in merito, si esprime ancora Blanchot, quando scrive che, la testa è sede della “ragione raziocinante, il calcolo, la misura e il potere”[14].

La testa è sede anche di emozioni e sentimenti. Infatti in studi recenti è stato provato che tutto viene deciso nel cervello, in quella regione del cervello che il neuroscienziato J. E. Le Doux chiama “cervello emotivo” e lo psicologo D. Coleman “mente emozionale”. Quindi il corpo senza testa non può accedere né alla sfera cognitiva-razionale né alla sfera dei sentimenti e dell’emozioni. È un corpo vivo ma deragliato su un binario morto. Ha bisogno di altre menti e di altri sentimenti per prolungare il suo viaggio. È un corpo che non gli è concesso di accedere al mondo del pensato ma solo a quello dell’ impensato: gli è concesso tutto ciò che è possibile pensare prima del pensato e fuori della cerchia del pensato nell’esatto momento in cui si origina il pensiero.

La mente, i sensi e tutte le funzioni che tengono in vita il corpo acefalo sono quelli dell’osservatore, testimone di uno scambio interconnesso di un corpo a corpo: corpo dell’opera[15] e corpo dell’osservatore. Rispetto al ri_tratto non si determina un vis a vis, invece di fronte al corpo acefalo si concretizza un corpo a corpo.

Questo avviene perché il ri­_tratto si ritira nella sua trasparenza mentre il corpo partecipa al continuo confronto con il corpo del mondo, partecipa alla memoria collettiva, alla memoria del mondo, alla memoria genetica.

Il ri­_tratto si rapporta alla memoria cerebrale, il corpo acefalo con la memoria genetica. Così ci troviamo di fronte ad un marcato confronto tra memoria cerebrale e memoria genetica.

Da questo confronto emerge che la memoria genetica appartiene al corpo sia nella sua condizione di vita che di morte, mentre la memoria cerebrale è indissolubilmente legata al solo periodo di vita. Al ri_tratto si concede la memoria cerebrale, al corpo sine capite la memoria genetica. Alla prima si ascrive la categoria del pensiero dell’uomo dalle origini ad oggi, la seconda, invece, si inscrive in quell’alveo che è la storia dell’uomo e del mondo.

Il ri_tratto è testimonianza di un’esistenza che chiede e rivendica una propria identità, il corpo sine capite accetta la sua acefalità ed è testimonianza di un evento tragico: è testimone di una subordinata esistenza e di una mancata identità.

*Al posto del corretto termine – acefalia – ho preferito utilizzare il termine acefalità perché più diretto, più incisivo, che  indica maggiormente un  taglio netto, così l’acefalia diventa una condizione dell’acefalità.

 

Note

1. Ghilardi, Enigma e lo specchio, Esedra editrice, Padova, 2006, p. 52

2. Levinas, Altrimenti che essere, Jaca Book, Milano, 1983, p. 112

3. L. Nancy, L’altro ritratto, Castelvecchi, Roma, 2014, p. 62

4. Vangelo secondo Giovanni, versi 1/13

5. Vangelo secondo Giovanni, verso 14

6. Vangelo secondo Luca, versi 26/38

7. L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaele Cortina editore, Milano, 2002, p. 11

8. Libro di Giuditta, Antico Testamento, versi 13 – 1/10

9. L. Nancy, op. cit., p. 28

10. Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1980, p. 73

11. Noudelmann, Image et absence, L’Harmattan, Paris, 1998, p.231

12. L. Nancy, Il corpo dell ’arte, Mimesis, 2004, Milano, p.27

13. Blanchot, La comunità inconfessabile, SE, Milano, 2002, p.48

14. Ibidem

15. Rimando ad un mio testo, Il corpo dell’opera,l’altro nell’arte, pubblicato in Art a Part of culture: http://www.artapartofculture.net/2015/01/10/il-corpo-dellopera-laltro-nellarte/

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Luigi Auriemma (1961) fin dal 1988 ha partecipato a svariate esposizioni personali e collettive. Nelle sue opere il linguaggio,la parola,s’interroga sulla propria consistenza, origine e natura prima di diventare immagine di se stessa. Sue opere sono inserite in collezioni pubbliche e private.

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